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Perché il Sistema Sanitario Nazionale non può più bastare: la sanità integrativa secondo ONWS

Il Sistema Sanitario Nazionale non può dare tutto a tutti, sempre: il carico diventerebbe insostenibile, come in effetti già è adesso, tanto più in una società che invecchia. Ed è proprio qui che occorre cogliere l’opportunità non pienamente sfruttata della sanità integrativa e realizzare un sistema multi -pilastro. Parte da questo assunto Ivano Russo, presidente di ONWS, Osservatorio Nazionale Welfare & Salute, che l’Adnkronos ha sentito per fare chiarezza sul tema e sul perché il cosiddetto ‘secondo pilastro’ della sanità, quello che viene subito dopo il SSN, sia così importante nel mondo di oggi.

D: Innanzitutto, chiariamo: la sanità integrativa non è quella privata. Cos’è allora?

R: “Quando parliamo di sanità integrativa parliamo della sanità che discende dal welfare aziendale e cioè dalle scelte che le parti sociali compiono – all’atto della stipula o dei rinnovi dei contratti collettivi nazionali di lavoro – di destinare una quota della retribuzione al welfare aziendale. Quindi la scelta è assunta da parti datoriali e sindacati e per ognuna delle grandi categorie coinvolte – edili, artigiani, metalmeccanici, commercio, logistici, qualunque categoria – diventa un fondo che eroga prestazioni sanitarie ispirate ai principi di mutualismo e collettività”.

Il che significa che tutti i dipendenti che fanno capo a un determinato contratto hanno le stesse prestazioni e le stesse tutele che vengono erogate in base al piano sanitario previsto da quel contratto. Si tratta di una differenza sostanziale rispetto alle assicurazioni private, dove il singolo negozia per se stesso in base a fattori come la sua età e alle patologie pregresse, elementi che incidono sul peso del premio che dovrà pagare.

Nella sanità integrativa le assicurazioni invece sono uno degli strumenti, ma non è l’unico, insomma non sono la stessa cosa: “Non c’è una sovrapposizione concettuale tra la sanità integrativa e le assicurazioni”.

Il secondo Pilastro si inserisce nella crisi del sistema sanitario nazionale. Ma quali sono i nodi di questa crisi e come la sanità integrativa può contribuire quantomeno ad alleggerirne gli effetti?

In tutti i Paesi europei evoluti ci sono sistemi sanitari nazionali multi Pilastro, cioè il sistema sanitario nazionale, quello della sanità integrativa, la sanità privata pura – perché nessuno può vietare un cittadino che magari ha disponibilità di andarsi a fare una radiografia o una visita a pagamento dove vuole-, e poi c’è il settore intermediato assicurativo delle polizze individuali.

Il tema è che tutti questi quattro pilastri, che se governati e integrati dovrebbero dare risposta complessiva al bisogno di cure di un Paese, in Italia sono tutti autonomi, non comunicanti e non governati da un indirizzo strategico nazionale e soprattutto alcuni, come nel caso del secondo Pilastro, potrebbero crescere molto di più. Quando parlo di crescita non mi riferisco a risorse: il nostro è un settore di welfare sussidiario, nel senso che le aziende e i lavoratori mettono di tasca propria i soldi, piuttosto è un tema di avere un quadro regolatorio più certo. Se ci fosse un quadro regolatorio complessivo di tutte e quattro le funzioni, sicuramente il sistema sanitario nazionale nel suo insieme potrebbe essere molto più performante; invece non essendo così noi abbiamo praticamente la quasi totalità della domanda di salute che in primissima battuta si deve rivolgere per forza al Servizio Sanitario Nazionale. In Francia e in Germania, ad esempio, la sanità integrativa copre il 75% della popolazione, da noi il 24%, e quella è tutta una domanda di cura che invece di andare a rivolgersi ai fondi sanitari si riversa sulle strutture pubbliche”, mettendo sotto pressione l’intero sistema. “È un tema enorme, purtroppo sempre poco indagato”.

“Il problema principale del Sistema Sanitario è questo di carico, di domanda di cura legata anche al fatto che siamo la popolazione più anziana d’Europa e la seconda più anziana al mondo dopo il Giappone. Tutto questo ovviamente produce un’esigenza di sanità che è crescente e che si allaccia a temi come le pluri-patologie e le cronicità, perché l’anziano o il malato cronico tornano ciclicamente a fare cure e controlli.

Ecco allora che il lavoratore medio quaranta-cinquantenne mediamente sano che debba fare ad esempio la mappa di nei o un check up di controllo non la dovrebbe mai vedere una struttura pubblica perché tutte queste cose sono offerte dai piani sanitari di fondi contrattuali.

