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Sardegna: meno persone, meno studenti e lo spettro di un’isola vuota

La Sardegna si trova a fronteggiare una crisi demografica senza precedenti, una vera e propria voragine che sta colpendo l’intera regione. Il Rapporto Mete 2024 delle Acli, presentato ieri, 30 settembre, a Cagliari, ha portato alla luce dati allarmanti: dal 2015 ad oggi, la popolazione sarda è diminuita di ben 88.306 persone e in un solo anno l’isola ha perso 8mila abitanti. Un calo che non è compensato dall’immigrazione.
Al 2023, la popolazione dell’isola è di 1.569.832 di persone, le proiezioni per il futuro sono drammatiche: entro il 2050 la popolazione sarda scenderà a 1.239.379, in diminuzione del 21%.

Questo crollo repentino è dovuto alla scarsità di giovani tra gli zero e i 14 anni, che è il più basso del Paese. Solo il 10% della popolazione rientra in questa fascia di età, mentre la media nazionale (comunque molto bassa) si attesta al 16,7%.
Come spesso succede, il drastico calo delle nascite è accompagnato da una preoccupante crescita della dispersione scolastica, che in Sardegna raggiunge il 17,3%, contro una media italiana del 10%.

Fonte dati: Istat

L’impatto della crisi demografica sarda sull’Università

Il calo demografico non si limita solo alla popolazione generale, ma ha un effetto diretto anche sull’università e l’istruzione superiore in Sardegna. Il numero di immatricolati nelle due principali università dell’isola, quelle di Cagliari e Sassari, è in netto calo rispetto al picco del 2020-2021. Nell’anno accademico 2022-2023, solo 4.063 studenti si sono iscritti all’Università di Cagliari e 1.968 a quella di Sassari. La tendenza è stabile rispetto all’anno precedente, ma segna una contrazione di 300 studenti rispetto a due anni prima.

Alla natalità si aggiunge la migrazione interna che contribuisce alla riduzione delle immatricolazioni nelle università sarde. Nel 2023, quasi uno studente sardo su cinque (il 17%) ha scelto di studiare fuori dall’isola, principalmente in Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna. Questo flusso di studenti all’estero o in altre regioni si traduce in un’ulteriore riduzione della forza studentesca, che ha ricadute dirette sulla produttività e sulle risorse umane dell’isola.

Il crollo della popolazione scolastica riguarda più in generale tutto il Mezzogiorno. Le scuole professionali, che dovrebbero preparare i giovani al mercato del lavoro, hanno subito un calo drammatico: negli ultimi dieci anni gli iscritti sono diminuiti del 18,43%, e il primo anno delle scuole professionali ha visto un crollo del 37,37%. Questo dato è particolarmente preoccupante in un momento in cui il mercato del lavoro italiano ha una forte domanda di professionalità specialistiche.

Secondo un rapporto di Area Studi Legacoop e Prometeia, il sistema produttivo italiano perde circa 150.000 lavoratori all’anno, e li perderà almeno fino al 2030.

In alcuni settori la crisi demografica è accentuata dal mismatch tra le competenze richieste dal mercato e quelle offerte dai giovani. La carenza di figure professionali in ambiti strategici, come ingegneria e scienze, si scontra con un eccesso di laureati in discipline per le quali il mercato offre poche opportunità. La mancanza di ingegneri e tecnici specializzati è particolarmente acuta nel settore dell’IT e delle energie rinnovabili, dove la domanda cresce rapidamente ma l’offerta non riesce a tenere il passo.

Le dinamiche migratorie e il ruolo degli studenti stranieri

Nonostante l’immigrazione straniera non riesca a compensare completamente la perdita di abitanti, rimane un aspetto rilevante per comprendere le dinamiche demografiche. La popolazione straniera in Sardegna è principalmente composta da cittadini rumeni, con 11.313 persone, seguiti dai senegalesi (4.289), marocchini, cinesi e ucraini. In particolare, l’afflusso di ucraini è cresciuto del 16% tra il 2022 e il 2023, mentre altre nazionalità, come quella marocchina, hanno visto un calo del 3%.

