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La famiglia è ancora il cuore della società? Un’analisi con Milena Santerini

Nel cuore di una società in costante cambiamento, la famiglia rimane il perno su cui si fonda ogni relazione sociale. È un tema che merita attenzione, specialmente in un contesto in cui i modelli familiari si diversificano e si complicano, rispecchiando le sfide e le opportunità del nostro tempo. Milena Santerini, politica di spicco e pedagogista di grande esperienza, offre uno sguardo illuminante su questa realtà.

Le evoluzioni della famiglia

Milena Santerini riflette su come i modelli familiari si siano sempre evoluti nel tempo, ma osserva che negli ultimi decenni questa trasformazione ha subito una forte accelerazione, soprattutto nei Paesi occidentali. “I fattori che incidono su questi cambiamenti sono molteplici”, spiega Santerini, “dalla crescente partecipazione della donna al mondo del lavoro, fino all’evoluzione del ruolo paterno. Anche la configurazione delle nostre società industrializzate, dal punto di vista urbanistico, e le nuove tecnologie hanno avuto un impatto significativo”.

La professoressa sottolinea come la famiglia si sia progressivamente ridotta, diventando sempre più nucleare, ossia passando dalla famiglia estesa o allargata (in cui più generazioni vivevano insieme o in stretta prossimità) verso un modello più isolato e limitato al nucleo centrale di genitori e figli. In Italia, il calo demografico è particolarmente marcato, tanto che “siamo tra i primi Paesi per diminuzione delle nascite,” nota Santerini, evidenziando come al contempo l’età media della popolazione continui ad aumentare. “Abbiamo una piramide demografica completamente diversa rispetto al passato, con una popolazione sempre più anziana e un numero ridotto di giovani”.

Accanto alla famiglia tradizionale, composta da madre, padre e uno o due figli, Santerini riconosce l’emergere di nuovi modelli: “Abbiamo famiglie monoparentali, famiglie arcobaleno, e famiglie allargate che si ricompongono dopo separazioni o divorzi”. Questi modelli, secondo lei, non sono del tutto nuovi: “Se guardiamo indietro nella storia, vediamo che tutti questi tipi di famiglia sono sempre esistiti in forme diverse”.

Santerini identifica un aspetto centrale dei cambiamenti odierni: “Viviamo in una società sempre più individualista”, spiega. Da un lato, questo può avere effetti positivi, come il rispetto della dignità umana e dell’autonomia personale. Tuttavia, aggiunge, “questo individualismo porta anche a una maggiore solitudine”. Per questo motivo, sottolinea l’importanza di tutto ciò che promuove relazioni e solidarietà: “Tutto ciò che crea relazione e solidarietà è fondamentale, soprattutto oggi, in un momento storico in cui la dimensione collettiva è trascurata o relegata alla comunicazione sui social, per questo i modelli familiari, che incarnano valori come la reciprocità e l’aiuto, sono cruciali per sostenere la società”.

Affrontare le fragilità delle famiglie

Nel panorama contemporaneo, le famiglie italiane si trovano a fronteggiare una serie di sfide che, sebbene variegate, sembrano tessere un comune denominatore di fragilità e vulnerabilità. Milena Santerini, con la sua acuta osservazione del contesto sociale, mette in luce alcuni di questi nodi critici, avvalendosi di un linguaggio che riesce a mescolare serietà e vivacità.

In primo luogo, il fenomeno dell’isolamento sociale è diventato un tema caldo, soprattutto nelle metropoli italiane. “Nelle grandi città” commenta Santerini “assistiamo a una crescita esponenziale di persone che vivono sole”. Questo non è solo un dato statistico, ma una realtà palpabile che riflette la frammentazione delle comunità e delle reti di supporto. Le famiglie, in questo contesto, emergono come un faro di speranza, un baluardo contro la solitudine. “La famiglia rimane una risposta fondamentale alla sfida dell’isolamento sociale” sottolinea. È evidente che la connessione familiare non è solo una questione di legami di sangue, ma diventa una necessità vitale per il benessere collettivo.

Tuttavia, il quadro non si ferma qui. Santerini porta alla luce un altro tema cruciale: la conciliazione tra lavoro e vita familiare, una questione che tocca da vicino le donne, tradizionalmente le più colpite da questa disarmonia. “Il lavoro delle donne è una conquista irrinunciabile” afferma con vigore, ma aggiunge che spesso ciò si traduce in una scelta dolorosa tra carriera e figli. Questa realtà mette in discussione l’equilibrio che molte famiglie cercano di mantenere, evidenziando come le istituzioni politiche debbano intervenire con misure concrete e lungimiranti. “È necessario”, insiste Santerini, “creare una cultura di supporto alle famiglie” piuttosto che limitarsi a rispondere solo in caso di crisi.

Investire in servizi di assistenza e supporto alla genitorialità diventa così un imperativo. “Ogni famiglia deve avere accesso a risorse adeguate” afferma, poiché affrontare le sfide quotidiane non dovrebbe essere un’impresa isolata. La costruzione di reti di sostegno, che includano servizi per l’infanzia e supporto psicologico, può rivelarsi la chiave per permettere a ogni membro della famiglia di prosperare.