Se tu bilanci così puoi riorganizzare e razionalizzare la spesa. Invece oggi il sistema sanitario nazionale va per fatti suoi con le risorse scarse che ha rispetto alle esigenze di cure di un Paese che invecchia. Il secondo Pilastro è completamente sregolato, non c’è neanche un dato certo su quanti siano gli assistiti e quanti siano i fondi.

Attualmente, il Fondo Sanitario Nazionale cuba 134 miliardi di euro, poi ci sono 41 miliardi di euro di spesa out-of-pocket, cioè la spesa privata dei cittadini, che è la più alta d’Europa, poi abbiamo 25 miliardi di spesa socio-assistenziale che è parente stretta della spesa sanitaria, ad esempio l’infermiera che viene a casa dal parente anziano allettato, e poi altri 25 miliardi di spesa socio-assistenziale pubblica in generale, diciamo i cosiddetti assegni di invalidità o di accompagnamento. Tutta questa roba è quasi 210-220 miliardi: è chiaro che non se ne può fare carico solo uno Stato. Più si mette sul fondo sanitario nazionale più è meglio è per principio, però non è questa la risposta”.

La differenza rispetto agli altri Paesi che ha citato a cosa è dovuta?

“Sostanzialmente il welfare contrattuale è previsto per legge, il datore di lavoro non può non iscrivere il lavoratore a un fondo sanitario, ma non c’è alcun tipo di sanzione nel caso in cui le aziende non si adeguino. Questo è un vuoto normativo che andrebbe colmato: c’è circa il 50% di aziende che non lo fa, il che produce due danni. Il primo è che lascia fuori 8-9 milioni di lavoratori e rispettive famiglie che avrebbero diritto ad avere la copertura Sanitaria Integrativa e non ce l’hanno; secondo ingenera una concorrenza sleale tra le imprese perché ovviamente chi non paga ha meno costi. Invece in Francia questo problema non c’è, come non ci sono 120 miliardi all’anno di evasione fiscale, è un concetto più generale di etica pubblica e rispetto delle norme”.

Questo problema riguarda in generale anche chi lavora a nero.

“Chi lavora in nero ha un problema a 360 gradi, non ha contributi, non paga le tasse, è un disastro, però cominciamo da chi non lavora a nero. Noi abbiamo 16 milioni di lavoratori dell’industria privata che non lavorano a nero e sono articolati più o meno in un’ottantina di grandi contratti collettivi nazionali: tutti questi hanno la sanità integrativa”.

Oltre alla differenze con gli altri Paesi, l’Italia ha anche differenze regionali.

Infatti due terzi dell’elusione contributiva che dicevo è delle imprese del Mezzogiorno.

E su questo cosa può fare la sanità integrativa?

“La norma di contrasto dell’elusione serve per tutti, purtroppo più le imprese sono piccole e destrutturate, per capirci meno sono sindacalizzate, meno hanno gli uffici HR, più dinamiche comunque complesse come queste del welfare contrattuale sono in affanno. Siccome nel Centro Sud il tessuto industriale tranne la grande industria di Stato è quasi tutto così, è chiaro che lì si addensa la maggior parte dell’elusione. Noi come osservatorio Nazionale Welfare & Salute abbiamo presentato una proposta di legge che prevede di spostare l’esigibilità del diritto dal lavoratore al fondo di categoria. Ovviamente è difficile trovare un lavoratore che denuncia il suo datore di lavoro, rischiando di perdere il posto, perché non è iscritto al fondo sanitario. Se invece questa esigibilità fosse quantomeno cointestata anche al fondo di categoria, sarebbe diverso perché il fondo può rivolgersi alle aziende che non risultano iscritte mettendole in mora. Come sempre le soluzioni sono molto più semplici di quanto non appaiano”.

Diceva che Primo e Secondo pilastro sono scollegati. Cosa manca per avere una reale integrazione?

“Manca tutto: sono due pilastri assolutamente non comunicanti tra loro: il Servizio Sanitario Nazionale non sa che prestazioni offrono i fondi sanitari, a quante persone ogni anno, in che parte d’Italia perché ovviamente non c’è nessun vincolo di comunicazione da parte della sanità integrativa, ma non c’è nemmeno un ufficio che ad oggi accoglierebbe queste informazioni. Tra l’altro avendo un sistema nazionale essenzialmente regionalizzato, si fa anche fatica ad ottenere dati nazionali. Ad esempio non esiste un nomenclatore unico: ogni regione ha il suo e ovviamente idem nel privato. Ma se vuoi creare comunicazione tra primo e secondo Pilastro l’elemento di base è avere un’interpretazione univoca della raccolta dei dati, quindi è indispensabile avere un nomenclatore unico nazionale”.

Quali altre priorità chiederebbe al governo?