A complicare ulteriormente il quadro, la migrazione verso l’estero dei sardi, che è in costante aumento. Al 31 dicembre 2022, gli iscritti all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) provenienti dalla Sardegna erano 128.350, contribuendo all’emorragia demografica dell’isola. Questa perdita di capitale umano incide negativamente anche sul sistema educativo sardo, poiché molti giovani scelgono di cercare opportunità lavorative o di studio al di fuori dei confini isolani.

Migliorare l’offerta

La diminuzione della popolazione e il calo delle iscrizioni universitarie richiedono interventi urgenti e mirati. Come affermato da Vania Statzu, coordinatrice del gruppo di lavoro del Rapporto Mete 2024, la perdita di studenti è direttamente legata al calo demografico. Per affrontare questa crisi, è necessario migliorare l’offerta formativa e creare nuove opportunità lavorative locali che possano trattenere i giovani nell’isola. “L’84% di chi decide di iscriversi all’Università resta in Sardegna. Chi si sposta in genere va a cercare quei titoli di studio e i corsi di laurea che non esistono nel proprio territorio, specializzazioni molto particolari oppure in territori nei quali c’è una stretta connessione fra mondo universitario e mondo del lavoro, ma servono risorse economiche”, spiega la coordinatrice Vania Statzu.

L’assessora regionale all’Istruzione, Ilaria Portas, ha sottolineato la necessità di investire in un’offerta formativa diversificata e distribuita equamente sul territorio, affinché gli studenti non siano costretti a emigrare per trovare percorsi di studio adeguati o prospettive lavorative in linea con le loro esigenze.

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Baby-sitter: in nero, donne e specializzate, ecco come le...

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Donna, giovane e specializzata. E spesso in nero. È il profilo della baby-sitter ideale per una famiglia italiana su tre, secondo un’analisi di Nuova Collaborazione (Associazione Nazionale dei Datori di Lavoro Domestico) realizzata dall’istituto di ricerche SWG, che ha indagato le abitudini delle famiglie italiane nella cura dei figli. Lo studio ha coinvolto un campione rappresentativo di 711 famiglie con almeno un figlio nella fascia d’età 0-12 anni.

Dalla ricerca emerge che le baby-sitter sono un po’ l’’ultima spiaggia’ a cui si ricorre per gestire la prole – specialmente fino ai 6 anni d’età – dopo l’aiuto di genitori e nonni. Ma rimangono comunque figure necessarie in una molteplicità di casi e situazioni.

Giovani donne, specializzate ma tenute ‘in nero’: le baby-sitter

Per un compito così delicato, le famiglie si rivolgono a giovani donne (58% tra i 18 e i 34 anni), italiane (95%) e di sesso femminile (93%), anche se c’è una crescente apertura verso figure più anziane e di origine straniera. Inoltre viene sempre più richiesta una certa professionalità oltre a competenze più allargate rispetto alla classica baby-sitter che doveva solo verificare che il bambino non distruggesse se stesso o casa, e andasse a dormire in orario.

Ora sono ricercate anche creatività e primo soccorso, oltre a saper cucinare e svolgere lavori domestici: una tendenza professionalizzante che contrasta con un’altra tendenza, quella a ricorrere alla baby-sitter in modo discontinuo e in nero.

Soltanto il 36% delle baby-sitter, infatti, è assunto con un contratto regolare, anche perché si ‘approfitta’ del fatto che il rapporto di lavoro nasce molto spesso in modo informale e saltuario, per conoscenza diretta o tramite amicizie. Quando però il rapporto si struttura in modo più continuativo, o comporta un numero d’ore rilevante, cosa che capita nel 22% dei casi, la tendenza è a regolarizzare: lo fa il 63% delle famiglie.

Per questo motivo gli italiani apprezzano molto eventuali aiuti da parte dello Stato per affrontare questa spesa: il 59% (tra le persone che attualmente non hanno una babysitter di riferimento) è favorevole ad un eventuale aiuto da parte dello Stato, il 91% a detrazioni totali.

