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I papà scelgono la famiglia: il 71% usa il congedo parentale esteso consentito in azienda

Parità di genere, non solo a lavoro, ma anche a casa. Per rendere questo obiettivo realizzato, proprio grazie al raggiungimento di un equilibrio condiviso tra vita privata e lavoro, servono dei sostegni reali alla famiglia.

È uno dei dibattiti più accesi in Italia, complice il calo delle nascite e le conseguenze che questo comporta sul lungo tempo al welfare e alla produttività di un Paese. Ad affrontare il problema è uno
studio del think tank Tortuga, realizzato in collaborazione con 24 aziende, che ha esplorato proprio queste tematiche e ha offerto spunti per comprendere i benefici e le criticità delle politiche di congedo dedicate ai padri.

Congedo di paternità facoltativo

Il report evidenzia che il 71% dei padri idonei nelle aziende partecipanti alla ricerca ha usufruito del congedo di paternità aziendale, una percentuale significativamente superiore rispetto alla media nazionale relativa ai congedi Inps. Le politiche aziendali offrono, in media, tra 1 e 26 settimane aggiuntive di congedo retribuito.

Tra i padri più giovani, quelli tra i 30 e i 39 anni, l’adesione sale al 75%, rispetto al 65% nella fascia d’età 40-49.

Tra i fattori che incentivano l’adesione, sono emerse come motivazioni la presenza desiderata nella vita dei figli (81%) e la volontà di supportare il partner nei primi mesi di vita del bambino (87%). Al contrario, le ragioni per cui alcuni padri non richiedono tutto il congedo disponibile includono paura di ripercussioni sulla carriera (45%) e l’elevato carico di lavoro (45%).

Impatto del congedo aziendale

Uno dei dati più interessanti del report, però, riguarda la redistribuzione del carico domestico: due padri su tre che hanno utilizzato il congedo riportano una suddivisione più equa delle responsabilità familiari.

Inoltre, il 96% dei padri sostiene di avere instaurato un legame più stretto con i propri figli, e il 95% delle partner ha riferito di sentirsi più serena grazie alla presenza del padre.

Un altro aspetto cruciale riguarda l’implicazione lavorativa: contrariamente alle paure iniziali, il 70% dei padri che hanno usufruito del congedo non ha registrato alcun impatto negativo sulla propria carriera.

Estensione del congedo a livello nazionale

Il report, così, quanto sia necessaria una vasta adesione all’idea di estendere il congedo di paternità a livello nazionale. Il 96% dei partecipanti si è dichiarato favorevole, con il 54% che suggerisce di renderlo obbligatorio.

Inoltre, il 95% dei lavoratori ha espresso il desiderio che la durata minima retribuita al 100% debba essere di almeno un mese, mentre più della metà ritiene che dovrebbe essere esteso a tre mesi.

La metodologia del report

Lo studio ha coinvolto 24 aziende, di queste 22 hanno già implementato un congedo di paternità facoltativo più lungo di quello previsto dalla legge italiana (10 giorni). La ricerca è stata condotta in due fasi principali:

Interviste con i responsabili delle risorse umane delle aziende coinvolte per comprendere come le politiche sui congedi di paternità siano state implementate e quale sia stata la risposta da parte dell’azienda.
Questionario distribuito a più di 1.600 dipendenti di 12 aziende, con l’obiettivo di analizzare il profilo dei beneficiari, le loro motivazioni per richiedere o meno il congedo e le opinioni sulle politiche aziendali e la loro estensione a livello nazionale.

Tortuga, alla luce di questi risultati, sostiene che il congedo di paternità obbligatorio deve essere esteso a tre mesi, con retribuzione al 100%. Inoltre, il think tank suggerisce di allargare i benefici anche ai “secondi caregiver”, includendo non solo i padri biologici, ma anche i genitori adottivi e le coppie omosessuali.

La proposta del think tank potrebbe avere un impatto positivo non solo sulle famiglie, ma anche sulla partecipazione femminile al lavoro e sulla natalità, contribuendo a superare l’attuale divario di genere e migliorando la qualità della vita familiare in Italia.