“La lotta all’elusione, perché non è possibile avere 9 milioni di italiani e rispettive famiglie senza la sanità integrativa che pur spetta loro. Poi secondo me andrebbero modificati gli ambiti operativi: il secondo Pilastro per essere veramente il più possibile integrativo deve partire dalle esigenze del primo: se lo Stato dicesse alla sanità integrativa ‘Per i prossimi tre anni concentrati sugli interventi ambulatoriali, le visite specialistiche e gli extra Lea’, uno potrebbe immaginare che i vari piani sanitari si adeguino a questa esigenza, altrimenti continuiamo a ragionare inutilmente se sia integrativo, sostitutivo, complementare, se debba fare più extra Lea e non Lea, o più Lea”.

Tra l’altro lei chiedeva a giugno l’introduzione della sanità integrativa nella razionalizzazione delle liste d’attesa, poi il governo ha approvato un decreto per il loro abbattimento che non contiene nulla sulla sanità integrativa.

“Anche qui a me pare singolare: abbiamo un problema di eccessivo sovraffollamento di richieste di sanità da parte dei cittadini sul pubblico e io ti dico che potrei servire 45 milioni di Italiani e non 16 facendo per esempio il contrasto all’elusione, e altre proposte… ma se non ora quando? È proprio questo il tema: che troppi cittadini si rivolgono alle strutture pubbliche. Poi ci sono tanti altri temi: la mancanza di personale, i bassi salari, le scarse tutele. In Italia non c’è una carenza di medici, è che nel pubblico non ci vuole lavorare più nessuno”.

Questo governo, secondo lei, fa orecchie da mercante oppure lo trova più pronto a cambiare qualcosa?

“Io sono fiducioso nel senso che è un governo che non ha un pregiudizio ideologico, a differenza di alcune forze politiche che considerano qualsiasi cosa appartenga alla sfera non pubblica come quasi sataniche o da respingere: questo governo invece può avere un approccio un po’ più laico. Dopo di che paradossalmente mentre dico questo dico che l’esigenza del settore è avere più governance, più strategia, più visione nazionale. Ci vorrebbe più Stato ma in forma giusta, che organizzi i quattro pilastri; invece, non riesce a organizzare nemmeno il suo.

Nel Piano strutturale di bilancio presentato dal ministro Giorgetti ci sarebbe una riforma della sanità integrativa; quali sono i punti di questa riforma?

“Non ne ho la più pallida idea. Non ne sappiamo nulla. C’è invece un lavoro importante fatto dal presidente Zaffini in commissione sanità del Senato che ha fatto un lungo ciclo di audizioni che si sta completando proprio in questi giorni dove sono state sentite tutte le parti sociali, sindacali, associazioni. Siamo stati auditi anche noi e ha partecipato la ministra del Lavoro Marina Calderone.
Lì sono emerse tante proposte interessanti sulla riforma degli ambiti operativi, sul contrasto all’elusione, sulla vigilanza, su come coinvolgere Agenas. Speriamo che il governo ne tenga conto perché veramente è stato fatto un lavoro considerevole e sarebbe un peccato sprecarlo”.

Tra l’altro Calderone diceva anche che sarebbe necessaria una campagna di informazione su questi temi. Naturalmente immagino che sia d’accordo visto che questo è anche uno degli obiettivi dell’Osservatorio Nazionale Welfare & Salute.

“Assolutamente: dobbiamo far passare un messaggio, perché purtroppo la gente confonde la sanità integrativa con la sanità privata. Mentre invece per noi è completamente indifferente che l’erogatore delle prestazioni sia il pubblico o il privato, l’importante è che i lavoratori abbiano le prestazioni. La sanità integrativa è la sanità dei lavoratori, cioè la sanità di 16 milioni di persone che guadagnano 1400-1600 euro e che con una media di 198 euro all’anno di versamenti da parte dell’azienda, il costo dell’abbonamento di Netflix, hanno protezione sanitaria con un tetto di prestazione media di 5-6 mila euro: questa è una cosa enorme, è salario reale vero.

Secondo me la campagna innanzitutto dovrebbe rendere i lavoratori più consapevoli dei propri diritti perché tante volte la fruizione dei piani sanitari è veramente bassa: il 25-35%. Tranne nei casi di collettività di lavoro molto molto giovani è probabile che il piano non venga utilizzato non perché non ce ne sia bisogno ma perché non lo si conosce, e quindi c’è bisogno eccome di una campagna di sensibilizzazione”.

Parlando di prestazioni, c’è un controllo sulla qualità di quanto viene erogato tramite sanità integrativa, come avviene nel pubblico?

Non c’è un ente di vigilanza nazionale sulla sanità integrativa, purtroppo”. Ma “dovrebbe assolutamente esserci, ovviamente deve essere costruito bene non deve essere come dire un’attività poliziesca. Perché non bisogna avere un approccio negativo a prescindere nei confronti del settore, ma comunque andrebbero fissati anche dei requisiti minimi a livello nazionale in relazione ai piani sanitari e avere vigilanza, per esempio sul tema della cosiddetta appropriatezza delle cure”.

