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Unicredit: Messori, ‘con Commerzbank può nascere colosso bancario tra primi cinque Ue’

Unicredit: Messori, 'con Commerzbank può nascere colosso bancario tra primi cinque Ue'

Unicredit tenta la scalata a Commerzbank, ma in Germania si alzano le barricate: i sindacati temono per i posti di lavoro, i politici difendono l’identità nazionale della banca, e i gruppi bancari tedeschi mostrano reticenze. Tra i piccoli e medi imprenditori emerge qualche segnale di apertura, con l’idea che una fusione possa agevolare l’economia reale. Sullo sfondo si profila Deutsche Bank, che potrebbe muoversi in ottica di strategia difensiva, pur essendo ancora gravata da problemi interni. A segnalare all’Adnkronos queste dinamiche è Marcello Messori, ex presidente delle Ferrovie dello Stato ed economista dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze: "Superare le barriere nazionali nel mercato bancario è essenziale per il progresso dell'Unione europea". Se l’operazione di Unicredit andasse a buon fine, nascerebbe un colosso bancario europeo "tra i primi cinque-sei del continente per dimensione dell'attivo - spiega il professore - in grado di oltrepassare definitivamente i vecchi confini nazionali. Sarebbe perfettamente in linea con la strada indicata anche da Draghi, e sebbene i timori sindacali per eventuali riduzioni di personale siano legittimi, opporsi alla fusione in nome della 'germanicità' di una banca è inaccettabile".

La strada è complessa ma l'operazione non è priva di sostegno: "Ci sono stati dei segnali da parte di istituzioni europee importanti - dice - la Banca Centrale europea e la stessa Banca Centrale tedesca si sono espresse favorevolmente: ovviamente non rispetto a quest'operazione nello specifico, ma rispetto ad aggregazioni transfrontaliere". Quali i prossimi passi di Unicredit? "L'amministratore delegato, Andrea Orcel, ha sottolineato in alcune occasioni che la prima mossa a questo punto non spetta a Unicredit, ma agli azionisti e, diciamo così, agli stakeholder di Commerzbank". Approccio amichevole nella scalata, ha ribadito Orcel: "Anche perché - spiega Messori - ci sono dei passaggi istituzionali comunque complicati: Unicredit attualmente ha raggiunto ufficialmente il 9% di quota proprietaria, per superare la barriera del 10% deve fare una comunicazione alla banca centrale europea e questo lo dovrà fare per i multipli del 10% fino a che poi, secondo la legge tedesca, superata la soglia del 30% dovrebbe lanciare un'offerta pubblica di acquisto. Prima di arrivare a questo punto - spiega ancora l'economista - è evidente che Unicredit voglia attendere le reazioni effettive da parte degli azionisti e degli stakeholder di Commerzbank".

I sindacati sono sul piede di guerra: "È comprensibile - continua l'economista - che vogliano vederci chiaro sull'operazione. Un'acquisizione di questa portata solleva questioni delicate. Unicredit ha già una presenza significativa sul mercato tedesco, e una fusione di tale entità comporterebbe inevitabilmente riorganizzazioni e possibili impatti occupazionali. Le preoccupazioni per i posti di lavoro sono, dunque, più che legittime". Gli imprenditori tedeschi, però, sembrano aprire: "C’è un forte interesse, da parte del settore economico reale tedesco, nel garantire che le proprie banche siano efficienti - dice Messori - non possiamo dimenticare che Commerzbank ha attraversato momenti estremamente difficili durante le crisi finanziarie, al punto che lo Stato tedesco è dovuto intervenire come azionista di maggioranza relativa. Da subito, però, il governo aveva chiarito che la sua partecipazione sarebbe stata temporanea, e infatti ha mantenuto l’impegno mettendo in vendita una quota significativa, circa un quarto, della sua partecipazione. Quota che è stata poi acquisita da Unicredit". Questo, continua, fa parte di un più ampio processo di rafforzamento e riorganizzazione di Commerzbank, che non può che portare benefici all’economia reale e al tessuto imprenditoriale tedesco. "Non sorprende quindi che molti imprenditori vedano di buon occhio l’operazione". Chi si oppone allora? "Un intreccio complesso - dice Messori - che vede, da un lato, politici che difendono l’identità nazionale delle banche, dall’altro gruppi bancari, preoccupati che l’operazione possa abbattere le storiche barriere del mercato. Il settore bancario tedesco, non dimentichiamolo, gode di protezioni molto forti rispetto alla concorrenza".

