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“Per essere sicuri che sia una donna deve essere madre”: bufera sulle parole della consigliera milanese

Per essere sicuri che una donna sia una donna, deve essere mamma. Per essere sicuri che una donna sia una donna, deve essere mamma. L’equazione, che ricorre ma che è per definizione discutibile, viene ripetuta anche dai microfoni del consiglio comunale della città più cosmopolita e aperta d’Italia: Milano.

Non che non ci sia libertà di esprimere un’opinione come questa anche e soprattutto nelle sedi politiche: infatti Deborah Giovanati, consigliera di Forza Italia eletta con la Lega, coerentemente madre, lunedì 30 settembre nel suo intervento nel Consiglio si è espressa così: “Per essere sicuri che una persona sia una donna deve essere mamma”.

Donne e ‘quote rosa’

Il tema in discussione riguardava il nuovo regolamento della Commissione paesaggio che prevede l’aumento del numero dei componenti da 11 a 15 e l’obbligo del rispetto delle norme sulla parità di genere, secondo le quali il genere con minor rappresentanza – che fatalmente ancora risulta essere quello femminile, ma la norma tutelerebbe anche quello maschile se dovesse trovarsi nella stessa situazione – deve essere presente almeno al 40% dei membri. Nel caso specifico, dunque, un emendamento del Pd voleva portare a 7 su 15 il numero ‘obbligatorio’ dei componenti del genere meno rappresentato.

E qui appunto Giovanati si è lanciata nella questione di come capire ed essere sicuri che una donna sia veramente tale, per “avere la garanzia che quelle sette componenti siano donne”.

La prima domanda che viene da porsi è: e se una persona non ha voluto o ancora peggio non ha potuto essere madre, cosa è? E ancora: non avrebbe diritto a entrare nella Commissione paesaggio (o in qualunque altro posto dove ci siano le quote ‘rosa’) perché non può dimostrare di essere donna?

Non solo, ma il ragionamento potrebbe essere rigirato, e quindi portare a chiedersi come riconoscere che gli otto componenti maschi siano davvero maschi.

Il sindaco Sala: “Affermazione da medioevo”

Il sindaco Beppe Sala ha infatti commentato: “Quindi io che sono un uomo e non ho potuto avere figli – perché io li avrei voluti ma non ho potuto per i miei guai di salute – mi devo sentire meno uomo? Se cominciamo a fare questi ragionamenti, è veramente il peggio che si possa fare. Siamo ancora molto lontani dalla parità”.

E ha definito l’uscita della consigliera “un’affermazione da ritorno al Medioevo”.

“Liberateci dalle categorie maschili e femminili”

Per la precisione, va detto che Giovanati ha poi specificato che per lei sono donne anche quelle che non sono madri, ma senza chiarire come questo si concili con la sua richiesta che le sette componenti della Commissione paesaggio abbiano partorito dei figli a garanzia che siano donne.

Il punto di partenza della richiesta di Giovanati è, e lo ha spiegato durante il suo intervento tra la perplessità generale e alcune proteste, che “ci sono persone a sinistra che la domanda su cosa sia una donna la stanno ponendo come dubbio intellettuale, culturale, in ogni ambito”.

“Spesse volte – ha continuato – ponete il dubbio di cosa sia una donna e dato che questa maggioranza è sostenuta culturalmente da persone che dicono che la distinzione tra i sessi non esiste più, voi state facendo un’operazione antiquata: state dicendo ‘vogliamo sette donne’, ma cosa sono le donne e cosa gli uomini? Non esistono più, possiamo essere un giorno una cosa e un giorno un’altra, lasciateci la libertà di essere quello che vogliamo, siamo fluidi, liberateci dalle categorie maschili e femminili”.

Insomma la sua richiesta sarebbe una provocazione, come ha commentato sul social X in risposta alle proteste e alle critiche confermando allo stesso tempo il suo pensiero: “La mia voleva essere una provocazione alla loro teoria del neutro e della fluidità. Loro non riconoscono la distinzione tra uomini e donne. Sicuramente una mamma è una donna. E li fioccano gli insulti da parte della sinistra”.

E in un secondo post: “Sicuramente una mamma è una donna. E che sono donne anche chi non è mamma. Si agitano tutti così tanto perché forse a sinistra non possono più dire che solo le donne possono essere mamme? Oppure perché uso il termine mamma? W le donne!”

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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La denatalità traccia il futuro delle pensioni: ecco come...

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Andare in pensione sarà sempre più difficile, soprattutto per chi vuole lasciare il lavoro prima dei 67 anni. In compenso, il governo sta lavorando a degli incentivi per chi resta al lavoro anche dopo l’età pensionabile.