A questo proposito, la sanità integrativa può aiutare il problema delle liste d’attesa oppure potrebbe rischiare piuttosto di alimentarlo?

“Potrebbe in teoria alimentarlo, ma tutti i fondi sanitari prevedono che tu possa accedere alla prestazione solo su prescrizione medica; quindi, ovviamente se un medico ti prescrive un accertamento inutile il problema è il medico e non la clinica che te lo fa. Quello dell’appropriatezza della cura è un tema generale per via della medicina difensiva” la cui soluzione andrebbe approcciata “innanzitutto eliminando tutto questo aggravio di reati penali in capo ai medici”.

Quali sono i nuovi bisogni di welfare che sono emersi, principalmente, dopo il covid?

“Tutto quello che è check up e prevenzione durante il covid è stato accantonato, per cui sicuramente c’è un’esigenza molto molto forte di recuperarlo. Qualunque sistema sanitario maturo ed evoluto in tutto il mondo è fondato sulla prevenzione, che riduce la probabilità di malattie, soprattutto quelle cardiovascolari, e di conseguenza a regime diminuisce i costi per il Servizio Sanitario Nazionale. Poi le solite prestazioni, quelle che SSN ha più difficoltà a fornire, a cominciare dalla specialistica e dall’alta diagnostica.

Poi ci sono tutti gli extra Lea, cioè tutte quelle prestazioni che il SSN non prevede – fisioterapia, mental coach, psicoterapia, fino all’odontoiatria. Se non c’è la possibilità da parte dei lavoratori di poter avere una fonte alternativa, questa diventa tutta spesa privata secca che grava solo sulle tasche dei cittadini”.

Parlando di stili di vita più sani, anche questi possono rientrare in qualche modo nella sfera d’azione della sanità integrativa?

“Questo è un pezzo fondamentale, soprattutto su collettività giovani: tutti i dati ci dicono che di fronte ad una corretta alimentazione, a un corretto sonno e ad un’adeguata attività fisica tutta una serie di patologie, soprattutto quelle che poi hanno risvolti di cronicizzazione, quindi quelle più impattanti sia per la vita di un cittadino che per le casse dello Stato, hanno una riduzione molto significativa. Quindi su questo lo Stato e i fondi di sanità integrativa dovrebbero investire molto, soprattutto dove ci sono collettività giovani in modo da abbattere quelli che poi saranno i costi di cura di una persona di 60-65 anni”.

Come si svolgerebbe il ruolo della sanità integrativa nella promozione dello stile di vita sano?

“La sanità integrativa oggi eroga molte prestazioni al riguardo, ad esempio piattaforme digitali che ti accompagnano dal punto di vista della gestione dell’alimentazione o del movimento, l’educazione alimentare, le attività di monitoraggio contro l’abuso di alcol che tra l’altro è un fenomeno dilagante fin dai 12-13 anni: anche su questo si possono mixare campagne di prevenzione con vere e proprie prestazioni”.

Un’ultima domanda: la sanità integrativa quindi è il futuro della sanità?

“Sicuramente a regime io vedo un futuro dove il cosiddetto day by day sanitario, dalla mappa dei nei a un’ecografia alla radiografia perché mi sono slogato il polso giocando a calcetto, più tutto un pezzo di extra Lea, fisioterapia, eccetera, è completamente sparito dall’orizzonte dell’impatto sul pubblico. Io vedo grandi ospedali dedicati innanzitutto agli indigenti perché non dimentichiamo che c’è anche una popolazione di non lavoratori, anziani, quiescenti, disoccupati. L’articolo 32 della Costituzione dice che ‘la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti’. Non a tutti quanti, perché è immaginabile poter dare tutto a tutti sempre.

Quindi io comincerei a far concentrare il sistema sanitario nazionale sugli indigenti o su chi non ha altre opportunità e poi immagino che attraverso l’utilizzo maggiore e più strutturato della sanità integrativa si possa magari andare a recuperare un po’ di risorse che consentono agli ospedali di modernizzare i macchinari, di investire sulla ricerca. Penso alle grandi eccellenze.

Nessuno di noi si sognerebbe di farsi un’operazione a cuore aperto o un trapianto di fegato in una clinica privata, quindi ci sono anche tutta una serie di grandi interventi chirurgici e altro che non possono che essere fatti in ambito di sanità pubblica, ma il day by day sanitari quotidiano medio di una persona sana secondo me a regime in un Paese che invecchia non potrà più gravare sulle strutture pubbliche.

Non si rischia un po’ di andare verso un modello tipo Stati Uniti?