Un altro aspetto di grande rilevanza è l’educazione dei giovani, che vivono un periodo di grande incertezza riguardo al futuro. “Molti giovani oggi affrontano sfide considerevoli” osserva Santerini, e ciò non solo influisce sulla loro vita individuale, ma ha ripercussioni dirette sulle dinamiche familiari. La fragilità dei legami generazionali può portare a tensioni e incomprensioni che richiedono un’attenzione particolare.

Le relazioni familiari al centro del dibattito pubblico

Milena Santerini, con una forte convinzione, mette in evidenza come le relazioni familiari siano sempre più al centro del dibattito pubblico. “In un’epoca in cui l’individualismo sembra prevalere, è cruciale tornare a valorizzare la dimensione collettiva, con un’attenzione particolare per le persone vulnerabili e le situazioni di fragilità, creando un ponte tra le famiglie e le istituzioni e promuovendo politiche più inclusive e sensibili alle esigenze reali delle persone” afferma. Questa necessità di riconnettere le famiglie con le istituzioni si traduce in un appello a sviluppare interventi socio-educativi mirati. “Per questo servono interventi socio-educativi e pratiche competenze nella gestione delle dinamiche familiari attraverso metodologie innovative” prosegue Santerini, sottolineando l’importanza di formare professionisti capaci di affrontare le fragilità e le vulnerabilità delle famiglie contemporanee.

Docente del Master in Esperti delle Relazioni Familiari, organizzato dall’Università degli Studi Roma Tre in collaborazione con l’Istituto Giovanni Paolo II, al via il prossimo ottobre, Santerini si impegna a formare professionisti capaci di affrontare le fragilità e le vulnerabilità delle famiglie contemporanee. Ma quali sono le competenze richieste per navigare in questo panorama complesso? Il Master propone un’educazione che combina teoria e pratica, enfatizzando l’importanza di un approccio riflessivo e operativo. Attraverso il suo impegno nel Master, Santerini non solo forma esperti, ma cerca anche di sensibilizzare l’opinione pubblica su quanto sia fondamentale investire nelle relazioni familiari, contribuendo così al rafforzamento del tessuto sociale.

Il Master si propone di affrontare tematiche cruciali come l’isolamento sociale, la conciliazione tra vita lavorativa e familiare, e il supporto a persone vulnerabili, riflettendo così la varietà e la complessità delle esperienze familiari. “In un contesto in cui assistiamo a un crescente numero di famiglie monoparentali e a una maggiore diversificazione dei nuclei familiari, è essenziale che i professionisti del settore siano formati per rispondere a queste nuove esigenze” ha sottolineato Santerini. Il Master, frutto di una sinergia tra l’Università pubblica Roma Tre e un istituto vaticano, che si occupa specificamente delle scienze della famiglia, si propone di formare professionisti in grado di accompagnare le famiglie in tutte le loro complessità. Con un focus sull’educazione interculturale e sulle relazioni familiari, il programma affronta tematiche fondamentali, quali l’isolamento sociale, la conciliazione tra lavoro e vita familiare, e l’educazione dei giovani in un contesto di crescente fragilità. “L’approccio educativo deve essere flessibile e dinamico,” afferma Santerini, “per rispondere adeguatamente alle sfide contemporanee”.

In un’epoca in cui il calo demografico rappresenta una sfida considerevole per il nostro Paese, la professoressa ha messo in luce l’importanza di politiche di accoglienza e sostegno all’adozione e all’affidamento. “Non possiamo trascurare il potenziale che queste pratiche hanno nel contrastare la diminuzione delle nascite,” ha spiegato, “e il nostro Master è un passo verso la creazione di professionisti in grado di promuovere una cultura dell’accoglienza e del supporto reciproco”.

Il dialogo con Santerini ha rivelato la sua visione lungimirante riguardo al futuro delle relazioni familiari in Italia. “Abbiamo bisogno di un approccio che integri il sapere pedagogico con una reale comprensione delle dinamiche sociali,” ha affermato, enfatizzando l’importanza di una formazione pratica che consenta agli studenti di lavorare a stretto contatto con le famiglie e le comunità.

L’accoglienza familiare contro il calo demografico in Italia

Il tema dell’accoglienza, in particolare attraverso l’affidamento e l’adozione, rappresenta un aspetto centrale nel dibattito sulle sfide demografiche che l’Italia si trova ad affrontare. In un paese in cui le nascite sono in costante diminuzione, la professoressa Milena Santerini offre un’analisi approfondita su come il sostegno a queste pratiche possa contribuire a contrastare un trend allarmante.

Inizialmente, la professoressa Santerini riconosce la complessità della situazione attuale. “Negli ultimi tempi,” osserva, “abbiamo assistito a un crescente ricorso alle tecniche di procreazione assistita, che molte famiglie preferiscono”. Tuttavia, per Santerini, esiste un’opzione spesso trascurata ma potenzialmente efficace: “C’è una misura potente che potrebbe rispondere a questa situazione ed è proprio l’accoglienza familiare, sia attraverso l’affidamento che l’adozione. Purtroppo, entrambe le pratiche sono in netto calo.”