I Paesi crescono quando le donne lavorano – ha spiegato l’onorevole Lia Quartapelle che ha contribuito alla realizzazione del report -. I figli nascono quando le donne guadagnano. In Italia, ci troviamo di fronte a un apparente paradosso: alla bassa natalità corrisponde una scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro. […] Il nostro Paese sembra essere intrappolato in una spirale di bassa natalità e bassa crescita che ha al centro la condizione economica delle donne e delle famiglie”.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

Demografica

Thailandia approva matrimoni omosessuali: è il primo Paese...

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Il 25 settembre 2024 è una data storica per la Thailandia, che è diventata il primo Paese del Sud-Est asiatico a riconoscere l’uguaglianza matrimoniale per le coppie omosessuali.
Mercoledì, il Re Maha Vajiralongkorn ha dato il suo assenso alla nuova legge, che era stata approvata dal Parlamento già lo scorso giugno. La norma entrerà ufficialmente in vigore dopo 120 giorni, il che significa che le prime coppie LGBTQ+ potranno registrare il loro matrimonio a gennaio 2025.

Una vittoria per gli attivisti e la comunità LGBTQ+

L’approvazione della legge è stato accolta con entusiasmo dagli attivisti per i diritti LGBTQ+ in Thailandia, che hanno descritto questo traguardo come il coronamento di una lunga battaglia per l’uguaglianza. “Il diritto all’uguaglianza in Thailandia è iniziato,” ha dichiarato Danuphorn Punnakanta, portavoce del partito di maggioranza Pheu Thai e presidente del comitato che ha supervisionato la legge. “È solo l’inizio e seguiranno ulteriori leggi per i diritti e le libertà delle persone,” ha assicurato, ricordando che la strada per l’uguaglianza è ancora lunga, ma questo primo passo è di grande importanza.

Implicazioni della legge

Con l’entrata in vigore della legge, la Thailandia non solo garantisce diritti egualitari alle coppie LGBTQ+, ma rafforza anche la propria posizione come leader nella protezione dei diritti umani nel Sud-Est asiatico. Il cambiamento potrebbe avere ripercussioni significative anche a livello internazionale, ispirando altri Paesi della regione a considerare riforme simili. Ma, soprattutto, l’introduzione di un quadro legale inclusivo migliora la qualità della vita per milioni di persone, offrendo protezione e riconoscimento ufficiale ai loro legami.

Poco tempo fa era impensabile che le coppie LGBTQ+ e quelle eterosessuali godessero degli stessi diritti e delle stesse tutele legali.

Il percorso parlamentare della legge

Il disegno di legge che garantisce pieni diritti legali, finanziari e medici ai coniugi di qualsiasi genere è stato il frutto di un intenso percorso parlamentare. Dopo l’approvazione iniziale alla Camera dei rappresentanti ad aprile 2024, la legge ha superato l’ultimo ostacolo al Senato nel mese di giugno, con un voto schiacciante: 130 favorevoli, 4 contrari e 18 astensioni. Questo voto storico ha aperto la strada alla firma del re, un passaggio atteso e considerato una formalità. Ora, la Thailandia si unisce a Taiwan e Nepal come i soli Paesi asiatici a riconoscere ufficialmente i matrimoni tra persone dello stesso sesso.

Cambiamenti nel Codice civile e commerciale

Una delle modifiche centrali introdotte dalla nuova legge riguarda il linguaggio utilizzato nel Codice civile e commerciale della Thailandia. I termini tradizionali “uomini e donne” e “marito e moglie” sono stati sostituiti con i più inclusivi “individui” e “partner matrimoniali”, un cambiamento che riflette la volontà del Paese di garantire uguaglianza a tutti i cittadini, indipendentemente dal loro orientamento sessuale.

Secondo la nuova legislazione, le coppie dello stesso sesso avranno gli stessi diritti e doveri delle coppie eterosessuali. Tra questi, il diritto all’adozione, i benefici fiscali, l’accesso all’eredità e la possibilità di prendere decisioni mediche per il proprio partner in caso di incapacità. Si tratta di un passo avanti fondamentale per la comunità LGBTQ+ thailandese, che da anni lotta per il riconoscimento dei propri diritti.

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Demografica

Dormi poco? Recuperare il sonno nel weekend può salvarti il...

