Ha recuperato colori e lucentezza il polittico di Santa Chiara di Paolo Veneziano, capolavoro assoluto della pittura lagunare e italiana del Trecento: dopo un lungo e complesso restauro durato oltre quattro anni, finanziato da Save Venice con il sostegno del mecenate Randolph H. Guthrie, le Gallerie dell'Accademia di Venezia lo espongono da oggi in una sala dedicata della loggia palladiana del museo.
Si tratta di un'opera di straordinaria qualità, un esempio eccezionalmente integro di ancona veneziana trecentesca a più registri, con scene narrative disposte attorno a un episodio centrale – l'Incoronazione della Vergine – e una fastosa cornice lignea intagliata e dorata, che inquadra venticinque parti dipinte in uno splendido connubio tra oro e colore. Realizzata per lo scomparso monastero femminile di Santa Chiara, a Venezia, fu per secoli gelosamente conservata tra le mura claustrali fino all’avvento delle soppressioni napoleoniche, giungendo alle Gallerie dell'Accademia solo nel 1812 – ad esclusione della tavola centrale, inviata alla Pinacoteca di Brera a Milano e sostituita da un dipinto di Stefano di Sant’Agnese fino al 1950, anno in cui l’opera fu ricomposta con le sue parti originali.
L'intervento conservativo – direzione lavori di Valeria Poletto, con la direzione tecnica di Maria Chiara Maida e Francesca Bartolomeoli – ha restituito la raffinatissima gamma cromatica del polittico, il calore delle superfici dorate e la piena leggibilità del programma iconografico, rivelando aspetti tecnico-esecutivi preziosi e inediti. Tra questi, in particolare, gli schizzi, le prove di colore e i disegni preparatori che Paolo Veneziano aveva realizzato nelle parti non visibili del polittico. La pulitura della cornice, per la quale è stata adoperata la tecnologia innovativa e altamente selettiva del laser, ha consentito di rimuovere le stratificazioni più recenti, recuperando la doratura ottocentesca, in ottimo stato di conservazione. Inoltre, per rispondere alle attuali necessità conservative, è stata appositamente progettata una nuova struttura di supporto e sostegno.
La morfologia del manufatto è stata, inoltre, mappata tramite scansione fotogrammetrica e l’acquisizione di immagini ad altissima risoluzione e dettaglio, con il microscopio digitale 3D Hirox, in comodato alle Gallerie dell’Accademia grazie al comitato Venice International Foundation, ha consentito di osservare particolari dell’opera ad ingrandimenti inediti.
"L'eccezionale campagna di restauro del polittico – commenta il direttore delle Gallerie dell'Accademia, Giulio Manieri Elia – corona un lungo lavoro di acquisizione, studi preliminari, pulitura e reintegrazioni pittoriche. La valorizzazione del patrimonio artistico è frutto dell’intensa e costante attività di ricerca del museo, che oggi raccontiamo anche al grande pubblico, presentando un’installazione multimediale che descrive il restauro nei suoi diversi passaggi. Stiamo già lavorando alla preparazione di un importante convegno di studi, al fine di condividere i risultati di questa operazione con la comunità scientifica".
Lo straordinario lavoro di studio e ricerca svolto con le più avanzate tecnologie, viene raccontato ai visitatori grazie a un’importante e particolareggiata presentazione multimediale, consultabile attraverso un touch screen, realizzata da Culturanuova srl di Arezzo. Tramite foto, dettagli, testi, focus storico-artistici, video, sarà possibile “navigare” dentro il polittico, approfondire le sue vicende storiche, indagare le fasi del restauro e le diverse tecniche diagnostiche, mettere a confronto il risultato finale con le condizioni conservative iniziali, scoprire le aree dell’opera normalmente non visibili, e persino conoscere l’aspetto originale che l’opera doveva probabilmente avere prima degli interventi ottocenteschi.
La sontuosità del manufatto, per il quale sono stati utilizzati materiali preziosi quali l’oro e il blu di lapislazzuli, fa comprendere l’importanza della committenza che si rivolse al più importante pittore veneziano del Trecento, le cui opere sono oggi conservate nei più prestigiosi musei del mondo, dalla Frick Collection a New York, alle Gallerie degli Uffizi di Firenze, al Museo del Louvre di Parigi.