Ci si chiede se Deutsche Bank abbia le munizioni per opporsi a questa operazione: "Innanzitutto - dice l'economista - bisogna verificare che ci sia un effettivo interesse di Deutsche Bank. Qualora ci fosse - continua- mi sembra che la logica non sarebbe tanto di razionalizzazione del settore bancario tedesco, ma piuttosto una logica difensiva posta in essere per evitare l'apertura al mercato. Deutsche Bank, spiega il professore, è in una fase di riorganizzazione che dura da molti anni, ha compiuto passi avanti in termini di superamento delle inefficienze, però ha ancora vulnerabilità. "Quella banca - dice - ha avuto problemi molto gravi anche di capitalizzazione, quindi va verificato con attenzione se abbia le risorse compatibili con la sua riorganizzazione per un'operazione così impegnativa".

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Curiosità

L’app Intesa Sanpaolo e il curioso mistero di “rutto.mp3”:...

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A volte gli imprevisti bussano alla porta nei modi più strani. E stavolta, ci ritroviamo di fronte a una curiosità che ci ha colpiti e un po’ destabilizzati. Abbiamo scoperto – e “scoperto” è proprio la parola giusta – che l’app ufficiale di Intesa Sanpaolo, uno dei nomi più noti della scena bancaria italiana, contiene al suo interno un file audio denominato “rutto.mp3”. Già così, la vicenda suona strana. Eppure, dietro a ciò che potrebbe sembrare una semplice burla (o uno scherzo maldestro), si nascondono diverse questioni che meritano attenzione, soprattutto quando si tratta di un’app utilizzata da migliaia di persone per gestire i propri risparmi.

Potrebbe sembrare l’ennesima storia nata per far sorridere sui social ma non è esattamente così. Qui ci troviamo nel regno della finanza, un ambiente dove tutto dovrebbe essere meticolosamente controllato. Emerge Tools, la società che ha portato a galla questa anomalia, si è occupata di scandagliare la struttura dell’app di Intesa Sanpaolo. Ed è così che è venuto a galla “rutto.mp3”: un file nascosto (o meglio, dimenticato?) che non ha alcuna utilità. Non fa parte di un gioco, non è un Easter egg simpatico: sembra proprio un pezzo superfluo lasciato indietro durante la fase di sviluppo.

Un’app un po’ troppo “pesante” per i nostri dispositivi

Dopo la scoperta del file “rutto.mp3”, Emerge Tools ha voluto andare ancora più a fondo. E sapete cosa è emerso? Che l’app di Intesa Sanpaolo, nel complesso, arriva a sfiorare i 700 MB di spazio occupato sui nostri smartphone. Una cifra, onestamente, impressionante. Pensateci: in un’epoca in cui tutto corre veloce e l’ottimizzazione è la parola d’ordine, ritrovarsi con un’app bancaria così voluminosa può far storcere il naso a molti. Gli esperti hanno sottolineato che oltre il 64% di questo “peso” è dato dai cosiddetti framework dinamici, librerie che permettono il funzionamento dell’app ma che potrebbero essere alleggerite in modo considerevole.