Analizzando le ragioni di questa diminuzione, Santerini individua fattori pratici e culturali. “Dal punto di vista pratico” spiega, “l’affidamento richiede un impegno enorme. Stiamo parlando spesso di bambini o adolescenti provenienti da famiglie problematiche, quindi, l’affido coinvolge non solo il minore, ma anche la sua famiglia d’origine”. La professoressa chiarisce che le famiglie accoglienti devono essere preparate ad affrontare una sfida complessa e lunga, il che scoraggia molte coppie.

Anche l’adozione, continua Santerini, presenta difficoltà significative. “Ci sono più coppie che desiderano adottare rispetto ai bambini disponibili, e l’adozione nazionale è spesso un percorso lungo” afferma. “Per quanto riguarda quella internazionale, la situazione è cambiata profondamente negli ultimi anni. I paesi che permettono le adozioni sono diminuiti, e i percorsi sono diventati più complessi”. Questi fattori contribuiscono a creare un panorama in cui l’accoglienza familiare rischia di essere marginalizzata.

Tuttavia, il vero problema, secondo Santerini, è di natura culturale. “Viviamo in una società in cui c’è una crescente paura del rischio. Le famiglie sono sempre più invecchiate e spesso temono le incertezze legate all’accoglienza di un bambino con un passato difficile” afferma. Questo timore spinge molte famiglie a cercare alternative, come le tecniche di procreazione assistita, o addirittura a rinunciare all’idea di avere figli.

In questo contesto, Santerini sottolinea l’importanza di promuovere una maggiore fiducia nelle capacità delle famiglie di accogliere e sostenere i minori. “Uno degli obiettivi del nostro Master,” conclude, “è proprio quello di formare operatori capaci di sostenere le famiglie accoglienti e promuovere una maggiore fiducia in queste pratiche. Crediamo che il rafforzamento dell’accoglienza possa dare un contributo significativo anche nella lotta al calo demografico”.

Integrazione delle famiglie immigrate

La professoressa Santerini, con il suo background di docente e studiosa di processi interculturali, offre anche una visione sulle famiglie immigrate nel contesto italiano. “Nel nostro Master abbiamo due corsi dedicati a questo tema,” spiega, “uno sulle dinamiche storiche e sociali delle famiglie migranti in Italia e l’altro sui modelli interculturali di educazione familiare”.

Per quanto riguarda l’integrazione, Santerini evidenzia il ruolo fondamentale del welfare. “Tutto ciò che il welfare può fare per aiutare le famiglie migranti dovrebbe essere attuato” dichiara con forza. Tuttavia, nota che le misure di sostegno esistenti sono spesso limitate. “Per esempio” prosegue, “abbiamo assistito a restrizioni sul reddito di cittadinanza per i migranti. Ecco, questa è una delle aree dove si può fare di più”.

Analizzando il comportamento delle famiglie migranti, Santerini osserva che nel tempo tendono ad assumere comportamenti simili a quelli delle famiglie italiane, come la riduzione del numero di figli. “Non è una questione culturale” spiega, “ma una questione pratica. Spesso non hanno le risorse sufficienti per mantenere famiglie numerose, né una casa adeguata”.

Il tema della cittadinanza emerge come cruciale per l’integrazione. “È fondamentale” afferma, “concedere la cittadinanza ai figli dei migranti nati o cresciuti qui. Dobbiamo riconoscere come italiani di fatto coloro che vivono nel nostro paese, anche se ancora non lo sono nei documenti”. Secondo Santerini, garantire la cittadinanza stabilizzerebbe la situazione demografica e fornirebbe un senso di sicurezza a queste famiglie, evitando che i giovani immigrati lascino l’Italia.

La relazione tra cambiamenti demografici e fenomeni di intolleranza

Rivolgendo lo sguardo alle attuali tensioni sociali, Santerini osserva con rammarico che esiste una correlazione tra i cambiamenti demografici, come l’immigrazione, e l’aumento di fenomeni legati all’odio e all’intolleranza. “I migranti” spiega “sono diventati il capro espiatorio di un fenomeno che purtroppo ha radici antiche: la tendenza umana a cercarsi un nemico”. La professoressa mette in luce come il digitale giochi un ruolo cruciale in questo contesto. “Il digitale” afferma “è un ambiente che facilita l’odio e la polarizzazione, amplificando estremismi e radicalizzazioni”.

La facilità con cui il nemico viene identificato nello straniero è, secondo Santerini, una dinamica ricorrente, accentuata dall’uso dei social media. “L’immigrazione” prosegue “viene sfruttata anche da alcune forze politiche, che alimentano la polarizzazione per guadagnare consenso”. In questo quadro, la risposta a tali sfide deve essere articolata a più livelli. “Le forze politiche” sottolinea “dovrebbero impegnarsi per unire, non per dividere”. La scuola, quindi, gioca un ruolo cruciale nell’insegnare inclusione e rispetto delle differenze, mentre il mondo digitale richiede un intervento urgente per mitigare l’odio e la divisione sociale.