Il dotto programma iconografico è esplicitamente rivolto alla sensibilità di una comunità femminile. Nella tavola centrale è raffigurato il soggetto dell’Incoronazione della Vergine, un tema di origine occidentale che ebbe grande fortuna in laguna nel corso di tutto il secolo XIV. L’evento celeste è descritto all’interno di un’elaborata macchina scenica di grande ostentazione esornativa: un ampio trono, circondato da un cielo stellato, accoglie Cristo e Maria ammantati in drappi serici, mentre un coro d’angeli musicanti domina la scena. Negli scomparti laterali si dispiegano otto scene con episodi della vita di Cristo, in particolare: Natività e Adorazione dei Magi; Battesimo di Cristo; Ultima cena; Orazione nell’orto e Cattura; Andata al monte Calvario; Crocifissione; Resurrezione e Noli me tangere; Ascensione. Nel registro superiore vengono narrate le storie di san Francesco e santa Chiara. Nella parte alta, completano la ricca narrazione le figure di re Davide e del profeta Isaia, i quattro evangelisti, oltre alla Pentecoste e al Giudizio Universale. Quattro piccole immagini angeliche, infine, e precisamente Dominazioni con il globo e lo scettro, simbolo di autorità, sono visibili dell’intradosso dello scomparto principale.
L'opera, che è parte della collezione permanente delle Gallerie dell’Accademia, viene esposta accanto a una piccola e preziosa croce astile polilobata e dipinta su entrambi i lati, dall’altissima qualità pittorica, proveniente da una collezione privata e concessa in comodato d’uso al museo. Un esempio raro di pittura veneziana di primo Trecento, attribuita al Maestro dell’Incoronazione della Vergine di Washington del 1324, una figura ancora per molti aspetti poco nota, ma che potrebbe essere identificato con il fratello di Paolo Veneziano, Marco, o con il padre Martino, entrambi documentati come pittori.
Cultura
A Ravenna a Palazzo Guiccioli apre Museo Byron
Oltre 2mila metri quadrati di una storica residenza dove abitò con l'amante, contessa Teresa Guiccioli. Grazie a un'importante opera di restauro, per iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, tornano a rivivere le stanze dove Byron amò e scrisse ( 'Don Juan', l’ultimo canto del 'Childe Harold’s Pilgrimage', 'Marino Faliero', 'Sardanapalus', 'The Two Foscari', 'The Prophecy of Dante'), mentre l’experience interattiva e intermediale trasporta i visitatori nell’Ottocento ravennate
Riparte da Ravenna la storia del poeta-simbolo del Romanticismo con l’inaugurazione, il prossimo 29 novembre, del Museo Byron e del Risorgimento nella sede di Palazzo Guiccioli. L'imponente dimora storica è stata trasformata in un complesso museale in cui, su due piani e attraverso 2mila e 220 metri quadri e ventiquattro sale, si riannodano i fili del lungo soggiorno di Byron in città, l'amore che lo legò alla contessa Teresa Guiccioli, che guidò l’esule inglese a Ravenna, e la passione civile germogliata all’incontro con la Carboneria. Primo passo sulla strada che avrebbe portato il grande poeta a votarsi alla causa della libertà dei popoli e unirsi agli indipendentisti greci.
Grazie a un'importante opera di restauro, per iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, tornano a rivivere le stanze dove Byron amò e scrisse (qui compose, fra gli altri, il 'Don Juan', l’ultimo canto del 'Childe Harold’s Pilgrimage', 'Marino Faliero', 'Sardanapalus', 'The Two Foscari', 'The Prophecy of Dante'), mentre l’experience interattiva e intermediale firmata da Studio Azzurro trasporta i visitatori nell’Ottocento ravennate, specchio di slanci poetici e patriottici che percorsero tutta l’Europa. Accanto ai memorabilia sentimentali di Teresa, edizioni pregiate e cimeli risorgimentali, inclusi quelli provenienti dalla Fondazione Spadolini Nuova Antologia e dalla Fondazione Bettino Craxi, Palazzo Guiccioli ospita anche il Museo delle Bambole - Collezione Graziella Gardini Pasini. Il Palazzo è inoltre diventato sede italiana della Byron Society.
