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Cambio di stagione, rischi sottovalutati per salute: cosa succede quando temperatura si abbassa velocemente

Quando si passa dal caldo estivo alle temperature più basse, compaiono spesso raffreddori e faringiti: perché e come evitarlo

Ragazza si soffia il naso - Agenzia Fotogramma

La fine dell'estate porta con sé i primi malanni stagionali come raffreddore, tosse, mal di gola, dolori muscolari e articolari. "È frequente attribuire questi disturbi all'influenza, - dichiara all'Adnkronos Salute l'immunologo Mauro Minelli, responsabile per il Sud-Italia della Fondazione per la medicina personalizzata - per quanto dell'influenza ancora non sia certamente il tempo". "Oltre ai veri e propri virus influenzali, - spiega Minelli - altri agenti infettivi sono infatti in grado di provocare infezioni respiratorie che richiamano quelli della più classica delle sindromi invernali. Nelle forme più lievi i disturbi simil-influenzali possono essere determinati dai rhinovirus che causano il raffreddore comune. Nei quadri clinici più importanti ad entrare in gioco, oltre alla 'new entry' Sars-CoV-2, sono altri agenti infettivi come, ad esempio, i virus che appartengono alla famiglia dei paramixovirus tra i quali spiccano il virus respiratorio sinciziale e i virus della parainfluenza. Poi ci sono gli enterovirus diffusibili pure attraverso le feci ed in grado di genere disturbi intestinali oltre che respiratori".

Cosa succede al corpo quando si abbassano le temperature

"Quando si verificano cambiamenti climatici, - continua Minelli - come ad esempio il passaggio dal grande caldo che ha caratterizzato l'estate 2024 a temperature più basse, il nostro organismo reagisce attivando un meccanismo di termoregolazione. Nel momento in cui la colonnina del termometro scende, allo scopo di mantenere la temperatura corporea costante sui 37 gradi, il corpo genera calore attraverso il metabolismo dell'energia proveniente dall'attività muscolare e dall'alimentazione, differentemente da quel che accade nei giorni dell'afa quando, per disperdere il calore, l'organismo attiva diversi processi di compenso tra i quali soprattutto quello della sudorazione".

Poiché questo complesso meccanismo di regolazione termica coinvolge apparati vitali, come il sistema cardiocircolatorio, polmonare, nervoso, ormonale, "non è facile adattarsi velocemente a brusche variazioni delle temperature, soprattutto per chi soffre di patologie croniche o ha difese immunitarie non al massimo dell'efficienza funzionale, come gli anziani o i bambini più piccoli". "In particolare - puntualizza l'immunologo - l'apparato che di più sembra risentire del cambiamento è quello respiratorio: non a caso al cambio di stagione sono molto frequenti raffreddori e faringiti. In effetti, quando le temperature si abbassano, molte specie di microrganismi (siano batteri o virus) trovano un ambiente più adatto alla loro sopravvivenza e promuovono una serie di strategie d'azione finalizzate a rendere meno efficienti le difese di prima linea di cui l'organismo umano dispone".

"In particolare, la repentina prevalenza del 'fresco' o addirittura del freddo e ancor peggio del 'freddo umido' in diverse giornate e serate di questo tempo di mezzo - conclude Minelli - provoca la compromissione di un sofisticato sistema di protezione della mucosa respiratoria capace di bloccare e allontanare gli intrusi prima che possano far danni, così facilitando la vita ai microbi".

Come difendersi dagli sbalzi termici

Considerando che per le forme parainfluenzali, "differentemente da quelle influenzali, non esiste una specifica profilassi vaccinale, la strategia di prevenzione più valida per patologie causate da virus diffusibili per via aerea attraverso le gocce di saliva o muco e attraverso il contatto con superfici contaminate rimane l'osservazione di alcune semplici misure d'igiene - suggerisce Minelli - Preoccupiamoci pertanto di mantenere le mani pulite; starnutire o tossire evitando di disperdere goccioline di saliva nell'ambiente circostante; in assenza di acqua utilizzare disinfettanti per le mani a base alcolica; far aerare gli ambienti; evitare o limitare il più possibile contatti stretti con persone malate; proteggere la gola da vento e freddo; scegliere un abbigliamento adeguato".

"Ricordiamoci anche di evitare l'assunzione illogica, oltre che nociva, di antibiotici, a meno che il medico non riconosca i sintomi di una sovrainfezione batterica. Nelle infezioni virali, com'è a tutti noto, gli antibiotici sono inefficaci. Semmai, in casi particolari, specialmente in pazienti ad alto rischio, il medico può prescrivere farmaci antivirali - prosegue l'immunologo - Importante è anche l'adozione di misure adeguate per proteggersi a tavola, archiviando definitivamente gli eccessi e le abbuffate dell'estate per lasciare spazio a un'alimentazione nutriente e varia, aumentando leggermente anche l'apporto calorico giornaliero. Diete molto restrittive con pochissime calorie potrebbero rallentare la capacità di regolare la temperatura corporea".