Quanto costa al mese una baby-sitter

Ma quanto costa un aiuto di questo tipo? La spesa media oscilla tra i 250 e i 370 euro al mese in base alla tipologia di collaborazione. Con un contratto regolare, mediamente ogni mese la baby-sitter costa sui 380 euro, scende invece a 368 per chi mantiene rapporti non formalizzati. Dal punto di vista orario, chi non regolarizza tende a pagare circa 50 centesimi in più all’ora, con un compenso in nero pari a circa 10,22 euro che arrivano 9,71 euro per chi decide di contrattualizzare.

“I dati della ricerca realizzata da SWG evidenziano quanto il lavoro delle baby-sitter non venga ancora considerato dalla nostra società, nonostante l’importanza riconosciuta a queste figure per la crescente necessità di conciliare lavoro e vita privata. C’è ancora molta resistenza nel formalizzare i rapporti ma, al tempo stesso, i profili ricercati sono altamente specializzati, a dimostrazione di quanto il lavoro di cura necessiti di formazione mirata – ha dichiarato l’avvocato Filippo Breccia Fratadocchi, vicepresidente di Nuova Collaborazione.

“A questo si aggiunge la mancanza di interventi di welfare strutturati e duraturi in favore delle famiglie. Ecco perché continuiamo a ribadire la necessità di politiche di defiscalizzazione del settore del lavoro domestico che è diventato ormai fondamentale nella gestione e nella cura di tutti i nostri cari”.

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“Per essere sicuri che sia una donna deve essere madre”:...

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Per essere sicuri che una donna sia una donna, deve essere mamma. Per essere sicuri che una donna sia una donna, deve essere mamma. L’equazione, che ricorre ma che è per definizione discutibile, viene ripetuta anche dai microfoni del consiglio comunale della città più cosmopolita e aperta d’Italia: Milano.

Non che non ci sia libertà di esprimere un’opinione come questa anche e soprattutto nelle sedi politiche: infatti Deborah Giovanati, consigliera di Forza Italia eletta con la Lega, coerentemente madre, lunedì 30 settembre nel suo intervento nel Consiglio si è espressa così: “Per essere sicuri che una persona sia una donna deve essere mamma”.

Donne e ‘quote rosa’

Il tema in discussione riguardava il nuovo regolamento della Commissione paesaggio che prevede l’aumento del numero dei componenti da 11 a 15 e l’obbligo del rispetto delle norme sulla parità di genere, secondo le quali il genere con minor rappresentanza – che fatalmente ancora risulta essere quello femminile, ma la norma tutelerebbe anche quello maschile se dovesse trovarsi nella stessa situazione – deve essere presente almeno al 40% dei membri. Nel caso specifico, dunque, un emendamento del Pd voleva portare a 7 su 15 il numero ‘obbligatorio’ dei componenti del genere meno rappresentato.

E qui appunto Giovanati si è lanciata nella questione di come capire ed essere sicuri che una donna sia veramente tale, per “avere la garanzia che quelle sette componenti siano donne”.

La prima domanda che viene da porsi è: e se una persona non ha voluto o ancora peggio non ha potuto essere madre, cosa è? E ancora: non avrebbe diritto a entrare nella Commissione paesaggio (o in qualunque altro posto dove ci siano le quote ‘rosa’) perché non può dimostrare di essere donna?

Non solo, ma il ragionamento potrebbe essere rigirato, e quindi portare a chiedersi come riconoscere che gli otto componenti maschi siano davvero maschi.

Il sindaco Sala: “Affermazione da medioevo”

Il sindaco Beppe Sala ha infatti commentato: “Quindi io che sono un uomo e non ho potuto avere figli – perché io li avrei voluti ma non ho potuto per i miei guai di salute – mi devo sentire meno uomo? Se cominciamo a fare questi ragionamenti, è veramente il peggio che si possa fare. Siamo ancora molto lontani dalla parità”.

E ha definito l’uscita della consigliera “un’affermazione da ritorno al Medioevo”.

“Liberateci dalle categorie maschili e femminili”

Per la precisione, va detto che Giovanati ha poi specificato che per lei sono donne anche quelle che non sono madri, ma senza chiarire come questo si concili con la sua richiesta che le sette componenti della Commissione paesaggio abbiano partorito dei figli a garanzia che siano donne.