"Romana, bizantina, ostrogota, dantesca… dei molti volti di Ravenna, forse la Ravenna ottocentesca è quella che fino a oggi ha trovato meno spazio nella biografia della Città – spiega Ernesto Giuseppe Alfieri della Italian Byron Society e della Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, che ha curato l'iniziativa della 'svolta' museale di Palazzo Guiccioli - Con l’inaugurazione del complesso museale offriamo ai visitatori la possibilità di ‘camminare’ attraverso quel secolo, sulle tracce di Lord Byron, di Teresa Gamba Guiccioli e degli uomini e delle donne che sognarono e fecero l’Italia unita".
"L’amore per Teresa portò Byron a trasformarsi e, senza diventare un santo, cambiò vita. Andava a cavalcare nella foresta pinetale a Ravenna e qui incontrava i Carbonari che lo salutavano in dialetto ma dicevano di essere ‘americani’ – spiega il presidente della Cassa di Ravenna Antonio Patuelli – Non lo erano ovviamente, ma lui, incuriosito da questa stranezza, approfondì la conoscenza fino ad aiutare quel movimento che fu la prima semina del Risorgimento dopo il Congresso di Vienna, per quel raccolto che si sarebbe realizzato poi con Mazzini, Garibaldi e Cavour. In Palazzo Guiccioli - aggiunge- si coniugano un’esigenza e un sogno. L’esigenza era quella del Comune, che aveva ereditato il Palazzo, di destinarlo a un uso adeguato, il sogno era quello nostro di vederlo dedicato al suo più illustre abitante".
"Una nuova pagina della storia di Ravenna racchiusa in un gioiello architettonico nel cuore della città - sottolinea Michele de Pascale, sindaco di Ravenna – che offrirà a cittadini e turisti un’occasione imperdibile per conoscere e scoprire l’unico museo al mondo dedicato alla figura di Lord Byron, il museo del Risorgimento e il museo delle Bambole-Collezione Graziella Gardini Pasini".
Dimora nobiliare fra le più imponenti ed eleganti della città, nel cuore della città, Palazzo Guiccioli fu eretto a fine Seicento per l’ascesa al patriziato della famiglia Osio, all’alba dell’Ottocento fu acquisito da Alessandro Guiccioli. Byron vi soggiornò fra il 1819 e il 1821 (aveva seguito a Ravenna l’amata Teresa Gamba, moglie del Conte Alessandro, di quarant’anni più anziano), durante la sua permanenza giunse in visita Percy Shelley. Più tardi vi soggiornò anche Oscar Wilde.
Cultura
Morta Adele Corradi, ‘la professoressa diversa’...
Aveva 99 anni. Aiutò il sacerdote negli anni difficili e avvincenti della Scuola di Barbiana
Adele Corradi, la professoressa che dal 1963 aiutò don Lorenzo Milani a fare scuola nel piccolo borgo di Barbiana, nel comune di Vicchio del Mugello (Firenze) fino 1967, anno della scomparsa del sacerdote, è morta questa mattina all'età di 99 anni a Firenze, dove era nata il 9 dicembre 1924. Corradi seguì anche l'intero lavoro di redazione collettiva del volume "Lettera a una professoressa", firmato come Scuola di Barbiana. Sulla sua esperienza e conoscenza di don Milani, negli anni più difficili e avvincenti della Scuola, Corradi, che per tutta la vita lavorativa è stata insegnante di scuola media fino all'età di 67 anni, ha pubblicato il libro "Non so se don Lorenzo" (Feltrinelli, 2012). Era "la professoressa diversa da tutte le altre", a cui don Milani dedicò una copia della più celebre delle sue lettere.