Il ruolo della scuola e dei servizi socio-sanitari nel sostegno alle famiglie

Santerini affronta anche la questione del calo delle nascite e delle trasformazioni delle strutture familiari, enfatizzando l’importanza di un supporto integrato. “La famiglia va supportata nel suo insieme” afferma con decisione, avvertendo che gli interventi spesso si frammentano e si concentrano solo su minori o adulti. “Dobbiamo invece lavorare per rafforzare il sistema familiare nelle sue relazioni” prosegue, sottolineando l’importanza di sviluppare interventi che considerino la famiglia come un’unità indivisibile.

In questo contesto, Santerini menziona l’educazione all’uso degli smartphone come un esempio concreto: “Non possiamo educare i bambini e gli adolescenti separandoli dal contesto familiare”. La scuola deve lavorare in sinergia con le famiglie, costruendo una comunità educante. “Il tempo da dedicare ai figli, la conciliazione tra lavoro femminile e famiglia” conclude “devono essere affrontate considerando il sistema familiare nel suo insieme”.

Le dinamiche demografiche in Italia e le competenze necessarie per affrontarle

Milena Santerini si sofferma sull’evoluzione delle strutture familiari in Italia, sottolineando la crescente presenza di famiglie monoparentali e la diversificazione dei nuclei familiari. “È fondamentale” afferma, “avere una conoscenza approfondita delle questioni sociali e politiche che influiscono su queste realtà in continua evoluzione”. Secondo la professoressa, la rapidità dei cambiamenti richiede un approccio pedagogico nuovo e flessibile. “Non possiamo fermarci su schemi rigidi che rischiano di diventare obsoleti,” avverte, evidenziando l’importanza di formare operatori capaci di interpretare queste trasformazioni in modo dinamico.

Santerini propone che gli operatori sociali debbano possedere competenze psicopedagogiche e progettuali, in modo da poter supportare le famiglie in maniera concreta. “Le competenze che vogliamo fornire” continua, “sono quelle di tipo formativo, ma anche di tipo politico-sociale”. Questo approccio consente agli operatori di intervenire non solo nel sostegno diretto alle famiglie, ma anche nella progettazione di servizi e politiche a livello locale. In questo contesto, Santerini sottolinea la necessità di portare la prospettiva delle famiglie nei tavoli di decisione. “La voce delle famiglie” conclude, “deve essere ascoltata e rappresentata nei processi di pianificazione delle politiche sociali, per garantire che le loro esigenze siano adeguatamente comprese e soddisfatte”.

L’attenzione verso famiglie con membri disabili o vulnerabili

Infine, la professoressa Santerini esprime preoccupazione riguardo alle famiglie con membri disabili o vulnerabili. “Assolutamente no” afferma riguardo alla consapevolezza politica e demografica sulle sfide specifiche che queste famiglie affrontano. Sottolinea che gli interventi sociali attuali tendono a dividere le famiglie invece di unirle. “Stiamo sostanzialmente lavorando per dividere le famiglie, non per unirle” lamenta, evidenziando la necessità di fornire un supporto adeguato alle famiglie con membri disabili.

Secondo Santerini, la risposta che le famiglie ricevono è spesso insufficiente. “Siamo primi in Europa per numero di badanti che assumiamo nel settore privato” denuncia. “La famiglia è lasciata sola”. Tuttavia, conclude con una nota di speranza: “Il sistema famiglia è il perno su cui si fonda una società in crescita. Se desideriamo davvero sviluppare il nostro Paese, dobbiamo costruire non solo un sistema di famiglie sostenuto dal welfare, ma anche una rete di famiglie che si aiutano reciprocamente”.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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I papà scelgono la famiglia: il 71% usa il congedo...

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Parità di genere, non solo a lavoro, ma anche a casa. Per rendere questo obiettivo realizzato, proprio grazie al raggiungimento di un equilibrio condiviso tra vita privata e lavoro, servono dei sostegni reali alla famiglia.

È uno dei dibattiti più accesi in Italia, complice il calo delle nascite e le conseguenze che questo comporta sul lungo tempo al welfare e alla produttività di un Paese. Ad affrontare il problema è uno
studio del think tank Tortuga, realizzato in collaborazione con 24 aziende, che ha esplorato proprio queste tematiche e ha offerto spunti per comprendere i benefici e le criticità delle politiche di congedo dedicate ai padri.

Congedo di paternità facoltativo

Il report evidenzia che il 71% dei padri idonei nelle aziende partecipanti alla ricerca ha usufruito del congedo di paternità aziendale, una percentuale significativamente superiore rispetto alla media nazionale relativa ai congedi Inps. Le politiche aziendali offrono, in media, tra 1 e 26 settimane aggiuntive di congedo retribuito.