Le indiscrezioni che arrivano dai lavori della Manovra sono dolorose, ma del tutto preventivate. D’altronde, solo pochi giorni fa l’Istat ha lanciato l’allarme sulle troppe pensioni anticipate in Italia. Così tante che mediamente si va in pensione a 64,2 anni e non a 67. Un gap che il Paese non può permettersi con questa crisi demografica.

Ancor meno fattibile, e già esclusa, l’ipotesi proposta dalla Lega di introdurre Quota 41, ovvero la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età. A inizio anno il sottosegretario all’Economia Claudio Durigon aveva rilanciato questo canale di uscita anticipata dal lavoro, ma non si farà perché il sistema pensionistico è già in grave affanno. Non sarà inserita in Manovra neanche la versione light di Quota 41 che prevede il calcolo contributivo dell’intero assegno, esclusa a causa dei costi troppo elevati.

Stretta sulle pensioni anticipate

Dovrebbero essere prorogati i tre canali di pensionamento già esistenti e in scadenza il 31 dicembre:

Quota 103: 41 anni di contributi e 62 anni d’età;
Opzione Donna: che è stata spostata in avanti con la Manovra 2024 (a 61 anni e non più 60 senza figli; a 60 anni e non più 59 con un figlio; a 59 anni e non più 58 con due o più figli);
Ape Sociale: già rivista aumentando di 5 mesi il requisito anagrafico per l’uscita anticipata, che passa da 63 anni a 63 anni e 5 mesi.

Resteranno in vigore anche le restrizioni introdotte lo scorso anno, come il calcolo contributivo per Quota 103 e il tetto all’importo dell’assegno fino al compimento dei 67 anni.

La decisione di non introdurre nuove forme di pensionamento anticipato riflette la volontà (necessità) del governo di puntare su un prolungamento dell’età lavorativa, cercando di tenere a galla il sistema previdenziale.

Nelle scorse settimane, il ministro Giorgetti ha messo sul tavolo l’ipotesi di prolungare le finestre per l’accesso alla pensione anticipata dagli attuali 3 mesi fino a 6 o 7 mesi per chi intende uscire dal lavoro con 42 anni e 10 mesi di contributi (per le donne 41) e indipendentemente dall’età anagrafica.

Le “finestre” sono un periodo di attesa obbligatorio, il tempo che una persona deve aspettare dopo aver maturato i requisiti necessari (in questo caso l’anzianità contributiva) prima di poter effettivamente andare in pensione.

Se la proposta diventasse realtà, l’età effettiva a cui si può andare in pensione verrebbe posticipata a 43 anni e 5 mesi per gli uomini e 42 anni e 5 mesi per le donne.

In questo senso è già intervenuto il ministro Giorgetti con la stretta sulle pensioni anticipate dato che già da quest’anno sono state allungate le finestre per Quota 103 (da 3 a 7 mesi nel caso dei lavoratori del privato e da 6 a 9 per quelli del pubblico). Per il 2025, l’ipotesi del ministro è estendere il prolungamento delle finestre alle pensioni anticipate ordinarie.

Età lavorativa e cambiamenti in arrivo

Il Piano Strutturale di Bilancio (Psb), che il governo invierà a Bruxelles, prevede un possibile innalzamento dell’età pensionabile per i lavoratori pubblici. Attualmente, questi devono andare in pensione a 67 anni, ma potrebbe essere introdotta la possibilità di continuare a lavorare su base volontaria fino a 70 anni. L’ipotesi è già stata rilanciata dal ministro della pubblica amministrazione Paolo Zangrillo che ha aperto. Il provvedimento mira a tamponare la perdita di quasi un milione di dipendenti prevista entro il 2030, a causa di pensionamenti previsti e del blocco del turnover attuato tra il 2010 e il 2020, che ha ridotto l’organico di circa 300.000 unità.

Anche per i lavoratori del settore privato sono allo studio incentivi alla permanenza nel mercato del lavoro, con l’obiettivo di allungare il periodo di contribuzione e ridurre la pressione sulle casse previdenziali.

Perequazione delle pensioni

Una piccola nota positiva potrebbe riguardare la perequazione delle pensioni, ovvero l’adeguamento degli assegni all’inflazione. Attualmente, il sistema prevede una rivalutazione meno generosa per gli assegni superiori a quattro volte il minimo (circa 2.459 euro lordi al mese). Con la manovra del 2023, il governo ha tagliato l’indicizzazione per questi assegni, risparmiando circa 10 miliardi nel triennio e 36 miliardi fino al 2032.

