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La salute mentale dei dottorandi è a rischio: +40% di farmaci al primo anno

“Lo studio è la migliore previdenza per la vecchiaia”, scriveva il filosofo greco Aristotele. Purché non si trasformi in un lavoro opprimente, potremmo aggiungere nel 2024.

In questi giorni un’indagine condotta in Svezia ha dimostrato che la salute mentale dei dottorandi è a rischio. L’indagine, pubblicata su Nature, si inserisce nel dibattito sul mondo accademico, finito recentemente nel mirino per l’aumento dei casi di depressione e ansia.

Prima di approfondire è necessario chiarire il punto: dalle indagini è emerso che il dottorato peggiora la salute mentale dei dottorandi non per lo studio in sé, ma per le sue dinamiche lavorative e para lovorative. Studi precedenti, insieme a numerose testimonianze, avevano già dimostrato come gli studenti di dottorato possano subire una pressione enorme per pubblicare, ottenere finanziamenti e trovare lavoro in un contesto altamente competitivo.

Salute mentale dei dottorandi, lo studio svedese

L’analisi ha esaminato il tasso con cui gli studenti di dottorato in Svezia hanno ricevuto prescrizioni di farmaci psichiatrici e sono stati ricoverati per problemi di salute mentale. I dati hanno rivelato che, in media, più a lungo durano gli studi di dottorato, maggiore è la necessità di ricorrere a tali servizi. Al quinto anno di studi, la probabilità che i dottorandi necessitino di farmaci per la salute mentale aumenta del 40% rispetto all’anno precedente l’inizio del dottorato.

Secondo Wendy Ingram, fondatrice di Dragonfly Mental Health, un’organizzazione no-profit globale con sede a Bradenton, Florida, che si occupa di salute mentale nel mondo accademico, i problemi di salute mentale tra i dottorandi sono “sistemici e affliggono il mondo accademico da decenni”. Ingram sottolinea inoltre che “pochissimi studi hanno esaminato misure oggettive della salute mentale”, il che rende lo studio condotto in Svezia un contributo prezioso per affrontare un problema spesso sottovalutato.

Lo studio ha utilizzato dati amministrativi svedesi raccolti tra il 2006 e il 2017, tracciando oltre 20.000 studenti di dottorato prima e dopo l’inizio dei loro programmi. Questo ha permesso ai ricercatori di valutare l’effetto diretto degli studi di dottorato sulla salute mentale degli studenti, come spiegato da Eva Ranehill, economista comportamentale dell’Università di Göteborg e coautrice dello studio.

L’aumento dell’uso di farmaci psichiatrici

Una delle scoperte più significative riguarda l’aumento dell’uso di farmaci psichiatrici, come antidepressivi e sedativi, tra i dottorandi. Prima di iniziare il dottorato, gli studenti e le persone con un diploma di laurea magistrale usavano questi servizi con la stessa frequenza. Tuttavia, durante gli anni di studio, l’uso di tali farmaci tra i dottorandi è aumentato di anno in anno, raggiungendo il picco tra il quarto e il quinto anno, per poi diminuire nel sesto e settimo anno.

Le donne e le persone che avevano già fatto uso di farmaci psichiatrici prima di iniziare il dottorato risultavano essere le categorie più a rischio di ricevere nuove prescrizioni durante il percorso di studi. Analogamente è emerso che, sebbene all’inizio del dottorato i candidati facessero meno uso di servizi di salute mentale (psicoterapia e affini) rispetto alla popolazione generale, entro la fine degli studi i tassi erano sostanzialmente equivalenti.

L’ambiente accademico è più stressante di altri?

Si è detto che sono le dinamiche lavorative e para lavorative a incidere sulla salute mentale dei dottorandi. Per questo, gli autori dello studio si sono chiesti se anche altri ambiti professionali producono effetti analoghi.