Tra i padri più giovani, quelli tra i 30 e i 39 anni, l’adesione sale al 75%, rispetto al 65% nella fascia d’età 40-49.

Tra i fattori che incentivano l’adesione, sono emerse come motivazioni la presenza desiderata nella vita dei figli (81%) e la volontà di supportare il partner nei primi mesi di vita del bambino (87%). Al contrario, le ragioni per cui alcuni padri non richiedono tutto il congedo disponibile includono paura di ripercussioni sulla carriera (45%) e l’elevato carico di lavoro (45%).

Impatto del congedo aziendale

Uno dei dati più interessanti del report, però, riguarda la redistribuzione del carico domestico: due padri su tre che hanno utilizzato il congedo riportano una suddivisione più equa delle responsabilità familiari.

Inoltre, il 96% dei padri sostiene di avere instaurato un legame più stretto con i propri figli, e il 95% delle partner ha riferito di sentirsi più serena grazie alla presenza del padre.

Un altro aspetto cruciale riguarda l’implicazione lavorativa: contrariamente alle paure iniziali, il 70% dei padri che hanno usufruito del congedo non ha registrato alcun impatto negativo sulla propria carriera.

Estensione del congedo a livello nazionale

Il report, così, quanto sia necessaria una vasta adesione all’idea di estendere il congedo di paternità a livello nazionale. Il 96% dei partecipanti si è dichiarato favorevole, con il 54% che suggerisce di renderlo obbligatorio.

Inoltre, il 95% dei lavoratori ha espresso il desiderio che la durata minima retribuita al 100% debba essere di almeno un mese, mentre più della metà ritiene che dovrebbe essere esteso a tre mesi.

La metodologia del report

Lo studio ha coinvolto 24 aziende, di queste 22 hanno già implementato un congedo di paternità facoltativo più lungo di quello previsto dalla legge italiana (10 giorni). La ricerca è stata condotta in due fasi principali:

Interviste con i responsabili delle risorse umane delle aziende coinvolte per comprendere come le politiche sui congedi di paternità siano state implementate e quale sia stata la risposta da parte dell’azienda.
Questionario distribuito a più di 1.600 dipendenti di 12 aziende, con l’obiettivo di analizzare il profilo dei beneficiari, le loro motivazioni per richiedere o meno il congedo e le opinioni sulle politiche aziendali e la loro estensione a livello nazionale.

Tortuga, alla luce di questi risultati, sostiene che il congedo di paternità obbligatorio deve essere esteso a tre mesi, con retribuzione al 100%. Inoltre, il think tank suggerisce di allargare i benefici anche ai “secondi caregiver”, includendo non solo i padri biologici, ma anche i genitori adottivi e le coppie omosessuali.

La proposta del think tank potrebbe avere un impatto positivo non solo sulle famiglie, ma anche sulla partecipazione femminile al lavoro e sulla natalità, contribuendo a superare l’attuale divario di genere e migliorando la qualità della vita familiare in Italia.

I Paesi crescono quando le donne lavorano – ha spiegato l’onorevole Lia Quartapelle che ha contribuito alla realizzazione del report -. I figli nascono quando le donne guadagnano. In Italia, ci troviamo di fronte a un apparente paradosso: alla bassa natalità corrisponde una scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro. […] Il nostro Paese sembra essere intrappolato in una spirale di bassa natalità e bassa crescita che ha al centro la condizione economica delle donne e delle famiglie”.

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Dormi poco? Recuperare il sonno nel weekend può salvarti il...

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Durante la settimana dormi poco e male? Se recuperi nel weekend il sonno perduto potresti ridurre il rischio di malattie cardiache del 20%, ovvero di un quinto. È la ‘ricetta’ consigliata dai cardiologi in base a uno studio presentato al recente Congresso della Società Europea di Cardiologia tenutosi a Londra. Fermo restando che, sebbene oggi giorno sia complesso, sarebbe bene non andare in privazione del sonno, perché dormire ha implicazioni a 360 gradi sulla salute e non solo sul cuore.

L’importanza di compensare le poche ore dormite nei giorni feriali, e tutto sommato anche l’efficacia di questo rimedio che, ripetiamo, non dovrebbe essere la norma, spiega da Zechen Liu dello State Key Laboratory of Infectious Disease, Fuwai Hospital, National Centre for Cardiovascular Disease di Pechino, coautore dello studio: “I nostri risultati mostrano che per la significativa percentuale di popolazione nella società moderna che soffre di privazione del sonno, coloro che hanno più sonno di recupero nei fine settimana hanno tassi significativamente più bassi di malattie cardiache rispetto a coloro che ne hanno meno”.

Yanjun Song, anch’egli coautore appartenente allo State Key Laboratory of Infectious Disease, sintetizza: “Un sonno compensativo sufficiente è legato a un minor rischio di malattie cardiache”, e “l’associazione diventa ancora più pronunciata tra gli individui che dormono regolarmente in modo inadeguato nei giorni feriali”.