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Durante la settimana dormi poco e male? Se recuperi nel weekend il sonno perduto potresti ridurre il rischio di malattie cardiache del 20%, ovvero di un quinto. È la ‘ricetta’ consigliata dai cardiologi in base a uno studio presentato al recente Congresso della Società Europea di Cardiologia tenutosi a Londra. Fermo restando che, sebbene oggi giorno sia complesso, sarebbe bene non andare in privazione del sonno, perché dormire ha implicazioni a 360 gradi sulla salute e non solo sul cuore.

L’importanza di compensare le poche ore dormite nei giorni feriali, e tutto sommato anche l’efficacia di questo rimedio che, ripetiamo, non dovrebbe essere la norma, spiega da Zechen Liu dello State Key Laboratory of Infectious Disease, Fuwai Hospital, National Centre for Cardiovascular Disease di Pechino, coautore dello studio: “I nostri risultati mostrano che per la significativa percentuale di popolazione nella società moderna che soffre di privazione del sonno, coloro che hanno più sonno di recupero nei fine settimana hanno tassi significativamente più bassi di malattie cardiache rispetto a coloro che ne hanno meno”.

Yanjun Song, anch’egli coautore appartenente allo State Key Laboratory of Infectious Disease, sintetizza: “Un sonno compensativo sufficiente è legato a un minor rischio di malattie cardiache”, e “l’associazione diventa ancora più pronunciata tra gli individui che dormono regolarmente in modo inadeguato nei giorni feriali”.

Uno studio lungo 14 anni

Lo studio ha analizzato, lungo un periodo di 14 anni, i dati di 90.903 soggetti coinvolti nel progetto UK Biobank ottenuti attraverso smartwatch e smart device. L’obiettivo era proprio quello di capire se recuperare nel week end il sonno perso in settimana avesse un effetto sulle malattie cardiache. I partecipanti sono stati divisi in quattro gruppi:

Q1 era il meno compensato, da -16,05 ore a -0,26 ore
Q2 compensava da -0,26 a +0,45 ore
Q3 compensava da +0,45 a +1,28 ore
Q4 compensava da 1,28 a 16,06 ore.

I ricercatori hanno anche evidenziato un sottogruppo composto da coloro che dormivano meno di sette ore a notte (il 21,8% dei partecipanti totali), classificandoli come soggetti con deprivazione di sonno, dunque con una carenza marcata.

Per diagnosticare varie patologie cardiache, tra cui la cardiopatia ischemica (IHD), l’insufficienza cardiaca (HF), la fibrillazione atriale (FA) e l’ictus, sono state utilizzare le cartelle cliniche dei ricoveri ospedalieri e le informazioni del registro delle cause di morte.

Il risultato è che chi ha recuperato più sonno nel weekend aveva un rischio inferiore del 19% di problemi al cuore rispetto a chi non recuperava poco o niente. Un effetto ancora più marcato tra chi era stato classificato come deprivato del sonno: tra questi soggetti il rischio cuore è risultato ridotto del 20% tra chi aveva maggiormente compensato.

L’analisi inoltre non ha mostrato alcuna differenza tra uomini e donne.

Quanto dovremmo dormire per stare bene?

Il sonno varia da persona a persona, dipendendo da fattori soggettivi quali la genetica, le preferenze, il lavoro, lo stile di vita, la situazione familiare, le patologie, il ciclo mestruale, l’età ma anche da altri che riguardano tutti, come la stagione.

Facendo un discorso medio, per gli adulti (26-64 anni) la ‘dose’ raccomandata è di 7-9 ore di sonno a notte. Un’indicazione che è anche molto spesso un miraggio nella società odierna dove i ritmi sono scanditi da orari non in linea con le esigenze del corpo: vita sociale serale o notturna, lavori che si spingono fino a tardi, ma anche i social e il binge watching delle serie tv. Come ha detto Reed Hasting, fondatore e ceo di Netflix, “il nostro unico nemico è il sonno (anche se poi qualche altro concorrente se lo sono ritrovato)”, ma vale anche il contrario: uno dei grossi ostacoli al sonno è proprio lo streaming che troppo spesso fa spostare le lancette dell’addormentamento anche a tarda notte. Così come la ‘scrollata selvaggia’ su Instagram e TikTok che ci tiene incollati allo schermo per ore, oltretutto ad assorbire una luce blu che a sua volta danneggia ancora di più il sonno.