Alcuni sondaggi suggeriscono che i livelli di ansia e depressione tra i dottorandi siano più alti rispetto alla popolazione generale, ma secondo Ranehill è ancora presto per stabilire se queste condizioni siano più comuni nei dottorandi rispetto a coloro che lavorano in settori con richieste simili. “In futuro, inizieremo ad affrontare i diversi esiti di salute mentale tra i vari settori lavorativi, analizzando ulteriormente il set di dati svedese”, ha spiegato.

Il carico di stress legato al dottorato varia significativamente a seconda del campo accademico. I dottorandi nelle scienze naturali hanno visto un aumento del 100% nell’uso di farmaci entro il quinto anno rispetto ai livelli pre-dottorato, mentre quelli nelle scienze umane e sociali hanno registrato aumenti rispettivamente del 40% e del 50%. Gli studenti di medicina, al contrario, non hanno mostrato un incremento significativo nell’uso di farmaci psichiatrici.

Le differenze tra le discipline potrebbero essere spiegate dalle diverse norme accademiche. “In alcuni settori, si è molto dipendenti dal proprio supervisore. In altri, si è più isolati”, ha dichiarato Ranehill. Alcuni mentori offrono un grande supporto, ma altri, purtroppo, contribuiscono a creare ambienti di lavoro tossici. Rituja Bisen, dottoranda al quinto anno in neurobiologia presso l’Università di Würzburg, in Germania, ha affermato che la pressione per ottenere finanziamenti e pubblicare articoli scientifici può essere schiacciante: “Devi generare dati il più rapidamente possibile, e la sensazione di competizione per i fondi e i posti di lavoro può essere molto forte, anche all’inizio del tuo dottorato”.

Con i dovuti distinguo, il meccanismo ricorda l’eziologia degli hikikomori, fenomeno nato in Giappone anche a causa di un contesto ultra competitivo che mette i cittadini sottopressione sin da piccoli.

Il supporto degli altri come chiave per affrontare lo stress

Bisen ha condiviso la sua esperienza personale, raccontando come sia riuscita a gestire lo stress grazie al sostegno ricevuto dal suo supervisore e dal dipartimento. Tuttavia, come si legge su Nature, non tutti i suoi colleghi hanno avuto la stessa fortuna: “Non importa quanto sia buono un laboratorio; se proviene da una cultura lavorativa tossica, non ne vale la pena a lungo termine”. Per affrontare lo stress, Bisen ha trovato un’importante valvola di sfogo in attività esterne, come il bouldering, che pratica insieme ad altri biologi: “Parliamo dello stress e ci sfoghiamo. È come un gruppo di supporto”.

Il tenore delle sue parole dimostra come il problema sia tanto sottaciuto quanto grave.

Organizzazioni come Dragonfly Mental Health stanno lavorando per migliorare la salute mentale nel mondo accademico. Fondata nel 2019, Dragonfly ha sviluppato programmi in 22 Paesi, rivolti a più di 50.000 accademici a diversi stadi della carriera. I programmi includono formazione basata su approcci scientificamente validati per migliorare la salute mentale, e i primi risultati saranno pubblicati nel 2026. L’auspicio è che siano diversi da quelli della ricerca condotta in Svezia.

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Melania Trump sostiene l’aborto e rompe con i repubblicani

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Melania Trump rompe definitivamente con i repubblicani per le divergenze sull’aborto. Già da diverso tempo l’ex first lady appare distante dal marito sia sotto il profilo personale, che politico.
Melanija Knavs, questo il suo nome all’anagrafe, non ha partecipato né ai comizi del marito né alle sue apparizioni in tribunale. Una scelta insolita per la moglie di un candidato alla presidenza Usa.

Le parole scritte sull’aborto nel suo libro di memorie sanciscono la rottura definitiva con i repubblicani, testimoniando quanto i diritti civili siano (ancora) centrali nella politica.