L'annuncio della scomparsa è stato dato dalla Fondazione don Lorenzo Milani con un comunicato sul proprio sito internet: "Ci stringiamo intorno al dolore della grande famiglia del priore di Barbiana e di quanti hanno voluto bene ad Adele, consigliera ed anche per noi maestra". "Adele Corradi ha voluto bene al suo priore ed ha passato tutta la sua esistenza a difenderlo dalle periodiche accuse, a fare conoscere il suo insegnamento e la sua scuola", aggiunge la Fondazione.
Nel suo libro "Non so se don Lorenzo" si legge a tal proposito: "A me pare orribilmente offensivo anche soltanto tentare di difenderlo. Don Milani si difende da solo. Con tutto quello che ha fatto. E con tutto quello che ha scritto. Ma bisogna leggerlo tutt’intero, non limitarsi a estrapolare una frasetta interpretandola a vanvera. Leggendo il suo testamento, si comprende che per don Lorenzo l’amore di Dio si potesse vedere solo attraverso l’amore per le sue creature. A Barbiana si viveva nell’attenzione: don Lorenzo i suoi ragazzi non li perdeva mai di vista. E, nonostante la fortissima personalità del maestro, non si creava mai dipendenza psicologica".
Adele Corradi ha raccontato: "Mi diedero una supplenza, la prima supplenza della scuola statale, per l'appunto a Borgo San Lorenzo. La preside mi parlò di questa scuola di Barbiana, dove i ragazzi facevano cose straordinarie: studiavano, facevano orario continuato". Così ebbe il desiderio di visitare quella scuola e quando arrivò per la prima volta a Barbiana, don Milani, come sempre il pomeriggio, iniziò la lezione con la lettura del giornale. "Volevo conoscere questa scuola perché ero lì a combattere con ragazzi che non avevano voglia di far nulla e mi chiedevo: come fa questo tizio a ottenere questi risultati, ha qualche ricetta? Un mese dopo ci tornai. Arrivai che stavano facendo lezione e mi misi seduta ad ascoltare. Mezz'ora dopo, i ragazzi facevano dieci minuti di pausa. Don Milani mi disse: 'Ha qualche ragione particolare, signora, per essere ritornata oggi?' 'Sì' - dissi - 'vi volevo chiedere come fate a insegnare a scrivere l'italiano' - perché in un articolo avevo letto: 'nella nostra scuola si scrive quando siamo ispirati. Non insegna nessuno'".
Così Adele chiese aiuto a don Milani e lui gli rispose che proprio quel giorno avrebbero iniziato un metodo di scrittura che sarebbe servito a qualcosa: "Stavano iniziando la lettera a Mario Lodi. Nella lettera dei ragazzi si descrive cos'è Barbiana. In quella di don Milani si spiega com’era stata scritta". Adele cominciò a seguire la scuola di Barbiana e don Milani però volle farle capire che non era importante solo il metodo. "Una delle cose che si imparavano era la scrittura collettiva, che rispettava il pensiero degli altri. E così sono rimasta a Barbiana". Infatti, poco dopo, si trasferì in una casa vicino alla parrocchia. La mattina la passava nella scuola media di Borgo San Lorenzo e la sera insegnava a Barbiana.
Di sé stessa Corradi aveva detto: "Per tutta la mia vita lavorativa sono stata insegnante di lettere nella scuola media. Sono andata in pensione a 67 anni. Devo confessare che ero un'insegnante identica alla destinataria della 'Lettera ad una professoressa'. I rimproveri che i ragazzi di Barbiana rivolgono a quell'insegnante me li meritavo tutti. Per questo non c'è una parola della 'Lettera' che non sottoscriverei. L'incontro con la Scuola di Barbiana e con don Milani ha scavato un solco nella mia vita. Mi sono vista come non mi ero mai vista. E non solo come insegnante, ma come persona". (di Paolo Martini)
Cultura
ASP —Massimiliano Ossini: “Sul K2 ho capito il...