L’analisi ha puntato il dito anche su tanti altri file: duplicati, immagini non ottimizzate e risorse probabilmente dimenticate da chiunque abbia messo mano al codice. Insomma, un accumulo di frammenti che, a prima vista, potrebbero essere ripuliti senza troppi traumi. E la domanda che sorge spontanea è: perché tutto ciò non è già stato fatto? O forse il team di sviluppo si è perso per strada, oppure non ha pensato che i dispositivi degli utenti possano risentirne parecchio. In ogni caso, la situazione non passa di certo inosservata.

“rutto.mp3”: uno scherzo o un segnale di scarsa attenzione?

Ma cos’è esattamente questo famoso file audio dal nome tanto esplicito quanto improbabile? A quanto pare, un contenuto senza alcun valore funzionale, giusto un frammento potenzialmente goliardico. Emerge Tools, però, l’ha messo sotto i riflettori per un motivo ben preciso: se in un’app così importante, destinata a operazioni bancarie di rilievo, si trova qualcosa che non dovrebbe esserci, viene subito da chiedersi se la cura per i dettagli sia adeguata. Certo, “rutto.mp3” in sé non mette a rischio i nostri conti correnti, ma quanto possiamo sentirci sicuri se gli sviluppatori lasciano in giro elementi del genere?

È una riflessione lecita, soprattutto se ci poniamo dal punto di vista di chi, ogni giorno, apre l’app per controllare il saldo, effettuare bonifici o gestire carte di credito. Nessuno si aspetterebbe di imbattersi in file che non hanno alcuna correlazione con le normali funzioni di un prodotto bancario.

Reazioni contrastanti sul web: tra risate e preoccupazioni

Non poteva mancare, ovviamente, il tam-tam mediatico e digitale. In molti, sui social, hanno reagito con ironia. Alcuni hanno scherzato sull’ipotesi che qualche sviluppatore si sia concesso un “momento di svago” dimenticando di ripulire il codice. Altri, più preoccupati, hanno sollevato dubbi sul fatto che un colosso bancario possa mostrare simili disattenzioni. In un settore così delicato, tutto dev’essere sotto controllo, dalla sicurezza informatica fino al dettaglio più microscopico. Qualcuno ha anche ipotizzato che, se si lasciano indizi di scarsa precisione a questo livello, allora ci potrebbe essere altro di cui preoccuparsi.

Possibili rischi per la reputazione e il ruolo della qualità del software

Va detto chiaramente: “rutto.mp3” non espone di per sé l’utente a rischi immediati. Non è un virus, né un malware. Ma la sua presenza diventa un elemento simbolico, un segnale che fa drizzare le antenne a chiunque abbia a che fare con programmi informatici di un certo rilievo. In un clima dove la fiducia del pubblico è merce preziosa, basta pochissimo per intaccare l’immagine di una banca. E sappiamo bene quanto, per un istituto finanziario, mantenere una reputazione solida sia fondamentale.

Intesa Sanpaolo: silenzio e attesa di chiarimenti

Al momento, da parte di Intesa Sanpaolo, non è arrivata alcuna comunicazione ufficiale. Stiamo tenendo d’occhio la situazione, perché è plausibile che la banca si stia muovendo per risolvere la faccenda in modo tempestivo. Del resto, alleggerire un’app da 700 MB, eliminare i file superflui e magari rassicurare noi utenti sull’accuratezza dei prossimi aggiornamenti potrebbe essere un bel segnale di responsabilità. Se si vuole rimediare, si può fare. E in modo anche relativamente rapido. C’è da sperare che questa lezione serva a evitare ulteriori scivoloni e anzi, a rilanciare un processo di miglioramento.

Uno spunto per l’intero settore bancario e digitale

D’altronde, il caso “rutto.mp3” va ben oltre la singola vicenda di Intesa Sanpaolo. Porta alla luce un tema più ampio: l’importanza di curare ogni millimetro di software. Troppo spesso, nelle fasi di sviluppo, si lascia indietro qualcosa di inutile e si trascura l’ottimizzazione. Ma in un’epoca in cui le app bancarie sono il principale mezzo attraverso cui effettuiamo operazioni finanziarie, non si può permettere che anche un dettaglio trascurabile sfugga. Emerge Tools, dal canto suo, ha fatto un lavoro che ci spinge tutti a riflettere. Non è questione di trovare il colpevole ma di capire come assicurarsi che tutto funzioni in modo impeccabile.