Melania Trump sull’aborto

Come accaduto nel dibattito con Kamala Harris, Trump rischia di perdere colpi sul diritto di aborto. In questo caso si tratta di uno sgambetto, più che una scivolata, ma la sostanza non cambia: “È fondamentale garantire che le donne abbiano autonomia nel decidere se avere figli, in base alle proprie convinzioni, libere da qualsiasi intervento o pressione da parte del governo”, scrive Melania Trump.

“Perché qualcuno diverso dalla donna stessa dovrebbe avere il potere di determinare cosa fare con il proprio corpo? Il diritto fondamentale di una donna alla libertà individuale, alla propria vita, le garantisce l’autorità di interrompere la gravidanza se lo desidera”. Sembrano le parole di Kamala Harris, ma le ha scritte la moglie di Donald Trump.

Si legge ancora: “Limitare il diritto di una donna a scegliere se interrompere una gravidanza indesiderata equivale a negarle il controllo sul proprio corpo. Ho portato questa convinzione con me per tutta la mia vita adulta”.

Il suo libro uscirà la prossima settimana, ma il Guardian ha già rilasciato qualche anticipazione. E dal tenore delle sue memorie sembra quasi che abbia covato a lungo voglia di allontanarsi da The Donald e dai repubblicani. Già a dicembre 2023, quando il loro matrimonio sembrava giunto al capolinea, l’ex first lady ha parlato di “occasionali disaccordi politici tra me e mio marito” tra cui l’approccio all’immigrazione e, appunto, la tutela dell’aborto.

L’ex first lady non si è mai esposta politicamente. Il fatto che lo faccia, a un mese dalle elezioni, su uno dei temi più importanti della campagna elettorale non può essere casuale.

Secondo alcuni commentatori, Melania Trump avrebbe scelto di esprimere ora la sua posizione pro-aborto per mitigare quella antiabortista del marito, ma la teoria non convince. Se così fosse, le sue frasi in aperto contrasto con quelle del tycoon e ancora di più del vice J.D. Vance sarebbero un gol nella porta sbagliata.

Cosa ha detto Trump sull’aborto

Il diritto all’aborto è stato uno dei temi più caldi del dibattito televisivo Harris-Trump. Nonché il primo tema su cui il candidato repubblicano è scivolato gravosamente, facendosi richiamare dalla moderatrice. Da sempre, l’aborto rappresenta uno dei terreni di scontro più accesi non solo tra i “rossi” e i “blu” degli Usa, ma tra i conservatori e i progressisti di tutto il mondo.

Donald Trump ha accusato i democratici di voler permettere l’aborto “fino al nono mese” di vita del bambino, ‘costringendo’ la smentita della giornalista di Abc News, Lindsay Davis.

Nel dibattito con Kamala Harris, Donald Trump ha rivendicato come un successo la scelta della Corte Suprema di restituire ai singoli Stati la facoltà di decidere autonomamente le proprie leggi sull’aborto, piuttosto che seguire una normativa federale unificata, capovolgendo la storica sentenza Roe v. Wade. Un punto che ha allargato le divergenze tra Donald e Melania Trump.

Per la vicepresidente Kamala Harris, la dinamica è stata più controversa: “Donald Trump ha scelto personalmente tre membri della Corte Suprema degli Stati Uniti con l’intenzione che avrebbero annullato le protezioni di Roe v. Wade. E hanno fatto esattamente quello che lui intendeva”.

Per la candidata repubblicana le conseguenze per le donne sono state devastanti: “Ora, in più di 20 Stati, ci sono divieti sull’aborto voluti da Trump, che rendono criminale per un medico o un’infermiera fornire assistenza sanitaria. In uno Stato, si prevede l’ergastolo per i medici […]”.