Sicuramente non dormire è un fattore di rischio per molte patologie, tra cui quelle cardiovascolari che in Italia, ricordiamo, causano circa il 40% delle morti. Attraverso il sonno il corpo e il cervello si rigenerano, si riparano e si ricaricano. In sostanza è fondamentale, anche se spesso lo trascuriamo.

Come migliorare il sonno

Cosa possiamo fare dunque per migliorare il sonno? Oltre a cercare di dormire sempre le giuste ore o almeno di compensare nel fine settimana la privazione accumulata nei giorni feriali, possiamo provare a migliorare la qualità del sonno con alcuni accorgimenti dettati dal buon senso e non impossibili, per quanto difficili, da mettere in pratica:

stabilire una routine serale
andare a dormire sempre alla stessa ora
dormire in un luogo buio e tranquillo, non troppo caldo e non troppo freddo
lasciare fuori dalla stanza da letto smartphone, tablet, televisione e qualsiasi dispositivo elettronico
abbandonare pc, social, videogames e streaming almeno un’ora prima di coricarsi
dedicarsi piuttosto a lettura, musica e a un bagno o una doccia caldi
evitare caffeina, ginseng, bevande zuccherate, alcol, pasti abbondanti, cibi piccanti o acidi, prima di andare a letto
fare attenzione anche a quanto si beve prima di mettersi a dormire, onde evitare di doversi alzare per andare in bagno. Se si gradisce una tisana, l’ideale sarebbe berla al massimo un paio d’ore prima
evitare di fare attività fisica entro le tre ore precedenti al momento di andare a letto (ma praticarla in giornata)
evitare il fumo, che danneggia il sonno
prestare attenzione al materasso, che deve avere la giusta rigidità

Si tratta ovviamente di consigli generici, che non sostituiscono il parere di un medico in caso di problemi specifici, ma che possono aiutarci a non dover passare metà del fine settimana a recuperare il debito di sonno accumulato nei giorni precedenti, per poi ricominciare da capo il lunedì.

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Demografica

Referendum Cittadinanza, Dalla Zuanna: “Ne abbiamo bisogno,...

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Il Referendum Cittadinanza proposto da +Europa ha superato le 500.000 firme necessarie per far iniziare l’iter. Gli italiani saranno chiamati a votare probabilmente nella primavera 2025, comunque entro tre mesi dalla vidimazione delle firme. La modifica proposta punta a facilitare l’ottenimento della cittadinanza per 2,5 milioni di extracomunitari che dovrebbero risiedere in Italia per cinque anni, invece di dieci, prima di poter richiedere la cittadinanza italiana.

Abbiamo chiesto a Gianpiero Dalla Zuanna, professore di Demografia all’Università di Padova e già senatore, che impatto avrebbe questa revisione sul futuro dell’Italia, minacciato da una profonda crisi demografica.

Dalla Zuanna sul Referendum Cittadinanza

Professore, gli eventuali due milioni e mezzo di nuovi cittadini poi trasferirebbero la loro cittadinanza ai figli in base al principio dello Ius sanguinis, aumentando la portata della modifica. Potrebbe essere questa la strada per fermare l’emorragia di nascite del nostro Paese?

“Potrebbe aiutare nel senso che tutte le azioni che accelerano l’integrazione possono essere utili. Però bisogna stare attenti: non è un riconoscimento formale che risolve il problema. Il vero punto sta nel creare le condizioni socio-economiche per cui gli stranieri possano soddisfare i motivi per cui vengono in Italia, cioè migliorare la propria situazione e avere una mobilità sociale. Se non facciamo questo, rischiamo di pensare che la cittadinanza formale possa sostituire quello che è sostanziale.

Il problema riguarda non solo gli stranieri, ma anche i figli di famiglie italiane di condizione modesta, soprattutto in termini di istruzione”, spiega Dalla Zuanna evidenziando il problema dell’ascensore sociale dell’istruzione, che in Italia è rotto.