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Salute e Benessere

“Covid non ha aumentato rischio di autismo nei...

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Dati rassicuranti da uno studio Usa su questionari ai genitori di 2mila figli della pandemia

Un laboratorio di ricerca

I bambini 'figli della pandemia' di Covid, compresi quelli esposti in utero all'infezione da Sars-CoV-2, non sembrano avere più probabilità di soffrire di autismo rispetto ai nati prima dell'epidemia globale di nuovo coronavirus o ai bebè non esposti all'infezione. Sono "dati rassicuranti" quelli che emergono dal primo rapporto sul tema, pubblicato su 'Jama Network Open' da un gruppo di ricercatori del Columbia University Vagelos College of Physicians and Surgeons, negli Usa.

Lo studio su 2000 bambini

Lo studio - sostenuto dal National Institute of Mental Health e dall'Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human Development - è stato condotto su circa 2mila bimbi nati tra gennaio 2018 e settembre 2021 al Morgan Stanley Children's Hospital e all'Allen Hospital del NewYork-Presbyterian, i cui genitori hanno compilato un questionario per lo screening del rischio autismo.

"E' noto che praticamente ogni tipo di sollecitazione negativa subita dalla mamma durante la gravidanza, comprese le infezioni e lo stress, aumentano il pericolo di autismo" per il nascituro, spiega Dani Dumitriu, docente di pediatria e psichiatria e autrice principale del lavoro.

"La portata della pandemia di Covid-19 ha indotto medici e scienziati dello sviluppo a temere che avremmo assistito a una crescita dei tassi di autismo, ma nel nostro studio non abbiamo riscontrato segnali di questo aumento" paventato. Un'osservazione "rassicurante", dice l'esperta.

Anche se "è troppo presto per avere numeri diagnostici definitivi", e la ricerca non ha preso in considerazione le diagnosi di autismo, ma solo il rischio di svilupparlo, misurato attraverso il questionario ai genitori, questo strumento è comunque "predittivo - precisa Dumitriu - e non mostra che l'esposizione prenatale a Covid o alla pandemia accresca la probabilità di autismo".

I bambini che durante le prime fasi della pandemia si trovavano nell'utero della mamma stanno raggiungendo l'età in cui potrebbero emergere i primi indicatori del rischio di autismo. Pertanto, attraverso il progetto Combo - Covid-19 Mother Baby Outcomes, il team di Dumitriu ha indagato i possibili effetti del Covid (stress materno correlato alla pandemia e infezione materna) sullo sviluppo neurologico infantile in diversi momenti dalla nascita, a 16 e 30 mesi d'età.

Dati a confronto

La probabilità di autismo è stata calcolata in base alle risposte dei genitori a un questionario sullo sviluppo neurologico, utilizzato dai pediatri per valutare il comportamento dei piccoli. Gli scienziati hanno confrontato i punteggi dei bimbi nati durante la pandemia con quelli dei nati prima, nonché i punteggi dei bambini esposti in utero a Sars-CoV-2 con quelli dei non esposti.

Il primo risultato dello studio è che "non sono state riscontrate differenze negli screening positivi per l'autismo tra i bambini nati prima o durante la pandemia". Siccome "Covid è ancora piuttosto diffuso, questa è una notizia confortante per le donne incinte che temono di ammalarsi e che ciò possa avere un impatto sul pericolo di autismo" per il loro bebè, commenta Dumitriu. A sorpresa, inoltre, la ricerca ha mostrato meno screening positivi per l'autismo tra i bimbi esposti a Sars-CoV-2 in utero, rispetto a quelli le cui madri non si erano ammalate in gravidanza. "Sospettiamo che avere avuto Covid in gravidanza possa avere influenzato la valutazione dei genitori sui comportamenti dei loro figli" e quindi le risposte al questionario, ipotizza Dumitriu.

Mano a mano che i figli della pandemia cresceranno, gli studiosi continueranno a monitorarli per eventuali diagnosi di autismo. Ma stando ai dati emersi, l'autrice principale ritiene "improbabile osservare un aumento dell'autismo associato a Covid. I bambini che erano in utero all'inizio pandemia stanno raggiungendo l'età in cui i primi segnali di autismo emergerebbero, ma in questa ricerca non li stiamo vedendo E poiché è risaputo che l'autismo è influenzato dall'ambiente prenatale, questo è molto rassicurante", ribadisce Dumitriu.