Harris ha smentito il tycoon anche sui divieti previsti dal suo mandato che “non prevedono eccezioni, nemmeno per stupro o incesto, il che significa che una sopravvissuta a un crimine, una violazione del suo corpo, non ha il diritto di decidere cosa succederà dopo al suo corpo. Questo è immorale. E non è necessario abbandonare la propria fede o le proprie convinzioni profonde per concordare che il governo”.

Poi, la candidata repubblicana ha chiuso sul tema: “Certamente il governo non dovrebbe dire a una donna cosa fare con il proprio corpo”. Sembrano le memorie di Melania Trump, ma sono le accuse di Kamala Harris.

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Fate figli e che siano femmine: lo strano appello del...

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“Fate figli e che siano femmine”: questo è l’appello apparso sulla pagina ufficiale di Facebook del Comune di Sanza (Salerno).

Un invito che ha fatto sorridere e alcuni ed arrabbiare altri. Alla base la demografia di Sanza che, nel 2022, su una popolazione di 2.396 abitanti contava 1.227 maschi e 1.169 femmine. Niente di particolarmente allarmante in termini assoluti, ma a preoccupare è lo squilibrio nelle fasce d’età più giovani. Come abbiamo visto nel calo demografico della Sardegna, le dinamiche demografiche che riguardano i più giovani sono quelle che hanno un maggiore impatto sulla demografia di un territorio.

Il post Facebook del Comune di Sanza

La demografia di Sanza

Nella fascia di età tra 0 e 2 anni i maschi sono 29, mentre le femmine sono solo 14, meno della metà. Va meglio nella fascia 3-5 anni con 22 maschi e 20 femmine. Il trend continua anche nelle fasce di età successive: dai 12 ai 17 anni ci sono 57 maschi e 47 femmine, dai 18 ai 24 anni ci sono 110 maschi a fronte di 97 femmine. Anche nel cuore dei Millenial le cose non cambiano: nella fascia 25-34 anni i maschi sono 158 e le femmine 134, 150 e 122 tra i 35 e i 44 anni.

È solo tra la popolazione più anziana, nella fascia oltre i 75 anni, che si assiste a un’inversione di tendenza: ci sono 173 femmine contro 128 maschi. Questo fenomeno si riflette anche sul numero di vedovi e vedove, dove il gap è impressionante: 38 vedovi contro 160 vedove.

In pratica, nonostante la differenza non sia abissale considerando l’intera popolazione di Sanza, tutte le fasce di età in cui si fanno figli sono squilibrate a favore degli uomini.

L’appello del comune di Sanza

Di fronte a questi dati, l’amministrazione comunale ha invitato i giovani a fare figli “con urgenza”. La congiuntura economica e i salari troppo bassi spesso fanno sì che la scelta di diventare genitori ricada solo in parte sui genitori che non possono ignorare le difficoltà di avere un figlio. In Italia, accanto alle difficoltà economiche, ci sono quelle gestionali legate alla scarsa presenza di servizi per l’infanzia e ai loro costi eccessivi, mentre entrambi i genitori devono lavorare per poter garantire un futuro dignitoso al nucleo familiare.

La demografia della Campania

L’ultimo censimento Istat, datato 1° gennaio 2023, dimostra come l’evoluzione demografica della Campania. Con i suoi 5.624.260 abitanti, la regione si distingue nel panorama italiano per una struttura demografica relativamente giovane. Il 13,2% della popolazione ha meno di 14 anni, una percentuale che supera dello 0,5% quella nazionale. Questo dato, tuttavia, nasconde una tendenza al ribasso: nel 2013, i giovani sotto i 14 anni rappresentavano il 15,4% della popolazione campana.

La fascia d’età 15-64 anni costituisce il 65,5% della popolazione ed è anch’essa in calo rispetto al decennio precedente, quando questa fascia rappresentava il 67,5% del totale.

Gli over 65 rappresentano il 21,3% degli abitanti, in netto aumento rispetto al 17,1% del 2013. Questo trend, sebbene meno pronunciato rispetto alla media italiana del 24,3%, pone sfide importanti in termini di servizi sanitari, assistenziali e produttivi.