No, perché lì non esiste proprio il concetto di collettività, lì c’è ogni cittadino che si assicura. Quando un cittadino si assicura negozia in cambio di un premio il suo piano sanitario. Un’assicurazione di medio alta copertura per un cittadino medio di 45/50 anni costa intorno ai 1500-1800 euro all’anno- se ti porti dentro il nucleo familiare anche 3000 euro. E il piano sanitario tuo è solo tuo. Qui invece stiamo parlando di milioni e milioni di Italiani che hanno tutti lo stesso diritto alle cure, lo stesso piano sanitario, le stesse prestazioni, pagando non loro ma i loro datori di lavoro e non 1800 euro ma 190 euro all’anno. Il sistema americano è proprio un altro film”.

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Gravidanza e bellezza: i rischi nascosti di smalti e trucco

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allattamento al seno

Attenzione all’uso di smalti per le unghie, trucco, se siete in gravidanza. Potreste aumentare l’esposizione a sostanze chimiche tossiche, con tutte le conseguenze per la salute vostra e del vostro bambino. Una ricerca della Brown University School of Public Health, la scuola di salute pubblica della Brown University, un’università di ricerca privata nel Rhode Island (USA), ha infatti trovato una correlazione tra l’uso di prodotti per la cura della persona (PCP) e le concentrazioni di PFAS nelle donne in gravidanza o in allattamento.

In sostanza, più prodotti per l’igiene personale si usano, più si rischia di accumulare alti livelli di sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche, PFAS appunto, nel plasma sanguigno e nel latte materno.

Cosa sono i PFAS, onnipresenti e dannosi per la salute

I PFAS sono sostanze chimiche sintetiche utilizzate fin dagli anni ’50 nei prodotti di consumo e in contesti industriali, grazie alla loro capacità di resistere a olio, acqua e calore. Il lato negativo è che sono stati associati a una tutta una serie di effetti negativi sulla salute, tra cui malattie epatiche, problemi cardiometabolici e cardiovascolari e vari tipi di cancro. Inoltre, possono contribuire a esiti avversi alla nascita, come il calo del peso alla nascita, il parto pretermine, alcuni disturbi dello sviluppo neurologico e una ridotta risposta ai vaccini nei bambini. Effetti in parte dovuti al trasferimento dei PFAS attraverso la placenta e il latte materno, che facilita l’esposizione durante la gestazione e l’infanzia.

I PFAS sono persistenti nell’ambiente, onnipresenti e, sottolinea lo studio, rilevabili in quasi il 100% dei canadesi – la ricerca ha riguardato il Paese nordamericano, ma certamente il problema ci riguarda tutti. Ognuno di noi entra in contatto con i PFAS ingerendo cibo contaminato, bevendo anche semplice acqua, o attraverso gli imballaggi alimentari, le pentole, i mobili e PCP come trucco, prodotti per capelli e smalto per unghie.

Occorre sottolineare che i PFAS continuano a essere prodotti a livelli elevati a livello globale, con volumi annuali superiori a 230mila tonnellate di fluoropolimeri e 46mila tonnellate di acidi perfluoroalchilici. “Sebbene i PFAS siano onnipresenti nell’ambiente, il nostro studio indica che i prodotti per la cura della persona sono una fonte modificabile di PFAS“, ha affermato l’autrice dello studio Amber Hall, ricercatrice associata post-dottorato in epidemiologia presso la Brown University School of Public Health. Per modificabile si intende che si può ridurre l’esposizione limitando l’uso dei prodotti a rischio.

L’uso di trucco, smalti e tinture aumenta i livelli di PFAS nel corpo

L’analisi della Brown University School of Public Health, recentemente pubblicata su Environment International, ha utilizzato i dati del Maternal-Infant Research on Environmental Chemicals Study, che ha esaminato solo quattro tipi di PFAS tra i migliaia utilizzati nell’industria e nel commercio, e che dunque probabilmente sottostima l’entità del problema. La ricerca ha coinvolto 2001 donne incinte in 10 città del Canada tra il 2008 e il 2011.

L’effetto dei prodotti per la cura delle persone sui livelli di PFAS è stato analizzato nel plasma prenatale (da sei a 13 settimane di gestazione) e nel latte materno (da due a 10 settimane dopo il parto). Le partecipanti dovevano riferire la frequenza di utilizzo di otto categorie di prodotti in tre momenti: durante il primo e il terzo trimestre di gravidanza, da uno a due giorni dopo il parto e da due a dieci settimane dopo il parto.

I risultati dimostrano che nelle donne incinte al primo trimestre, un uso maggiore di prodotti per la cura delle unghie, profumi, trucco, tinture per capelli e lacche o gel per capelli era associato a concentrazioni plasmatiche di PFAS, PFOA, PFOS e PFHxS più elevate. Risultati simili sono stati osservati per l’uso di prodotti per la cura personale nel terzo trimestre e per le concentrazioni di PFAS nel latte materno da due a 10 settimane dopo il parto.