Secondo i dati Inapp 2022, un figlio di un padre laureato ha oltre il triplo delle possibilità di laurearsi rispetto al figlio di chi ha conseguito la terza media. Il divario si acuisce tra le famiglie degli extracomunitari, dove i genitori raramente hanno potuto studiare: “C’è una enorme differenza nei risultati scolastici tra stranieri e italiani, e anche tra le classi sociali. La scuola è organizzata in modo che chi proviene da famiglie che non riescono ad aiutare i figli, non ha molte possibilità di farcela. Il modello è ancora pensato per le famiglie che hanno la mamma a casa che deve seguire i figli quando tornano da scuola. Siamo uno dei pochi Paesi occidentali dove i ragazzi tornano a casa ancora all’ora di pranzo e questo implica un grave problema di gestione per le famiglie.

Questo non significa – sottolinea il professore – che il tema della cittadinanza vada sottovalutato. Molti giovani stranieri spesso non capiscono perché non possono diventare italiani, dato che sono qui da piccoli e non si identificano con il loro Paese d’origine. Si trovano in una sorta di apolidia. E siccome la cittadinanza è una cosa seria, non solo dà un senso di appartenenza, ma permette di evitare problemi concreti, come quelli legati ai viaggi all’estero o alla ricerca di opportunità”.

La presidente Meloni ha dichiarato che non vede la necessità di cambiare i termini per l’acquisizione della cittadinanza. Come si concilia questa posizione con gli interventi che l’esecutivo sta portando avanti per contrastare la denatalità?

Dalla Zuanna fa una premessa: “In questi giorni, molti politici stanno affermando che l’Italia è uno dei Paesi che concede più cittadinanze. È vero, ma c’è un problema di metodo: si confronta il numero di cittadinanze ora concesse con quello di diversi anni fa, ma questo non tiene conto del fatto che molti immigrati arrivati dieci, dodici anni fa, stanno ottenendo adesso la cittadinanza. C’è stato un boom migratorio nei primi dieci anni del secolo, e ora queste persone stanno ottenendo la cittadinanza. Questo spiega perché siamo il Paese che dà più cittadinanze rispetto ad altri Paesi europei”. Dalla Zuanna ricorda che: “Il saldo tra le cittadinanze che l’Italia sta concedendo e gli arrivi che ci sono stati in quel periodo è comunque negativo”.

C’è un altro elemento che sta passando in secondo piano nel dibattito pubblico, catturato dal dato numerico: “Anche se venisse modificata, la legge manterrebbe comunque condizioni stringenti: bisogna avere cinque anni di residenza continuativa, non avere avuto problemi legali, dimostrare un reddito sufficiente, e c’è anche una verifica della conoscenza della lingua. Non vedo alcun motivo per opporsi a questa riduzione, che, anzi, mi sembra una proposta molto sensata.

Quindi crede che le dichiarazioni che minimizzano la necessità dell’immigrazione siano di facciata?

Sì, queste dichiarazioni sono più che altro politiche, puntano al consenso. Nella realtà, le industrie e le imprese continuano a chiedere lavoratori e l’esecutivo lo sa. Ad esempio, nel settore agricolo ci sono raccolti che devono essere fatti manualmente, e per fare questo servono persone che lavorano per sei mesi all’anno. La domanda di lavoratori continuerà ad esserci, anche se si cerca di bloccarla”.

In diverse occasioni il vicepremier Matteo Salvini ha dichiarato che gli extracomunitari verrebbero in Italia solo per prendere la pensione. Questa dinamica sarebbe esasperata dalla modifica proposta con il Referendum Cittadinanza.

Sul punto, l’ex senatore Dalla Zuanna ricorda: “Molti immigrati lavorano in Italia per decenni, versano i contributi, ma non raggiungeranno mai i venti anni di contributi necessari per ottenere una pensione, e quindi non riceveranno nulla. Alcuni chiedono la pensione sociale, ma è il minimo se si guarda il contributo che i lavoratori stranieri danno al nostro welfare e alla nostra economia”.