Come ricorda lo stesso Comune di Sanza nel suo post: “C’è da preoccuparsi? Sì. Basti pensare che a livello nazionale, il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà da circa tre a due del 2021 a circa uno a uno nel 2050. Sul territorio – ricorda l’amministrazione locale – entro 10 anni in quattro Comuni su cinque è atteso un calo di popolazione, in nove su 10 nel caso di Comuni di zone rurali”.

Mitologie a parte, una cosa su cui l’essere umano non può incidere in nessun modo è il sesso del nascituro. L’appello del Comune di Sanza (“fate figli e che siano femmine”) è uno di quei tipici casi da meme “Fa ridere, ma fa anche riflettere”, dal momento che nasce da una concreta preoccupazione dell’amministrazione comunale.

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Pellicer (Ivi): “Sono cambiate le priorità per le coppie,...

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“Sono cambiate le priorità. In generale si è creato un contesto meno favorevole alla natalità. In Italia, come in Spagna, le coppie tendono a posticipare la genitorialità a causa di molteplici fattori socioeconomici. La donna ha fatto passi avanti in termini di empowerment, assumendosi responsabilità in ambito professionale che prima erano prerogativa maschile. La maternità non è più vista come una tappa obbligatoria, ma come una scelta consapevole. Ma questo, per la mancanza di un sostegno concreto da parte delle istituzioni, rende più difficile, per chi desidera avere figli, farlo in un’età biologicamente ottimale”. Così Antonio Pellicer, presidente e fondatore del Gruppo IVI e uno dei massimi esperti in Pma d’Europa, analizza con l’Adnkronos i fattori che incidono sull’attuale trend demografico.

Sono i numeri della procreazione medicalmente assistita a mostrare quanto sia cambiato il contesto. Dal 2010 a oggi, l’età media al parto delle donne italiane è salita da 31 a oltre 33 anni. In vent’anni è quasi raddoppiata la richiesta di trattamenti per la procreazione medicalmente assistita (pma) che ha fatto nascere più di 200mila bambini nel nostro Paese. Ma il Registro nazionale della pma mostra anche un dato preoccupante. L’età media delle donne che si sottopongono a cicli di pma è aumentata considerevolmente, passando dai 34 anni nel 2005 ai 37 anni nel 2022. Questo cambiamento si riflette anche nella crescente percentuale di donne sopra i 40 anni che accedono a tali trattamenti, che è passato, in due decenni, dal 20,7% al 34% nel 2022. Questo spostamento verso un’età più avanzata non è solo un dato statistico, ma lo specchio di un mutamento sociale più ampio.

“È avvenuto un cambiamento significativo nel modo in cui le nuove generazioni percepiscono la genitorialità – sottolinea il professor Pellicer – in passato, avere figli era spesso visto come un obbligo sociale, una tappa inevitabile della vita adulta. Oggi, invece, le giovani generazioni non sentono più questo peso e non desiderano essere forzate a fare questa scelta. La genitorialità è diventata una decisione consapevole e ponderata, che si colloca in un contesto di valori e condizioni di vita molto diverse rispetto al passato. Per favorire la genitorialità – suggerisce Pellicer – la società dovrebbe creare un contesto favorevole in cui la scelta di avere figli possa essere libera e supportata da politiche che garantiscano benessere e sicurezza per le famiglie. Le coppie che desiderano avere dei figli, nonostante tutto, sono tante, ma questa scelta è strettamente legata alla volontà di poter garantire ai propri figli un ambiente in cui possano crescere in condizioni di benessere. In questo contesto, il percorso di carriera e la realizzazione personale giocano un ruolo fondamentale.