L’attuale meccanismo scadrà il 31 dicembre 2024. Senza interventi, si tornerebbe a un sistema più generoso con rivalutazioni del 100% fino a quattro volte il minimo, del 90% tra quattro e cinque volte, e del 75% per gli importi superiori. Tuttavia, anche se il governo decidesse di migliorare la perequazione, gli aumenti sarebbero minimi, poiché l’inflazione è scesa dall’8% del 2022 all’1,5%.

C’è però il rischio che, se dovessero essere approvate misure che aumentano la spesa, come la maggiorazione delle pensioni minime, il Tesoro potrebbe richiedere di coprire questi costi riducendo proprio la perequazione.

Il nodo delle pensioni anticipate

Uno dei punti centrali del dibattito è il numero elevato di pensionamenti anticipati rispetto all’età legale di 67 anni, la più alta in Europa insieme a quella della Grecia. Il recente rapporto annuale dell’Inps ha lanciato un allarme: le pensioni anticipate assorbono ormai la metà della spesa pensionistica e rischiano di compromettere l’equilibrio finanziario del sistema previdenziale nel medio-lungo periodo.

Nel 2023, l’Istituto di previdenza ha chiesto oltre 10 miliardi di euro di fondi pubblici per pagare gli assegni, e la cifra è destinata ad aumentare nei prossimi anni.

Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha più volte sottolineato che la combinazione tra il declino demografico e il numero elevato di pensioni anticipate rende urgente una revisione delle politiche previdenziali.

Tutti gli elementi tratti in questo articolo riguardano la Manovra 2025, in attesa di una agognata riforma delle pensioni. Sul punto, Giorgetti è stato laconico: “Con questa denatalità, nessuna riforma delle pensioni terrebbe”.

Previdenza integrativa, torna il silenzio-assenso?

Laddove non arriva il pubblico, deve arrivare il privato.
Per questo, un altro fronte su cui il governo sta lavorando è quello della previdenza integrativa. La ministra del Lavoro, Marina Calderone, ha proposto di aprire un nuovo periodo di silenzio-assenso per destinare automaticamente il Tfr ai fondi pensione di categoria. Questo meccanismo, già utilizzato in passato, permetterebbe di far confluire il trattamento di fine rapporto nei fondi pensione se il lavoratore non esprime esplicitamente la propria contrarietà entro sei mesi dall’avvio del periodo.

La previdenza integrativa potrebbe diventare una risorsa importante per chi desidera andare in pensione anticipatamente. Il Psb prevede che l’adesione ai fondi pensione sarà sempre volontaria, ma chi vi aderisce potrebbe utilizzare i contributi accumulati per raggiungere la soglia di pensionamento anticipato a 64 anni, a condizione che l’importo raggiunto sia pari ad almeno 2,8 volte l’assegno sociale (circa 1.500 euro al mese).

La diffusione delle pensioni private sarebbe incentivata da una basilare educazione finanziaria, su cui l’Italia ha un gap enorme con gli altri Paesi Ue. In questo senso, serve replicare l’esempio (sostenuto dal Ddl capitali) di alcuni comuni che hanno deciso di introdurre l’educazione finanziaria a scuola. Bisogna attivare diversi canali per evitare che la crisi demografica azzeri le speranze di una generazione senza colpe, ma con tanti debiti.

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Baby-sitter: in nero, donne e specializzate, ecco come le...

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Donna, giovane e specializzata. E spesso in nero. È il profilo della baby-sitter ideale per una famiglia italiana su tre, secondo un’analisi di Nuova Collaborazione (Associazione Nazionale dei Datori di Lavoro Domestico) realizzata dall’istituto di ricerche SWG, che ha indagato le abitudini delle famiglie italiane nella cura dei figli. Lo studio ha coinvolto un campione rappresentativo di 711 famiglie con almeno un figlio nella fascia d’età 0-12 anni.

Dalla ricerca emerge che le baby-sitter sono un po’ l’’ultima spiaggia’ a cui si ricorre per gestire la prole – specialmente fino ai 6 anni d’età – dopo l’aiuto di genitori e nonni. Ma rimangono comunque figure necessarie in una molteplicità di casi e situazioni.

Giovani donne, specializzate ma tenute ‘in nero’: le baby-sitter

Per un compito così delicato, le famiglie si rivolgono a giovani donne (58% tra i 18 e i 34 anni), italiane (95%) e di sesso femminile (93%), anche se c’è una crescente apertura verso figure più anziane e di origine straniera. Inoltre viene sempre più richiesta una certa professionalità oltre a competenze più allargate rispetto alla classica baby-sitter che doveva solo verificare che il bambino non distruggesse se stesso o casa, e andasse a dormire in orario.