Ancora, le partecipanti che si truccavano ogni giorno nel primo e nel terzo trimestre avevano concentrazioni di PFAS nel plasma e nel latte materno rispettivamente del 14% e del 17% più elevate rispetto alle persone che non lo facevano ogni giorno.

Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che chi usava tinture colorate permanenti uno o due giorni dopo il parto aveva livelli di PFAS più elevati (16%-18%) rispetto a chi non le utilizzava mai nelle concentrazioni del latte materno. In generale, un maggiore utilizzo di PCP è stato associato a livelli più elevati di PFOS, PFOA, PFNA e PFHxS nel post-partum.

Risultati allarmanti, che possono servire, si augurano i ricercatori, per stabilire una regolamentazione dei PFAS e, più nel piccolo, a guidare le scelte individuali in modo da ridurre l’esposizione a queste sostanze tossiche laddove possibile.

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Eduscopio 2024, quali sono le migliori scuole in Italia?...

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eduscopio 2024 Aula Scuola

È stata pubblicata la nuova edizione di Eduscopio 2024, il rapporto della Fondazione Agnelli che fornisce una guida completa per orientare studenti e famiglie nella scelta delle scuole superiori. Questo strumento di analisi si basa su un database che raccoglie i dati di oltre 1,3 milioni di diplomati provenienti da più di 7.000 scuole in tutta Italia, offrendo una panoramica dettagliata delle istituzioni scolastiche che preparano meglio gli studenti per l’università e il mondo del lavoro.

Le migliori scuole città per città: la classifica

Milano

  • Miglior Liceo Classico: Sacro Cuore
  • Miglior Liceo Scientifico: Alessandro Volta
  • Miglior Liceo Linguistico: Civico Manzoni
  • Miglior Istituto Tecnico Economico: Gino Zappa
  • Miglior Istituto Tecnico Tecnologico: Galvani

Roma

  • Miglior Liceo Classico: Ennio Quirino Visconti
  • Miglior Liceo Scientifico: Augusto Righi
  • Miglior Liceo Scientifico – Scienze Applicate: Antonio Labriola
  • Miglior Liceo Linguistico: Edoardo Amaldi
  • Miglior Liceo Scienze Umane: Margherita di Savoia
  • Miglior Istituto Tecnico Economico: Cristoforo Colombo
  • Miglior Istituto Tecnico Tecnologico: Boaga

Torino

  • Miglior Liceo Classico: Vincenzo Gioberti
  • Miglior Liceo Scientifico: Altiero Spinelli
  • Miglior Liceo Linguistico: Altiero Spinelli
  • Miglior Istituto Tecnico Economico: Bosso – Monti
  • Miglior Istituto Tecnico Tecnologico: Santorre di Santarosa

Bologna

  • Miglior Liceo Classico: Luigi Galvani
  • Miglior Liceo Scientifico: Niccolò Copernico
  • Miglior Liceo Scientifico – Scienze Applicate: Enrico Fermi
  • Miglior Liceo Linguistico: Niccolò Copernico
  • Miglior Istituto Tecnico Economico: Crescenzi-Pacinotti-Sirani
  • Miglior Istituto Tecnico Tecnologico: Arrigo Serpieri

Napoli

  • Miglior Liceo Classico: Convitto Vittorio Emanuele II
  • Miglior Liceo Scientifico: Convitto Vittorio Emanuele II
  • Miglior Liceo Scientifico – Scienze Applicate: Eleonora Pimentel Fonseca
  • Miglior Istituto Tecnico Economico: Francesco Saverio Nitti
  • Miglior Istituto Tecnico Tecnologico: Della Porta-Porzio

Firenze

  • Miglior Liceo Classico: Galileo Galilei
  • Miglior Liceo Scientifico: Niccolò Machiavelli
  • Miglior Istituto Tecnico Economico: Russell – Newton
  • Miglior Istituto Tecnico Tecnologico: Morante-Ginori Conti

Palermo

  • Miglior Liceo Classico: Umberto I
  • Miglior Liceo Scientifico: Galileo Galilei
  • Miglior Istituto Tecnico Economico: Giovanni Falcone
  • Miglior Istituto Tecnico Tecnologico: Giovanni Verga

Catania

  • Miglior Liceo Classico: Marco Polo
  • Miglior Liceo Scientifico: Galilei
  • Miglior Istituto Tecnico Economico: Ferraris

Bari

  • Miglior Liceo Classico: Aristotele
  • Miglior Liceo Scientifico: Fermi
  • Miglior Istituto Tecnico Economico: De Viti De Marco

Novità dell’edizione 2024

Quest’anno, per la prima volta, Eduscopio ha analizzato separatamente le prestazioni dei diplomati degli indirizzi scientifici sportivi. Questa scelta risponde all’aumento di popolarità di questi percorsi, che combinano l’approfondimento delle discipline scientifiche con la preparazione fisico-sportiva.