Il ruolo degli immigrati per la demografia italiana

Nel 2023 il saldo migratorio con l’estero complessivo è pari a +274mila unità, un guadagno di popolazione ottenuto come effetto di due dinamiche opposte. Da un lato, l’immigrazione straniera, ampiamente positiva (360mila), controbilanciata da un numero di partenze esiguo (34mila), dall’altro, il flusso con l’estero dei cittadini italiani caratterizzato da un numero di espatri (108mila) che non viene rimpiazzato da altrettanti rimpatri (55mila). Il risultato è un guadagno di popolazione di cittadinanza straniera (+326mila) e una perdita di cittadini italiani (-53mila). Ma la demografia italiana ha bisogno di una spinta molto maggiore.

“Abbiamo un problema demografico molto serio. – continua Dalla Zuanna – Se non ci fossero ingressi migratori, il Veneto, per esempio, perderebbe circa 30-40 mila persone in età lavorativa ogni anno, il che significherebbe una riduzione di 700 mila persone in 20 anni. Le persone che escono dal mercato del lavoro sono operai e persone con bassa istruzione, mentre chi entra è generalmente diplomato. Ma abbiamo comunque bisogno di persone per svolgere lavori a basso contenuto di specializzazione, come pulire corridoi o lavorare in cucina negli ospedali. Se manca questa forza lavoro, si ferma l’intero apparato”. Una situazione nota all’esecutivo, come dimostrano le decisioni prese in materia migratoria: “Il governo stesso ha dovuto aumentare il numero di ingressi tramite il decreto Flussi. Quindi, mentre si fanno certe dichiarazioni, si sa bene che l’immigrazione è necessaria”.

Le misure per incentivare la natalità

Il governo ha introdotto diverse misure per incentivare la natalità. Pensa che siano sufficienti?

“La mossa migliore è stata quella di confermare due strumenti introdotti dai governi precedenti quali l’assegno unico e il bonus asilo nido.
Il primo è molto importante perché dà soldi a tutte le famiglie con figli, indipendentemente dalla loro posizione lavorativa. L’unico requisito considerato è l’Isee. Questo è un grande passo avanti”. Molti ritengono irrisorio l’importo dell’assegno unico, critica non condivisa dal professore: “Per una famiglia che, in due, porta a casa 3.000 euro, 200 euro in più fanno la differenza. È un importo che copre quasi la metà delle spese necessarie per un figlio. È chiaro che per chi guadagna 10.000 euro al mese, l’assegno unico sia una briciola, ma è una condizione che riguarda poche persone.

Sicuramente l’assegno unico aiuta ad affrontare le situazioni di povertà, ma questo non significa necessariamente che abbia decretato un aumento delle nascite”, spiega Dalla Zuanna prima di sottolineare l’importanza del Bonus Nido: “Abbiamo visto misure analoghe in altre Regioni italiane, con un aumento dei secondi e terzi figli tra le persone con redditi modesti e una riduzione degli aborti volontari. In altri Paesi europei, come la Germania, misure simili hanno avuto effetti significativi sull’economia proprio perché viene corrisposto non solo ai poveri ma anche alle famiglie di reddito medio”.

Il vulnus, sostiene Dalla Zuanna, è l’orizzonte temporale con cui vengono pensate le misure pro natalità: “Gli interventi si concentrano sui primi anni di vita del bambino, quando spesso ci sono i nonni a dare una mano. Ma è quando i bambini diventano adolescenti che la situazione si complica. Il nostro sistema di welfare è ancora pensato per un modello di famiglia tradizionale, dove la madre sta a casa e il papà va al lavoro. In realtà, gli studi dimostrano che le coppie in cui entrambi i genitori lavorano hanno più probabilità di avere un secondo o terzo figlio, proprio perché il reddito è più alto”. Una risposta concreta all’eterno dibattito sul perché in Italia si fanno pochi figli, tra chi ritiene che la causa principale sia l’egoismo e chi vede nella matrice economica la causa principale della denatalità.

“Il costo dei figli – conclude Dalla Zuanna – è aumentato e anche il tempo che i genitori vogliono passare con loro è cresciuto. Inoltre, per molte categorie i salari non sono cresciuti al ritmo dell’inflazione, il che rende ancora più complicato per le famiglie gestire le spese legate ai figli”.

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