Ciò che conta, in definitiva, è che il sistema bancario si mostri consapevole e reattivo. Da parte nostra, continueremo a seguire la storia, perché è interessante vedere come un episodio insolito possa trasformarsi in un richiamo per l’intera industria della finanza. Se “rutto.mp3” riuscirà a stimolare un miglioramento, allora forse, per quanto possa apparire strano dirlo, la sua breve e assurda esistenza avrà avuto uno scopo. Staremo a vedere se Intesa Sanpaolo saprà cogliere l’occasione per dimostrare che la fiducia dei cittadini è davvero una priorità. Nel frattempo, la curiosità resta: chi avrà mai pensato di inserire quel file? E soprattutto, quante altre “sorprese” simili si nascondono nel mondo delle app che usiamo ogni giorno? Domande aperte, che speriamo non restino troppo a lungo senza risposta.

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Finanza

Fuga da Piazza Affari, l’esperto: ‘Si parla di...

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"Pesano costi di quotazione elevati, la storica dipendenza dal credito bancario e una mentalità di breve termine che scoraggia gli investitori"

Fuga da Piazza Affari, l'esperto: 'Si parla di 28 miliardi in uscita, vi spiego perché il delisting'

Un miliardo in entrata, ventotto in uscita. È il bilancio di un mercato dei capitali che perde pezzi, colpendo soprattutto le piccole e medie imprese. Se un tempo la Borsa era un traguardo, oggi il delisting per molti è una scelta strategica. A pesare sono costi di quotazione elevati, la storica dipendenza dal credito bancario e una mentalità di breve termine che scoraggia gli investitori. A tracciare lo scenario all'Adnkronos è l'analista Pietro Calì. "Si parla di 28 miliardi in uscita rispetto a 1 miliardo in entrata: queste le conseguenze dei delisting", sottolinea. "Al di là delle big come Cnh soprattutto il mercato mid e small è stato colpito. Sulle società a piccola capitalizzazione il delisting è conseguenza della scarsa liquidità sul mercato, pochi pochissimi scambi, fa riflettere il fatto che fino a qualche anno fa la quotazione era un traguardo, un obiettivo. Adesso tutt'altro, e il Delisting non è considerato un fallimento. Negli ultimi 4 anni 100 società hanno lasciato Piazza Affari", prosegue Calì. Ma quali sono i fattori che pesano?

Costi di quotazione elevati... 6/7% del capitale

I costi di quotazione sono alti. "Per costi di quotazione - sottolinea Calì - intendiamo i costi diretti e indiretti, nell'iter di quotazione ci sono diverse figure necessarie come società di revisione, studi legali, società di comunicazione, advisor e global cordinator. Il costo si aggira intorno al 6/7% del capitale raccolto. L'iter di quotazione è tendenzialmente molto complesso. I costi inoltre non sono una tantum, ma alcuni sono ricorrenti. Come è giusto che sia la quotazione pretende grande trasparenza. E la trasparenza per le aziende ha un costo", sottolinea.

E la cultura del ... debito.. guadate a Mps

La cultura finanziaria italiana si basa ancora sul finanziamento bancario, sul debito. "Proprio per questo - evidenzia l'analista - la cultura delle azioni è molto meno radicata rispetto al mondo anglosassone (le azioni per gli italiani sono poco presenti in percentuale rispetto al mercato americano). È una questione di cultura e fiducia", sottolinea. Il problema, prosegue, "è che se il finanziamento non è regolato del mercato si possono creare distorsioni in riferimento al merito creditizio". Ciò che è successo a banche come Mps, chiosa, ''è la conseguenza del sistema non meritocratico dei finanziamenti il direttore di banca che concede finanziamenti non realmente coperti. Questa cultura forse è l'aspetto più grave e impattante in un sistema che, per essere competitivo, deve cambiare", evidenzia.