Uno studio lungo 14 anni

Lo studio ha analizzato, lungo un periodo di 14 anni, i dati di 90.903 soggetti coinvolti nel progetto UK Biobank ottenuti attraverso smartwatch e smart device. L’obiettivo era proprio quello di capire se recuperare nel week end il sonno perso in settimana avesse un effetto sulle malattie cardiache. I partecipanti sono stati divisi in quattro gruppi:

Q1 era il meno compensato, da -16,05 ore a -0,26 ore
Q2 compensava da -0,26 a +0,45 ore
Q3 compensava da +0,45 a +1,28 ore
Q4 compensava da 1,28 a 16,06 ore.

I ricercatori hanno anche evidenziato un sottogruppo composto da coloro che dormivano meno di sette ore a notte (il 21,8% dei partecipanti totali), classificandoli come soggetti con deprivazione di sonno, dunque con una carenza marcata.

Per diagnosticare varie patologie cardiache, tra cui la cardiopatia ischemica (IHD), l’insufficienza cardiaca (HF), la fibrillazione atriale (FA) e l’ictus, sono state utilizzare le cartelle cliniche dei ricoveri ospedalieri e le informazioni del registro delle cause di morte.

Il risultato è che chi ha recuperato più sonno nel weekend aveva un rischio inferiore del 19% di problemi al cuore rispetto a chi non recuperava poco o niente. Un effetto ancora più marcato tra chi era stato classificato come deprivato del sonno: tra questi soggetti il rischio cuore è risultato ridotto del 20% tra chi aveva maggiormente compensato.

L’analisi inoltre non ha mostrato alcuna differenza tra uomini e donne.

Quanto dovremmo dormire per stare bene?

Il sonno varia da persona a persona, dipendendo da fattori soggettivi quali la genetica, le preferenze, il lavoro, lo stile di vita, la situazione familiare, le patologie, il ciclo mestruale, l’età ma anche da altri che riguardano tutti, come la stagione.

Facendo un discorso medio, per gli adulti (26-64 anni) la ‘dose’ raccomandata è di 7-9 ore di sonno a notte. Un’indicazione che è anche molto spesso un miraggio nella società odierna dove i ritmi sono scanditi da orari non in linea con le esigenze del corpo: vita sociale serale o notturna, lavori che si spingono fino a tardi, ma anche i social e il binge watching delle serie tv. Come ha detto Reed Hasting, fondatore e ceo di Netflix, “il nostro unico nemico è il sonno (anche se poi qualche altro concorrente se lo sono ritrovato)”, ma vale anche il contrario: uno dei grossi ostacoli al sonno è proprio lo streaming che troppo spesso fa spostare le lancette dell’addormentamento anche a tarda notte. Così come la ‘scrollata selvaggia’ su Instagram e TikTok che ci tiene incollati allo schermo per ore, oltretutto ad assorbire una luce blu che a sua volta danneggia ancora di più il sonno.

Sicuramente non dormire è un fattore di rischio per molte patologie, tra cui quelle cardiovascolari che in Italia, ricordiamo, causano circa il 40% delle morti. Attraverso il sonno il corpo e il cervello si rigenerano, si riparano e si ricaricano. In sostanza è fondamentale, anche se spesso lo trascuriamo.

Come migliorare il sonno

Cosa possiamo fare dunque per migliorare il sonno? Oltre a cercare di dormire sempre le giuste ore o almeno di compensare nel fine settimana la privazione accumulata nei giorni feriali, possiamo provare a migliorare la qualità del sonno con alcuni accorgimenti dettati dal buon senso e non impossibili, per quanto difficili, da mettere in pratica:

stabilire una routine serale
andare a dormire sempre alla stessa ora
dormire in un luogo buio e tranquillo, non troppo caldo e non troppo freddo
lasciare fuori dalla stanza da letto smartphone, tablet, televisione e qualsiasi dispositivo elettronico
abbandonare pc, social, videogames e streaming almeno un’ora prima di coricarsi
dedicarsi piuttosto a lettura, musica e a un bagno o una doccia caldi
evitare caffeina, ginseng, bevande zuccherate, alcol, pasti abbondanti, cibi piccanti o acidi, prima di andare a letto
fare attenzione anche a quanto si beve prima di mettersi a dormire, onde evitare di doversi alzare per andare in bagno. Se si gradisce una tisana, l’ideale sarebbe berla al massimo un paio d’ore prima
evitare di fare attività fisica entro le tre ore precedenti al momento di andare a letto (ma praticarla in giornata)
evitare il fumo, che danneggia il sonno
prestare attenzione al materasso, che deve avere la giusta rigidità

Si tratta ovviamente di consigli generici, che non sostituiscono il parere di un medico in caso di problemi specifici, ma che possono aiutarci a non dover passare metà del fine settimana a recuperare il debito di sonno accumulato nei giorni precedenti, per poi ricominciare da capo il lunedì.

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Referendum Cittadinanza, Dalla Zuanna: “Ne abbiamo bisogno,...