Il conduttore racconta la sua scalata della 'montagna selvaggia' nel suo ultimo libro
Un'esperienza al limite della sopravvivenza. Un viaggio duro, difficile, pericoloso. Una scalata che mette alla prova la capacità di resistere. Un'avventura da mozzare il fiato che, però, ha molto da insegnare e che nasconde un messaggio prezioso. Ovvero che, nella vita di tutti i giorni così come nelle prove più estreme, è necessario a volte rinunciare a compiere quel passo in più che "potrebbe essere fatale" e fermarsi. È l'insegnamento che Massimiliano Ossini, volto noto del piccolo schermo, ha tratto dalla 'prova impossibile' cui si è dedicato nello scorso mese di luglio: documentare in prima persona la spedizione di alcune alpiniste italiane e pakistane che hanno scelto di sfidare gli 8.611 metri della seconda montagna della Terra, il K2. Un'esperienza che il conduttore di 'Unomattina' su Rai 1 e ora concorrente di 'Ballando con le Stelle' descrive nel libro 'K2. Un passo dalla vetta, un passo dalla vita', pubblicato da Rai Libri e sugli scaffali da pochi giorni.
Questa esperienza, racconta Ossini all'AdnKronos, insegna il valore "di saper rinunciare e di fermarsi in qualsiasi situazione: in una scalata in montagna o nella vita di tutti i giorni. I social vorrebbero che fossimo i primi in tutto, in tutte le situazioni, a scuola o al lavoro. Ci vorrebbero tutti supereroi, stravolgendo la realtà. Ecco, durante questo viaggio, abbiamo capito sulla nostra pelle quanto sia importante la rinuncia che non è sinonimo di sconfitta ma di intelligenza". Ossini ricorda, a questo proposito: "Io sono stato benissimo, non ho avuto problemi ma ho deciso di arrivare al 75% delle mie potenzialità, tornando indietro. C'erano tante persone che mi aspettavano a casa e non volevo neanche mettere a rischio il gruppo con cui ho fatto l'impresa. Ho deciso di fermarmi ad un passo dalla vetta".
A settant’anni dalla storica prima ascensione del K2, Ossini si è confrontato con 'la Montagna Selvaggia', come viene definito il K2. "Ho accompagnato - dice - otto donne, quattro ragazze italiane e quattro pakistane. Per la prima volta al mondo due Paesi hanno celebrato i settant'anni dalla prima ascesa sul K2. Abbiamo voluto portare in cima i padroni di casa, le quattro pakistane insieme alle ragazze italiane, ricordando i primi che salirono su quella vetta: gli alpinisti Achille Compagnoni e Lino Lacedelli che compirono l'impresa nel 1954 con l'aiuto fondamentale di Walter Bonatti. È stato - prosegue Ossini - un viaggio molto fisico: è una delle esperienze più difficili al limite della sopravvivenza. Purtroppo, nel corso della spedizione, ci sono state delle persone che non ce l'hanno fatta, altre si sono dovute ritirare perché hanno avuto edemi polmonari e cerebrali".
La scalata del K2, infatti, non è stata accompagnata soltanto da disagi improponibili ma anche, e soprattutto, da tragedie che hanno scandito la lenta e faticosa ascesa verso la vetta. "Un ragazzo, un portatore, purtroppo è morto. Ha avuto un edema cerebrale. È uscito dalla tenda, ed è morto per ipotermia". Non solo: "Tra le pakistane c'era Samira che aveva già raggiunto per quattro volte gli ottomila metri. Nel corso della spedizione, arrivati al campo base è stata male. Ha avuto anche lei un edema polmonare ed è stata accompagnata d'urgenza al primo villaggio con un asino e la bombola d'ossigeno facendo 60 chilometri. Due giapponesi, che avevano una tenda accanto alla nostra, stavano provando a raggiungere la cima dalla parte occidentale. Purtroppo sono caduti ed entrambi sono morti".
D'altro canto, conclude Ossini, è stata anche una prova "psicologica: abbiamo vissuto per un mese facendo 190 chilometri. Abbiamo dormito sempre in tenda, non ci potevamo fare la doccia. L'unico momento in cui si stava insieme al caldo era quando eravamo vicino al fornello a cucinare". Un'avventura, afferma il conduttore, durante la quale "ci siamo spogliati di tutto, lasciando a casa tutti gli orpelli della vita quotidiana".(di Carlo Roma)