E quel vizio di non guardare lontano..

Le aziende quotate in Borsa hanno spesso manager la cui abilità è valutata sul breve termine. "Se io sono Ad di una società spesso tendo a essere misurato su obiettivi di breve termine", sottolinea Calì. "Chi porta ottimi numeri nel breve termine spesso sul lungo si sbaglia", dice. "Ma questo è un paradigma generale sul business. La sostenibilità di una azienda può essere penalizzata dalla redditività di breve termine, come conseguenza ci possiamo trovare aziende e dunque titoli che nel lungo termine si ritrovano in difficoltà. Deludendo le aspettative degli azionisti. Nelle non quotate, rimarca l'analista, "il management, avendo meno trasparenza, può avere più spazio e tempo per manovre di ampio respiro e lungo termine".

Ma non tutto va male.. oggi in Italia sono quotate 420 società da 837 mld

Barbara Lunghi, responsabile dei mercati primari azionari di Borsa Italiana, traccia il quadro: "Oggi in Italia sono quotate oltre 420 società con una capitalizzazione complessiva di 837 miliardi di euro", sottolinea. "Sono società di tutte le dimensioni, dalle piccole e piccolissime a società di maggiori dimensioni e appartengono a tutti i settori dell'economia italiana", afferma. "Le società italiane quotate - spiega - attraggono già oggi molti investitori internazionali, per un totale di 9.000 fondi e oltre 2 mila case di investimento". I primi investitori, sottolinea, sono americani, il 34%, seguiti dagli investitori istituzionali europei al 32 per cento. Di questi, la quota italiana è piuttosto limitata e pari all'8 per cento. Seguono gli investitori del Regno Unito al 19% e dall'Asia, il 2%".

C'è chi lavora per facilitare l'ingresso in Borsa

Fabrizio Testa, amministratore delegato di Borsa italiana, ribadisce che negli ultimi anni sono state portate alla quotazione molte più società di quelle delistate. "Quello che noi cerchiamo di fare - evidenzia - è facilitare l'ingresso in Borsa e lo facciamo su vari tavoli di lavoro, ad esempio con la task force del Tesoro abbiamo partecipato al draft della legge capitali e poi con un manifesto abbiamo supportato anche l'attivazione di un fondo di fondi che poi Cdp ha attivato. Ci sono altre altre iniziative, quindi l'intento è veramente di far sì che la Borsa porti risorse alternative di finanziamento alle società". Quello del delisting, rimarca Testa, non è solo un fenomeno italiano, è un fenomeno internazionale. Sono fasi abbastanza cicliche. Il delisting, spiega Testa, ha varie nature, spesso la maggior parte sono consolidamento e quindi Opa volte poi a far entrare delle eccellenze. (di Andrea Persili)

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Curiosità

Investire con le emozioni: un alleato o un nemico?

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Le emozioni sono spesso considerate il tallone d’Achille dell’investitore: paura, entusiasmo, ansia possono sembrare ostacoli insormontabili per chi cerca di agire con razionalità nei mercati finanziari. Eppure, eliminare del tutto il fattore emotivo non è solo impossibile, ma anche controproducente. La scienza della finanza comportamentale ci insegna che le emozioni, se comprese e gestite, possono diventare un prezioso strumento decisionale.

Perché le emozioni influenzano le decisioni finanziarie

Secondo lo psicologo premio Nobel Daniel Kahneman, le decisioni economiche non sono mai completamente razionali, ma guidate da un misto di ragionamento analitico e “pensiero veloce”, ovvero impulsi emotivi che ci aiutano a reagire rapidamente. Questo meccanismo, benché utile per risolvere problemi immediati, può portarci a commettere errori nei contesti complessi come quelli finanziari.