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Il Referendum Cittadinanza proposto da +Europa ha superato le 500.000 firme necessarie per far iniziare l’iter. Gli italiani saranno chiamati a votare probabilmente nella primavera 2025, comunque entro tre mesi dalla vidimazione delle firme. La modifica proposta punta a facilitare l’ottenimento della cittadinanza per 2,5 milioni di extracomunitari che dovrebbero risiedere in Italia per cinque anni, invece di dieci, prima di poter richiedere la cittadinanza italiana.

Abbiamo chiesto a Gianpiero Dalla Zuanna, professore di Demografia all’Università di Padova e già senatore, che impatto avrebbe questa revisione sul futuro dell’Italia, minacciato da una profonda crisi demografica.

Dalla Zuanna sul Referendum Cittadinanza

Professore, gli eventuali due milioni e mezzo di nuovi cittadini poi trasferirebbero la loro cittadinanza ai figli in base al principio dello Ius sanguinis, aumentando la portata della modifica. Potrebbe essere questa la strada per fermare l’emorragia di nascite del nostro Paese?

“Potrebbe aiutare nel senso che tutte le azioni che accelerano l’integrazione possono essere utili. Però bisogna stare attenti: non è un riconoscimento formale che risolve il problema. Il vero punto sta nel creare le condizioni socio-economiche per cui gli stranieri possano soddisfare i motivi per cui vengono in Italia, cioè migliorare la propria situazione e avere una mobilità sociale. Se non facciamo questo, rischiamo di pensare che la cittadinanza formale possa sostituire quello che è sostanziale.

Il problema riguarda non solo gli stranieri, ma anche i figli di famiglie italiane di condizione modesta, soprattutto in termini di istruzione”, spiega Dalla Zuanna evidenziando il problema dell’ascensore sociale dell’istruzione, che in Italia è rotto.

Secondo i dati Inapp 2022, un figlio di un padre laureato ha oltre il triplo delle possibilità di laurearsi rispetto al figlio di chi ha conseguito la terza media. Il divario si acuisce tra le famiglie degli extracomunitari, dove i genitori raramente hanno potuto studiare: “C’è una enorme differenza nei risultati scolastici tra stranieri e italiani, e anche tra le classi sociali. La scuola è organizzata in modo che chi proviene da famiglie che non riescono ad aiutare i figli, non ha molte possibilità di farcela. Il modello è ancora pensato per le famiglie che hanno la mamma a casa che deve seguire i figli quando tornano da scuola. Siamo uno dei pochi Paesi occidentali dove i ragazzi tornano a casa ancora all’ora di pranzo e questo implica un grave problema di gestione per le famiglie.

Questo non significa – sottolinea il professore – che il tema della cittadinanza vada sottovalutato. Molti giovani stranieri spesso non capiscono perché non possono diventare italiani, dato che sono qui da piccoli e non si identificano con il loro Paese d’origine. Si trovano in una sorta di apolidia. E siccome la cittadinanza è una cosa seria, non solo dà un senso di appartenenza, ma permette di evitare problemi concreti, come quelli legati ai viaggi all’estero o alla ricerca di opportunità”.

La presidente Meloni ha dichiarato che non vede la necessità di cambiare i termini per l’acquisizione della cittadinanza. Come si concilia questa posizione con gli interventi che l’esecutivo sta portando avanti per contrastare la denatalità?

Dalla Zuanna fa una premessa: “In questi giorni, molti politici stanno affermando che l’Italia è uno dei Paesi che concede più cittadinanze. È vero, ma c’è un problema di metodo: si confronta il numero di cittadinanze ora concesse con quello di diversi anni fa, ma questo non tiene conto del fatto che molti immigrati arrivati dieci, dodici anni fa, stanno ottenendo adesso la cittadinanza. C’è stato un boom migratorio nei primi dieci anni del secolo, e ora queste persone stanno ottenendo la cittadinanza. Questo spiega perché siamo il Paese che dà più cittadinanze rispetto ad altri Paesi europei”. Dalla Zuanna ricorda che: “Il saldo tra le cittadinanze che l’Italia sta concedendo e gli arrivi che ci sono stati in quel periodo è comunque negativo”.

C’è un altro elemento che sta passando in secondo piano nel dibattito pubblico, catturato dal dato numerico: “Anche se venisse modificata, la legge manterrebbe comunque condizioni stringenti: bisogna avere cinque anni di residenza continuativa, non avere avuto problemi legali, dimostrare un reddito sufficiente, e c’è anche una verifica della conoscenza della lingua. Non vedo alcun motivo per opporsi a questa riduzione, che, anzi, mi sembra una proposta molto sensata.

Quindi crede che le dichiarazioni che minimizzano la necessità dell’immigrazione siano di facciata?

Sì, queste dichiarazioni sono più che altro politiche, puntano al consenso. Nella realtà, le industrie e le imprese continuano a chiedere lavoratori e l’esecutivo lo sa. Ad esempio, nel settore agricolo ci sono raccolti che devono essere fatti manualmente, e per fare questo servono persone che lavorano per sei mesi all’anno. La domanda di lavoratori continuerà ad esserci, anche se si cerca di bloccarla”.