Dopo la scuola, tra università e lavoro

L’edizione 2024 riflette ancora le conseguenze della pandemia per i diplomati del 2020-2021. Secondo il rapporto, molti studenti hanno incontrato difficoltà nell’adattarsi alla didattica universitaria, con una lieve riduzione del numero di esami sostenuti e della media dei voti.

La buona notizia arriva dagli istituti tecnici e professionali: il tasso di occupazione per i diplomati di questi percorsi sta tornando ai livelli pre-pandemia. Questo dato conferma la crescente domanda di profili tecnici nel mercato del lavoro, soprattutto nei settori tecnologici e manifatturieri.

Come viene stilata la classifica Eduscopio

L’analisi di Eduscopio si basa su criteri rigorosi e oggettivi che tengono conto di due macro-aree:

  1. Prestazioni accademiche degli studenti universitari, valutate sulla base del numero di esami sostenuti e della media dei voti;
  2. Occupabilità dei diplomati negli istituti tecnici e professionali, calcolata in termini di percentuale di studenti occupati a due anni dal diploma.

Questo approccio permette di identificare le scuole non solo in base alla preparazione accademica ma anche in relazione alla capacità di inserirsi rapidamente nel mondo del lavoro.

Cosa significa Eduscopio per studenti e famiglie

Con l’avvicinarsi del periodo delle iscrizioni scolastiche, Eduscopio rappresenta una risorsa fondamentale per orientarsi tra le molteplici opzioni disponibili. Scegliere la scuola giusta non significa solo optare per il percorso formativo più adatto alle inclinazioni dello studente, ma anche garantire una preparazione che risponda alle esigenze future del mercato del lavoro.

L’analisi evidenzia forti disparità regionali. Le scuole delle città settentrionali, in particolare quelle di Milano e Bologna, continuano a distinguersi per eccellenza accademica e occupazionale, mentre nel Sud Italia permangono difficoltà strutturali legate alla carenza di risorse e infrastrutture scolastiche. Tuttavia, alcune città meridionali, come Napoli e Bari, stanno emergendo con scuole in grado di competere con quelle del Centro-Nord, dimostrando come l’impegno di studenti e docenti possa fare la differenza. Il Politecnico del capoluogo pugliese, inoltre, è il primo in Italia per assunzioni entro un anno dalla laurea.

Consigli per sfruttare al meglio Eduscopio

Per le famiglie che devono scegliere la scuola superiore, è importante:

  • Considerare i propri obiettivi: se l’intenzione è proseguire con l’università, privilegiare scuole con buoni risultati accademici. Per chi vuole entrare nel mondo del lavoro subito dopo il diploma, preferire istituti tecnici e professionali con alti tassi di occupazione;
  • Confrontare le opzioni locali: Eduscopio consente di filtrare i risultati per area geografica, permettendo di scegliere scuole vicine e accessibili;
  • Valutare i trend futuri: il mercato del lavoro evolve rapidamente, ed è utile considerare percorsi che offrono competenze richieste in settori emergenti, come la tecnologia e la sostenibilità.
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Femminicidio, uccise 96 donne nel 2023. Valditara: “Mai...

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Giuseppe Valditara

I femminicidi stimati in Italia sono pari a circa l’82% del totale delle donne uccise. È quanto emerso dal report Istat “Le vittime di omicidio anno 2023” che ha preso in considerazione, in base al framework delle Nazioni Unite al quale l’Italia ha aderito, la definizione di femminicidio come l’omicidio che riguarda l’uccisione di una donna in quanto donna.

Dalle informazioni al momento disponibili (relazione tra vittima e autore, movente, ambito dell’omicidio) è stata elaborata una stima del fenomeno che, per molti, smentirebbe le parole del ministro all’Istruzione Giuseppe Valditara.

All’inaugurazione della Fondazione Giulia Cecchettin alla Camera dei deputati, in un videomessaggio, il ministro aveva citato il fenomeno dell’immigrazione illegale tra le cause della violenza sessuale: “È legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”. Parole che hanno creato polemica in quanto, sempre secondo il report Istat, il 94,3% delle donne italiane uccide per motivi sentimentali è vittima di italiani. Scopriamo, quindi, la dimensione del fenomeno in Italia e come il ministro ha chiarito il fraintendimento che si è generato in seguito alle sue parole.

Femminicidi e omicidi in Italia

Secondo quanto emerso dal report, “sono 63 le donne uccise nell’ambito della coppia, dal partner o ex partner; sono 31 le donne uccise da un altro parente; due le donne uccise da un conoscente con movente passionale. In totale si tratta di 96 femminicidi presunti su 117 omicidi con una vittima donna. Nel 2019, erano 101 su 111, nel 2020 erano 106 su 116, nel 2021 104 su 119, nel 2022 105 femminicidi presunti su 126 omicidi”.