Ora sono ricercate anche creatività e primo soccorso, oltre a saper cucinare e svolgere lavori domestici: una tendenza professionalizzante che contrasta con un’altra tendenza, quella a ricorrere alla baby-sitter in modo discontinuo e in nero.

Soltanto il 36% delle baby-sitter, infatti, è assunto con un contratto regolare, anche perché si ‘approfitta’ del fatto che il rapporto di lavoro nasce molto spesso in modo informale e saltuario, per conoscenza diretta o tramite amicizie. Quando però il rapporto si struttura in modo più continuativo, o comporta un numero d’ore rilevante, cosa che capita nel 22% dei casi, la tendenza è a regolarizzare: lo fa il 63% delle famiglie.

Per questo motivo gli italiani apprezzano molto eventuali aiuti da parte dello Stato per affrontare questa spesa: il 59% (tra le persone che attualmente non hanno una babysitter di riferimento) è favorevole ad un eventuale aiuto da parte dello Stato, il 91% a detrazioni totali.

Quanto costa al mese una baby-sitter

Ma quanto costa un aiuto di questo tipo? La spesa media oscilla tra i 250 e i 370 euro al mese in base alla tipologia di collaborazione. Con un contratto regolare, mediamente ogni mese la baby-sitter costa sui 380 euro, scende invece a 368 per chi mantiene rapporti non formalizzati. Dal punto di vista orario, chi non regolarizza tende a pagare circa 50 centesimi in più all’ora, con un compenso in nero pari a circa 10,22 euro che arrivano 9,71 euro per chi decide di contrattualizzare.

“I dati della ricerca realizzata da SWG evidenziano quanto il lavoro delle baby-sitter non venga ancora considerato dalla nostra società, nonostante l’importanza riconosciuta a queste figure per la crescente necessità di conciliare lavoro e vita privata. C’è ancora molta resistenza nel formalizzare i rapporti ma, al tempo stesso, i profili ricercati sono altamente specializzati, a dimostrazione di quanto il lavoro di cura necessiti di formazione mirata – ha dichiarato l’avvocato Filippo Breccia Fratadocchi, vicepresidente di Nuova Collaborazione.

“A questo si aggiunge la mancanza di interventi di welfare strutturati e duraturi in favore delle famiglie. Ecco perché continuiamo a ribadire la necessità di politiche di defiscalizzazione del settore del lavoro domestico che è diventato ormai fondamentale nella gestione e nella cura di tutti i nostri cari”.

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In Italia è emergenza edilizia scolastica: solo il 50% ha i...

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In Italia, il sistema scolastico è in una condizione di emergenza, con un terzo delle scuole che ha bisogno di interventi di manutenzione urgenti. A riportarlo è un report di Legambiente, presentato a Napoli, alla chiesa dei Cristallini, nel Rione Sanità, uno spazio di comunità restituito agli abitanti del quartiere grazie ad un lavoro di recupero e di rigenerazione urbana avviato dalla cooperativa ‘La Paranza’ e oggi sede di diversi progetti educativi.

Ciò che è emerso è che nel Sud e nelle Isole la situazione è ancora più grave: una scuola su due richiede urgentemente interventi. Nonostante l’aumento dei fondi per la manutenzione straordinaria, la situazione rimane stazionaria e preoccupante.

Fondi per la manutenzione: un dato allarmante

Nel 2023, il governo italiano ha stanziato in media 42.000 euro per singolo edificio scolastico, un incremento rispetto ai 36.000 euro degli ultimi cinque anni. Tuttavia, questo aumento non si traduce in un reale miglioramento della situazione. Solo 23.821 euro sono stati spesi su una media di 42.022 euro stanziati per ogni scuola, evidenziando un significativo gap tra fondi disponibili e utilizzo effettivo.

Questo problema si estende anche ad altre aree fondamentali come la digitalizzazione, i trasporti, i servizi per lo sport e l’efficientamento energetico.

Il report Ecosistema Scuola, giunto alla XXIV edizione, ha analizzato i dati 2023 di 100 comuni capoluogo su 113, riguardanti 7.024 edifici scolastici e oltre 1,3 milioni di studenti. La relazione mette in luce le lacune nei servizi essenziali previsti dai Lep (Livelli Essenziali di Prestazione), che comprendono l’edilizia scolastica, la digitalizzazione e i servizi mensa.

“I ritardi e le emergenze da affrontare sono evidenti anche nei trasporti e nelle palestre, servizi cruciali per il benessere degli studenti,” scrive Legambiente.