Il punto di partenza della richiesta di Giovanati è, e lo ha spiegato durante il suo intervento tra la perplessità generale e alcune proteste, che “ci sono persone a sinistra che la domanda su cosa sia una donna la stanno ponendo come dubbio intellettuale, culturale, in ogni ambito”.

“Spesse volte – ha continuato – ponete il dubbio di cosa sia una donna e dato che questa maggioranza è sostenuta culturalmente da persone che dicono che la distinzione tra i sessi non esiste più, voi state facendo un’operazione antiquata: state dicendo ‘vogliamo sette donne’, ma cosa sono le donne e cosa gli uomini? Non esistono più, possiamo essere un giorno una cosa e un giorno un’altra, lasciateci la libertà di essere quello che vogliamo, siamo fluidi, liberateci dalle categorie maschili e femminili”.

Insomma la sua richiesta sarebbe una provocazione, come ha commentato sul social X in risposta alle proteste e alle critiche confermando allo stesso tempo il suo pensiero: “La mia voleva essere una provocazione alla loro teoria del neutro e della fluidità. Loro non riconoscono la distinzione tra uomini e donne. Sicuramente una mamma è una donna. E li fioccano gli insulti da parte della sinistra”.

E in un secondo post: “Sicuramente una mamma è una donna. E che sono donne anche chi non è mamma. Si agitano tutti così tanto perché forse a sinistra non possono più dire che solo le donne possono essere mamme? Oppure perché uso il termine mamma? W le donne!”

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In Italia è emergenza edilizia scolastica: solo il 50% ha i...

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In Italia, il sistema scolastico è in una condizione di emergenza, con un terzo delle scuole che ha bisogno di interventi di manutenzione urgenti. A riportarlo è un report di Legambiente, presentato a Napoli, alla chiesa dei Cristallini, nel Rione Sanità, uno spazio di comunità restituito agli abitanti del quartiere grazie ad un lavoro di recupero e di rigenerazione urbana avviato dalla cooperativa ‘La Paranza’ e oggi sede di diversi progetti educativi.

Ciò che è emerso è che nel Sud e nelle Isole la situazione è ancora più grave: una scuola su due richiede urgentemente interventi. Nonostante l’aumento dei fondi per la manutenzione straordinaria, la situazione rimane stazionaria e preoccupante.

Fondi per la manutenzione: un dato allarmante

Nel 2023, il governo italiano ha stanziato in media 42.000 euro per singolo edificio scolastico, un incremento rispetto ai 36.000 euro degli ultimi cinque anni. Tuttavia, questo aumento non si traduce in un reale miglioramento della situazione. Solo 23.821 euro sono stati spesi su una media di 42.022 euro stanziati per ogni scuola, evidenziando un significativo gap tra fondi disponibili e utilizzo effettivo.

Questo problema si estende anche ad altre aree fondamentali come la digitalizzazione, i trasporti, i servizi per lo sport e l’efficientamento energetico.

Il report Ecosistema Scuola, giunto alla XXIV edizione, ha analizzato i dati 2023 di 100 comuni capoluogo su 113, riguardanti 7.024 edifici scolastici e oltre 1,3 milioni di studenti. La relazione mette in luce le lacune nei servizi essenziali previsti dai Lep (Livelli Essenziali di Prestazione), che comprendono l’edilizia scolastica, la digitalizzazione e i servizi mensa.

“I ritardi e le emergenze da affrontare sono evidenti anche nei trasporti e nelle palestre, servizi cruciali per il benessere degli studenti,” scrive Legambiente.

Sicurezza e innovazione digitale

I dati sullo stato di salute degli edifici scolastici sono quindi preoccupanti: solo il 50% delle scuole possiede tutti i certificati di sicurezza. Inoltre, poco più di una scuola su due è dotata di reti cablate e Wi-Fi. “Le mense – si legge nel report – restano un servizio di qualità ma ancora non presente in tutte le aree del Paese. Il dato medio di 76,7% di edifici con mensa a livello nazionale, al Nord e al Centro sale rispettivamente al 92,2% e all’80,9%, mentre nel Sud e nelle Isole si ferma rispettivamente al 54,3% e al 41,2%”.