Gli scienziati monitoreranno i bambini anche per altri disturbi dello sviluppo neurologico, considerando che diversi studi condotti su neonati concepiti durante precedenti pandemie, disastri naturali, carestie o guerre hanno indicato la possibilità di vari problemi neuroevolutivi anche a distanza di anni, nell'adolescenza o addirittura nella prima età adulta. "Dobbiamo riconoscere che i bambini nati in pandemia hanno vissuto un'esperienza e un ambiente unici per lo stress e l'isolamento sociale dei loro genitori, e dobbiamo continuare a monitorarli per le potenziali ripercussioni evolutive o psichiatriche", dichiara Morgan Firestein, ricercatore associato in psichiatria e primo autore del lavoro.

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Salute e Benessere

Prevenzione cancro al seno, ad ottobre torna ‘Nasto...

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Prevenzione cancro al seno, ad ottobre torna 'Nasto rosa' di Lilt

Con oltre 56mila nuove diagnosi registrate nel 2023, il cancro al seno si è confermato il tumore femminile più frequente in Italia, rappresentando quasi il 30% di tutte le neoplasie nelle donne e, purtroppo, la prima causa di morte nella fascia d'età compresa tra i 35 e i 50 anni. Mentre alcuni fattori di rischio, come l'età, la storia riproduttiva e la familiarità, non sono modificabili. Uno degli obiettivi principali della campagna 'Lilt for Women-Nastro Rosa 2024' è "sensibilizzare le donne sui fattori di rischio modificabili, grazie a una maggiore consapevolezza e corretta informazione". Oggi la presentazione a Roma al ministero della Salute con la partecipazione del ministro Orazio Schillaci. La campagna promossa dalla Lega italiana per la lotta contro i tumori è incentrata sulla prevenzione, sulla diagnosi precoce e sulla solidarietà tra donne. Con il claim Join the Fight, le tre protagoniste di Lilt for Women - Nastro Rosa 2024 invitano le donne a "unirsi nella battaglia contro il cancro alla mammella, sottolineando l'importanza della cura del proprio seno in ogni fase della vita, perché la prevenzione non ha età".

Durante il mese di ottobre, questa mobilitazione coinvolge l'intero territorio nazionale grazie alle numerose iniziative promosse dalle oltre 100 associazioni della Lilt ed ai suoi circa 400 ambulatori e spazi di prevenzione.Tra queste, la possibilità di effettuare visite senologiche presso gli ambulatori aderenti, prenotabili al numero verde 800-998877 (da lunedì al venerdì dalle ore 10 alle ore 15), e la distribuzione di materiale informativo per diffondere conoscenza su questa crescente patologia e promuovere la prevenzione, unica arma attualmente vincente, come stile di vita.

Schittulli, 'il nostro obiettivo è la mortalità zero'

"L'impegno costante della Lilt - ha spiegato Francesco Schittulli, presidente nazionale della Lilt- è investire in salute, consapevoli che l'eliminazione di cattive abitudini come il consumo di tabacco, l'abuso di alcol, l'errata alimentazione e la sedentarietà potrebbero prevenire il 40% dei casi di cancro e ridurre la mortalità nella stessa misura, grazie alla partecipazione agli screening senologici, ancora oggi in stato di sofferenza. Queste evidenze ci spingono ad adottare un approccio trasversale per raggiungere l'obiettivo: mortalità zero per il cancro al seno. Puntiamo quindi a incentivare la prevenzione primaria attraverso la promozione di stili di vita sani e a rafforzare le azioni di prevenzione secondaria per contrastare il ritardo diagnostico, incoraggiando visite specialistiche e l'adesione ai programmi di screening".

"Grazie ai progressi diagnostici e al crescente interesse attivo delle donne, oggi la maggior parte dei cancri viene scoperta nella fase iniziale, quando il trattamento chirurgico è meno invasivo e le terapie più efficaci, a tal punto da parlare sempre più di guaribilità. Questo ha portato a un tasso di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi di oltre l'85% - ricorca la Lilt in una nota - Il tumore al seno è uno dei tre tumori per cui il calo della mortalità è stato più evidente negli ultimi decenni (insieme ai tumori dello stomaco e del colon-retto), con circa un milione di donne viventi in Italia dopo diagnosi e terapie. Parallelamente, l'approccio alla cura è in continua evoluzione, diventando sempre più mirato e personalizzato, con trattamenti appropriati in base alle caratteristiche biomolecolari del tumore della paziente: una presa in carico multi-interdisciplinare con una maggiore attenzione alla qualità della vita".