Sicurezza e innovazione digitale

I dati sullo stato di salute degli edifici scolastici sono quindi preoccupanti: solo il 50% delle scuole possiede tutti i certificati di sicurezza. Inoltre, poco più di una scuola su due è dotata di reti cablate e Wi-Fi. “Le mense – si legge nel report – restano un servizio di qualità ma ancora non presente in tutte le aree del Paese. Il dato medio di 76,7% di edifici con mensa a livello nazionale, al Nord e al Centro sale rispettivamente al 92,2% e all’80,9%, mentre nel Sud e nelle Isole si ferma rispettivamente al 54,3% e al 41,2%”.

Legambiente segnala anche un grave problema di sostenibilità. Preoccupa, “la poca attenzione alla sostenibilità, nel 64,9% delle mense vengono impiegate stoviglie monouso – spiega Legambiente nel report – Sul fronte trasporti solo il 19,7% delle scuole dispone di un servizio di mobilità collettiva come lo scuolabus; sui servizi per lo sport un impianto su quattro necessita di manutenzione urgente. Le palestre aperte oltre l’orario scolastico sono oltre il 70% nei capoluoghi di provincia del Centro-Nord, per ridursi al 30,3% nelle Isole al Sud e ridimensionarsi a poco più del 40% nelle città del Sud delle Isole. Relativamente all’energia, solo il 20,9% degli edifici scolastici utilizza fonti di energia rinnovabile, con un picco al Nord (24,3%) e un minimo nelle Isole (14,1%), solo il 16,4% delle scuole ha visto realizzati interventi di efficientamento negli ultimi 5 anni e di tutti gli edifici scolastici, solo il 6,7% si trova in classe A”.

Le disparità territoriali

La relazione di Legambiente non tralascia di evidenziare le forti disparità territoriali. Ad esempio, solo il 20,9% degli edifici scolastici utilizza fonti di energia rinnovabile, con punte del 24,3% al Nord e un misero 14,1% nelle Isole. “È inaccettabile che i Lep non considerino servizi fondamentali il trasporto scolastico e la sostenibilità energetica,” ha affermato Claudia Cappelletti, responsabile nazionale scuola di Legambiente. “Senza un investimento adeguato, le aree più fragili del Paese rischiano di rimanere indietro.”

Agibilità e sicurezza

“Nel 2023 il certificato di agibilità degli edifici scolastici è presente mediamente in una scuola su due, con forti divari geografici fra Nord (68,8% degli edifici) e Sud (22,6%); gli accorgimenti per l’abbattimento delle barriere architettoniche vedono una differenza fra la media nazionale (79,9% degli edifici) e le Isole di venti punti percentuali (61%). Il collaudo statico, mediamente effettuato in una scuola su due, ma non al Sud, che è zona particolarmente sismica, dove è invece presente solo nel 27,2% degli edifici – si legge nel report – Infine, il certificato prevenzione incendi è una norma in costante transizione, con continue proroghe (l’ultima, contenuta nel Decreto Milleproroghe, fissa come scadenza il 31 dicembre 2024). In questo caso, però, le scuole del Sud sono più avanti (65,2% rispetto al 55,8% della media nazionale). Sono in deroga, invece, le scuole al di sotto dei 100 alunni, quindi, facilmente le scuole dei piccoli comuni; ma anche dove la situazione è migliore, per Legambiente non è accettabile che questi requisiti siano presenti al massimo nel 50% degli edifici scolastici. Dovrebbe essere obiettivo prioritario che il 100% delle scuole italiane presentasse tutte le garanzie di sicurezza”.

Un piano di rigenerazione necessario

“Abbiamo scelto Napoli, capitale del Mezzogiorno, per evidenziare – commenta Mariateresa Imparato, presidente di Legambiente Campania – ancora una volta il divario tra Nord e sud del Paese in termini di edilizia e servizi scolastici, ma soprattutto per chiedere con atti concreti un’accelerata sul fronte della transizione ecologica ancora troppo timida in ambito scolastico dove assistiamo a ritardi, poca volontà politica e scarsa programmazione. È giunto il tempo di ‘alzare l’asticella della qualità’, con obiettivi e prestazioni da raggiungere che garantiscano davvero la sostenibilità ambientale e la salubrità degli edifici, la qualità indoor, il benessere e la salute. La vera sfida consiste nel promuovere nei fatti un grande cantiere di innovazione, dove convogliare idee e risorse per progettare e realizzare scuole innovative, sostenibili, più sicure e inclusive”.

Il report di Legambiente non è solo una denuncia, ma anche una chiamata all’azione. La situazione attuale richiede un piano di investimento ordinario, capace di garantire l’efficienza e la sicurezza delle scuole italiane.

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