Legambiente segnala anche un grave problema di sostenibilità. Preoccupa, “la poca attenzione alla sostenibilità, nel 64,9% delle mense vengono impiegate stoviglie monouso – spiega Legambiente nel report – Sul fronte trasporti solo il 19,7% delle scuole dispone di un servizio di mobilità collettiva come lo scuolabus; sui servizi per lo sport un impianto su quattro necessita di manutenzione urgente. Le palestre aperte oltre l’orario scolastico sono oltre il 70% nei capoluoghi di provincia del Centro-Nord, per ridursi al 30,3% nelle Isole al Sud e ridimensionarsi a poco più del 40% nelle città del Sud delle Isole. Relativamente all’energia, solo il 20,9% degli edifici scolastici utilizza fonti di energia rinnovabile, con un picco al Nord (24,3%) e un minimo nelle Isole (14,1%), solo il 16,4% delle scuole ha visto realizzati interventi di efficientamento negli ultimi 5 anni e di tutti gli edifici scolastici, solo il 6,7% si trova in classe A”.

Le disparità territoriali

La relazione di Legambiente non tralascia di evidenziare le forti disparità territoriali. Ad esempio, solo il 20,9% degli edifici scolastici utilizza fonti di energia rinnovabile, con punte del 24,3% al Nord e un misero 14,1% nelle Isole. “È inaccettabile che i Lep non considerino servizi fondamentali il trasporto scolastico e la sostenibilità energetica,” ha affermato Claudia Cappelletti, responsabile nazionale scuola di Legambiente. “Senza un investimento adeguato, le aree più fragili del Paese rischiano di rimanere indietro.”

Agibilità e sicurezza

“Nel 2023 il certificato di agibilità degli edifici scolastici è presente mediamente in una scuola su due, con forti divari geografici fra Nord (68,8% degli edifici) e Sud (22,6%); gli accorgimenti per l’abbattimento delle barriere architettoniche vedono una differenza fra la media nazionale (79,9% degli edifici) e le Isole di venti punti percentuali (61%). Il collaudo statico, mediamente effettuato in una scuola su due, ma non al Sud, che è zona particolarmente sismica, dove è invece presente solo nel 27,2% degli edifici – si legge nel report – Infine, il certificato prevenzione incendi è una norma in costante transizione, con continue proroghe (l’ultima, contenuta nel Decreto Milleproroghe, fissa come scadenza il 31 dicembre 2024). In questo caso, però, le scuole del Sud sono più avanti (65,2% rispetto al 55,8% della media nazionale). Sono in deroga, invece, le scuole al di sotto dei 100 alunni, quindi, facilmente le scuole dei piccoli comuni; ma anche dove la situazione è migliore, per Legambiente non è accettabile che questi requisiti siano presenti al massimo nel 50% degli edifici scolastici. Dovrebbe essere obiettivo prioritario che il 100% delle scuole italiane presentasse tutte le garanzie di sicurezza”.

Un piano di rigenerazione necessario

“Abbiamo scelto Napoli, capitale del Mezzogiorno, per evidenziare – commenta Mariateresa Imparato, presidente di Legambiente Campania – ancora una volta il divario tra Nord e sud del Paese in termini di edilizia e servizi scolastici, ma soprattutto per chiedere con atti concreti un’accelerata sul fronte della transizione ecologica ancora troppo timida in ambito scolastico dove assistiamo a ritardi, poca volontà politica e scarsa programmazione. È giunto il tempo di ‘alzare l’asticella della qualità’, con obiettivi e prestazioni da raggiungere che garantiscano davvero la sostenibilità ambientale e la salubrità degli edifici, la qualità indoor, il benessere e la salute. La vera sfida consiste nel promuovere nei fatti un grande cantiere di innovazione, dove convogliare idee e risorse per progettare e realizzare scuole innovative, sostenibili, più sicure e inclusive”.

Il report di Legambiente non è solo una denuncia, ma anche una chiamata all’azione. La situazione attuale richiede un piano di investimento ordinario, capace di garantire l’efficienza e la sicurezza delle scuole italiane.

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