“Infatti, al crescere dell’importanza della carriera e del valore della realizzazione personale non è corrisposto un adeguato sviluppo del welfare, di strumenti di supporto e di aiuto. Al termine degli studi universitari – spiega – le donne sono nel picco della fertilità, ma entrambi i partner sono all’inizio del percorso per raggiungere l’indipendenza e la stabilità economica, comprare casa è più difficile, e così passano gli anni. Il risultato è che le coppie spesso scelgono di avere figli in un momento che per loro sembra ideale, ma che biologicamente potrebbe risultare tardivo”. Nella nostra società il desiderio di un figlio si affaccia a più di trent’anni, ma “c’è un orologio biologico che nessuno può fermare – sottolinea Pellicer – In questo contesto, la medicina della riproduzione, pur non essendo sempre la soluzione, potrebbe aiutare a invertire la rotta. Le coppie, però, dovrebbero essere aiutate maggiormente nel loro percorso di cura dell’infertilità con migliore informazione”.

È importante, ad esempio sapere che “dopo i 36-37 anni, la qualità degli ovuli tende a peggiorare, rendendo più difficile il concepimento. La pma offre una soluzione quando l’età, o altri fattori biologici, riducono le possibilità di concepire naturalmente, ma la chiave è la consapevolezza. Congelare gli ovuli sani quando si hanno trent’anni permette di preservare la fertilità per il futuro. Mentre infatti la qualità degli ovuli diminuisce con l’età, la capacità dell’utero di portare avanti una gravidanza si mantiene fino ai 45-48 anni. Con la pma, inoltre, è possibile selezionare gli ovuli migliori e gli embrioni sani, per aumentare le possibilità di successo, e ridurre i tempi per ottenere una gravidanza. Fino ai 38 anni, con le tecniche di fecondazione si ottengono il 50% di embrioni sani, a 42 anni, solo il 30% si può impiantare, il 70% infatti non sono sani, ma a 44 anni la percentuale di embrioni utili si riduce al 10%. Questo è l’orologio biologico”.

Nel caso in cui la qualità degli ovuli di una aspirante madre non fossero di buona qualità o fossero falliti ti i tentativi precedenti, è possibile ricorrere alla pma eterologa che prevede l’impiego di ovuli donati da una donna esterna alla coppia. “In questo caso – evidenzia Pellicer – la percentuale di successo diventa superiore al 90% se si utilizzano almeno 3 embrioni, offrendo a molte coppie la possibilità di realizzare il sogno di avere un figlio”. Un’altra cosa che può fare la pma è accorciare i tempi per il concepimento. “Ogni mese, la probabilità di una coppia, all’apice della fertilità, quindi tra i 23 e 25 anni, di avere un figlio naturalmente, è intorno al 22%, ma intensificandosi rapporti, aumenta la probabilità di avere una gravidanza. Nel caso della Pma, la gravidanza inizia proprio nel momento in cui l’embrione è posto in utero con una probabilità del 65%. Per arrivare al 90% sono necessari 3 embrioni: se infatti il primo tentativo non va a buon fine, si può provare il mese successivo e, nell’altro. Arriviamo addirittura al 98% con 5 embrioni”.

Attenzione, però. “Dobbiamo essere onesti – avverte Pellicer – Nonostante i progressi della medicina riproduttiva, è sempre meglio cercare di avere figli prima dei 37 anni, quando la fertilità è ancora alta. La Pma non può sostituire l’importanza di incentivare la ricerca di un figlio in età più giovane. Anche nei Paesi più avanzati nel campo della Pma, come Danimarca e Spagna – precisa il professore – solo il 10-11% dei bambini nasce grazie a queste tecniche. In Italia siamo introno al 4%. In ogni caso, il 90% e oltre dei nuovi nati arrivano da gravidanze naturali. Questo significa che il supporto alla natalità deve essere integrato da politiche sociali e culturali solide – non bonus una tantum ma servizi e sgravi fiscali – che incoraggino le coppie a diventare genitori quando hanno un’età biologicamente più favorevole”.

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