Un’indagine recente mostra come l’età giochi un ruolo determinante nel rapporto con le emozioni. I giovani investitori (under 35) sono i più influenzati da stati d’animo come l’euforia e il timore, mentre le generazioni più mature (over 65) tendono ad affidarsi a strategie più razionali, pur senza eliminare del tutto il ruolo emotivo. Questo non significa che l’esperienza riduca le emozioni, ma piuttosto che aiuta a sviluppare un migliore autocontrollo, come evidenziato dagli studi dello psicologo Walter Mischel sul concetto di “delayed gratification”.

Emozioni: nemiche o alleate?

Nel suo lavoro sulla neurobiologia delle decisioni, il neuroscienziato Antonio Damasio ha rivoluzionato la comprensione del legame tra emozioni e scelte. Egli sostiene che le emozioni siano un elemento essenziale nel processo decisionale, definendole come “marcatori somatici” che ci aiutano a valutare rapidamente le opzioni sulla base di esperienze precedenti.

Per esempio, un investitore che ha vissuto la paura di una crisi economica potrebbe essere più cauto durante una fase di mercato ribassista, evitando di vendere in preda al panico. Tuttavia, lo stesso meccanismo può portare a una paralisi decisionale se non si riesce a distinguere tra un rischio reale e una paura irrazionale.

La trappola del market timing

Un esempio classico di come le emozioni possano giocare brutti scherzi è il cosiddetto market timing, ossia la strategia di entrare o uscire dai mercati cercando di prevederne i movimenti. L’entusiasmo durante un rally di mercato porta spesso a comprare a prezzi elevati, mentre l’ansia durante un calo spinge a vendere a prezzi bassi. Questa dinamica, secondo l’economista Richard Thaler, è uno dei comportamenti più comuni e disastrosi tra gli investitori non professionisti.

Tuttavia, è proprio attraverso gli errori che le emozioni possono diventare un vantaggio. Il ricordo di una decisione impulsiva sbagliata, come vendere in preda al panico, può insegnare a mantenere una visione di lungo periodo e ad evitare errori simili in futuro.

Tre strategie per gestire le emozioni negli investimenti

Le emozioni non possono essere eliminate, ma è possibile sfruttarle in modo positivo. Ecco tre approcci pratici per farlo:

1. Imposta una strategia e rispettala.
Pianificare il proprio portafoglio con un obiettivo di lungo termine aiuta a ridurre l’impatto delle emozioni a breve termine nel trading online. Ricorda che i mercati sono volatili, ma storicamente premiano la pazienza.

2. Conosci te stesso.
Come suggerisce il consulente finanziario e psicologo MeirStatman, una buona parte del successo negli investimenti dipende dalla capacità di riconoscere i propri punti deboli emotivi. Sapere come reagisci a guadagni e perdite è fondamentale per sviluppare una disciplina solida.

3. Affidati a un consulente esperto.
L’aiuto di un professionista può essere cruciale per mantenere il controllo nei momenti di stress. Un consulente non solo fornisce un punto di vista razionale, ma aiuta anche a contestualizzare le fluttuazioni di mercato, ricordandoti i tuoi obiettivi originali.

Conclusioni

Investire non significa eliminare le emozioni, ma integrarle in un processo decisionale consapevole. Le emozioni sono un linguaggio che il nostro cervello usa per guidarci: imparare ad ascoltarle senza esserne dominati è la chiave per diventare un investitore migliore.

Come disse una volta Kahneman, “Le emozioni non sono un fallimento del pensiero razionale, ma una risorsa che, se ben utilizzata, può renderci più saggi.” Nell’universo complesso e imprevedibile degli investimenti, trasformare le emozioni da nemiche in alleate è il primo passo verso il successo.

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