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Salute e Benessere

Violenza maschile ripetuta deteriora il cervello delle...

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Violenza maschile ripetuta deteriora il cervello delle donne, studio

Oltre a lividi e cicatrici, episodi ripetuti di violenza provocano sul corpo femminile alterazioni comportamentali e neuronali. In particolare, causano un deterioramento dell’ippocampo, un’area coinvolta in modo cruciale nei processi cognitivi come la memoria, l’apprendimento di nuove informazioni e nei meccanismi della navigazione, ma anche nella regolazione dell’umore e delle emozioni. Lo dimostra uno studio condotto su un modello animale da un team internazionale di ricerca guidato dall’Università di Padova, in collaborazione con la Johns Hopkins University di Baltimora, nel corso progetto europeo Pink (Marie Skłodowska-Curie Actions), e pubblicato sulla rivista 'iScience'.

Lo ricerca ha evidenziato come, a seguito di attacchi violenti e reiterati, l’organismo femminile mostri una drastica riduzione della formazione di nuove cellule neuronali nell’ippocampo, e possibilmente in altre aree del cervello, accompagnata da un aumento della morte delle cellule neuronali. Secondo Jacopo Agrimi, del Dipartimento di Scienze biomediche dell’università di Padova e primo autore della ricerca, e i colleghi, i soggetti sottoposti nell'esperimento a violenza psicologica e fisica sviluppano nel tempo comportamenti di tipo ansioso-depressivo, a cui è associata una drastica riduzione di uno dei sottotipi dei recettori degli estrogeni, ovvero i cosiddetti recettori beta.

"Con l’aiuto dei colleghi neuroscienziati del Cnr Marco Brondi e Claudia Lodovichi, attraverso studi preclinici, abbiamo dimostrato l’effettiva esistenza di un nesso causale tra la mancanza di questo tipo di recettori per gli estrogeni e lo sviluppo di anomalie del comportamento - spiega Agrimi -. Abbiamo poi esaminato lo stato di una proteina chiamata brain-derived neurotrophic factor (Bdnf), fondamentale per la crescita, lo sviluppo e il mantenimento della struttura e funzionalità delle cellule nervose adulte; nell’essere umano, i livelli normali di Bdnf sono essenziali per il controllo dell’umore, per mantenere le capacità cognitive, e per reagire a diverse forme di stress. Non sorprende aver riscontrato che mimare la violenza tra partner in modelli sperimentali animali porta a una riduzione nell’ippocampo anche di questo fattore, il Bdnf. Questa eventualità potrebbe spiegare ancor meglio perché donne vittime di violenza domestica possano sviluppare nel tempo gravi patologie psichiatriche e neurologiche".

Fino ad oggi - ricordano i ricercatori - pochi studi sperimentali hanno affrontato il problema di quali possano essere le conseguenze strutturali di una ripetuta violenza fisica e psicologica, esercitata ad esempio da un partner, sul sistema nervoso centrale femminile. Se infatti, in molti modelli sperimentali, è stato valutato l’impatto dello stress imposto da un maschio su un altro maschio, la violenza maschile su una donna sembrerebbe avere conseguenze diverse e molto più profonde. Questo studio ha esaminato per la prima volta le ripercussioni che possono derivare in specifiche aree del cervello femminilee del possibile abbattimento di meccanismi fisiologici di protezione che salvaguardano il mantenimento e quindi la funzionalità delle sue cellule.

"Restano ancora da validare le evidenze ottenute nel modello sperimentale sull’essere umano e valutare le conseguenze 'strutturali' a lungo termine della violenza domestica - concludono Marco Dal Maschio e Nazareno Paolocci, ultimi autori dello studio - Nello specifico, resta da spiegare da un punto di vista meccanicistico come questa forma di violenza reiterata aumenti nelle donne, tra molte altre condizioni di malattia, il rischio di contrarre varie forme di tumore, malattie cardiovascolari e neurodegenerative. L’università di Padova è impegnata fortemente anche su questo fronte, in concerto con altre strutture all’avanguardia nel trattamento delle donne che hanno subito violenza come il centro antiviolenza dell’ospedale Policlinico di Milano".

Sull’onda di questi risultati, la professoressa Gaya Spolverato, del Dipartimento di scienze chirurgiche, oncologiche e gastroenterologiche e delegata alle Politiche per le pari opportunità di UniPD (nonché co-autrice dello studio), ha dato l’avvio ad un nuovo filone di ricerca sperimentale incentrato sui meccanismi che potrebbero legare la violenza domestica reiterata ad una maggiore incidenza di alcune forme tumorali.

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