In diverse occasioni il vicepremier Matteo Salvini ha dichiarato che gli extracomunitari verrebbero in Italia solo per prendere la pensione. Questa dinamica sarebbe esasperata dalla modifica proposta con il Referendum Cittadinanza.

Sul punto, l’ex senatore Dalla Zuanna ricorda: “Molti immigrati lavorano in Italia per decenni, versano i contributi, ma non raggiungeranno mai i venti anni di contributi necessari per ottenere una pensione, e quindi non riceveranno nulla. Alcuni chiedono la pensione sociale, ma è il minimo se si guarda il contributo che i lavoratori stranieri danno al nostro welfare e alla nostra economia”.

Il ruolo degli immigrati per la demografia italiana

Nel 2023 il saldo migratorio con l’estero complessivo è pari a +274mila unità, un guadagno di popolazione ottenuto come effetto di due dinamiche opposte. Da un lato, l’immigrazione straniera, ampiamente positiva (360mila), controbilanciata da un numero di partenze esiguo (34mila), dall’altro, il flusso con l’estero dei cittadini italiani caratterizzato da un numero di espatri (108mila) che non viene rimpiazzato da altrettanti rimpatri (55mila). Il risultato è un guadagno di popolazione di cittadinanza straniera (+326mila) e una perdita di cittadini italiani (-53mila). Ma la demografia italiana ha bisogno di una spinta molto maggiore.

“Abbiamo un problema demografico molto serio. – continua Dalla Zuanna – Se non ci fossero ingressi migratori, il Veneto, per esempio, perderebbe circa 30-40 mila persone in età lavorativa ogni anno, il che significherebbe una riduzione di 700 mila persone in 20 anni. Le persone che escono dal mercato del lavoro sono operai e persone con bassa istruzione, mentre chi entra è generalmente diplomato. Ma abbiamo comunque bisogno di persone per svolgere lavori a basso contenuto di specializzazione, come pulire corridoi o lavorare in cucina negli ospedali. Se manca questa forza lavoro, si ferma l’intero apparato”. Una situazione nota all’esecutivo, come dimostrano le decisioni prese in materia migratoria: “Il governo stesso ha dovuto aumentare il numero di ingressi tramite il decreto Flussi. Quindi, mentre si fanno certe dichiarazioni, si sa bene che l’immigrazione è necessaria”.

Le misure per incentivare la natalità

Il governo ha introdotto diverse misure per incentivare la natalità. Pensa che siano sufficienti?

“La mossa migliore è stata quella di confermare due strumenti introdotti dai governi precedenti quali l’assegno unico e il bonus asilo nido.
Il primo è molto importante perché dà soldi a tutte le famiglie con figli, indipendentemente dalla loro posizione lavorativa. L’unico requisito considerato è l’Isee. Questo è un grande passo avanti”. Molti ritengono irrisorio l’importo dell’assegno unico, critica non condivisa dal professore: “Per una famiglia che, in due, porta a casa 3.000 euro, 200 euro in più fanno la differenza. È un importo che copre quasi la metà delle spese necessarie per un figlio. È chiaro che per chi guadagna 10.000 euro al mese, l’assegno unico sia una briciola, ma è una condizione che riguarda poche persone.

Sicuramente l’assegno unico aiuta ad affrontare le situazioni di povertà, ma questo non significa necessariamente che abbia decretato un aumento delle nascite”, spiega Dalla Zuanna prima di sottolineare l’importanza del Bonus Nido: “Abbiamo visto misure analoghe in altre Regioni italiane, con un aumento dei secondi e terzi figli tra le persone con redditi modesti e una riduzione degli aborti volontari. In altri Paesi europei, come la Germania, misure simili hanno avuto effetti significativi sull’economia proprio perché viene corrisposto non solo ai poveri ma anche alle famiglie di reddito medio”.

Il vulnus, sostiene Dalla Zuanna, è l’orizzonte temporale con cui vengono pensate le misure pro natalità: “Gli interventi si concentrano sui primi anni di vita del bambino, quando spesso ci sono i nonni a dare una mano. Ma è quando i bambini diventano adolescenti che la situazione si complica. Il nostro sistema di welfare è ancora pensato per un modello di famiglia tradizionale, dove la madre sta a casa e il papà va al lavoro. In realtà, gli studi dimostrano che le coppie in cui entrambi i genitori lavorano hanno più probabilità di avere un secondo o terzo figlio, proprio perché il reddito è più alto”. Una risposta concreta all’eterno dibattito sul perché in Italia si fanno pochi figli, tra chi ritiene che la causa principale sia l’egoismo e chi vede nella matrice economica la causa principale della denatalità.

“Il costo dei figli – conclude Dalla Zuanna – è aumentato e anche il tempo che i genitori vogliono passare con loro è cresciuto. Inoltre, per molte categorie i salari non sono cresciuti al ritmo dell’inflazione, il che rende ancora più complicato per le famiglie gestire le spese legate ai figli”.

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