“Tra le restanti 21 vittime donne: quattro sono state uccise per rapine, una per follia, tre per interessi economici o debiti, sei per futili motivi, liti o rancori da conoscenti e sconosciuti, una per motivi legati agli stupefacenti ed una per regolamento di conti nell’ambito mafioso, mentre per cinque non è stato stabilito il movente e di queste tre non hanno un autore identificato – si osserva nel report dell’Istat – Di questi 21 casi, 15 omicidi sono stati perpetrati da uomini, uno da una donna conoscente e per quattro non si conosce il sesso dell’autore, in quanto si tratta di casi di omicidio non risolti”.

“Sono i partner a compiere omicidi”

Per le donne si conferma un quadro stabile in cui le morti violente avvengono soprattutto nell’ambito della coppia. Nel 2023 è pari allo 0,21 per 100mila donne il tasso delle donne uccise da un partner o un ex partner – sia esso un coniuge, un convivente o un fidanzato o un amante – del tutto simile a quello del 2022 (0,20). Mentre per gli uomini, lo stesso tasso è pari a 0,02 per 100mila uomini”.

“In particolare – continua il report Istat – sono i partner con cui la donna ha una relazione al momento della morte (coniugi, conviventi, fidanzati) a compiere il maggior numero degli omicidi nella coppia (il 41%), mentre sono il 12,8% gli ex partner (ex coniugi, ex conviventi, ex fidanzati). Il rischio di essere uccise da un partner non si differenzia a seconda delle età (a partire dai 18 anni)”. “Sessantuno sono i partner maschi (96,8%) delle 63 donne uccise nell’ambito della coppia, mentre i sei uomini vittime di partner sono stati uccisi tutti da donne”, continua il report.

“Le donne italiane vengono uccise dai partner, attuali o precedenti, nel 51,5% dei casi, le straniere nel 68,7% – prosegue – Risulta lievemente in diminuzione il tasso delle donne uccise da parenti (0,10 nel 2023; 0,14 nel 2022). Le donne uccise da altri familiari (31) sono state uccise da uomini nell’83,8% (26 casi) e da donne in cinque casi. Sono 40 gli uomini uccisi dai parenti, 37 dei quali sono stati assassinati da altri uomini”.

La polemica

I dati Istat riportano anche la nazionalità d’origine degli assassini e arrivano in seguito alle polemiche nate dalle parole del ministro Valditara che – nel videomessaggio – ha dichiarato che tra le cause della violenza contro le donne ci sarebbe anche l’immigrazione illegale. Un’affermazione, questa, che ha destato qualche perplessità nell’opinione pubblica, anche alla luce di quel “94,3% delle donne italiane è vittima di italiani” riportato dall’Istituto di ricerca.

Il messaggio è stato espresso nel giorno dell’anniversario della morte di Giulia Cecchettin, studentessa 22enne uccisa dal fidanzato, alla presentazione da parte del padre Gino della fondazione inaugurata negli scorsi giorni e che si propone l’obiettivo di sensibilizzare e tutelare le donne vittime di violenza.

La ragazza, un anno fa, è stata assassinata dal compagno “bianco perbene”, come lo ha definito la sorella, secondo la quale, come Giulia, sono tante le donne uccise da partner o ex partner e non di nazionalità straniera. Inoltre, lo stesso padre della giovane vittima ha ribadito che la violenza è violenza indipendentemente dalla provenienza dell’assassino.

A creare la polemica che divampa sui social, però, sono stati due principali fattori:

  1. Il fatto che il ministro abbia detto che il concetto di “patriarcato” si è ormai estinto nonostante persistano fenomeni di maschilismo. Nel suo intervento, Valditara aveva dichiarato che “la visione ideologica vorrebbe risolvere la questione femminile lottando contro il patriarcato. Ma come fenomeno giuridico è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha sostituito alla famiglia fondata sulla gerarchia la famiglia fondata sulla eguaglianza”. Per alcuni “Cassare a ideologico il femminismo vs il patriarcato è stato un atto sminuente (si legge sui social)” che affievolirebbe le cause culturali che persistono dietro la violenza di genere.
  2. Il fatto che il ministro, dicendo che tra le cause della violenza contro le donne c’è anche l’immigrazione illegale, avrebbe spostato il focus dell’attenzione su uno dei temi maggiormente trattati in campagna elettorale dell’attuale governo: le politiche migratorie. Per molti, si è trattato di un atto di “propaganda politica non supportato dai dati”.

La risposta di Valditara

Il ministro si è difeso dalle accuse, oggi al Salone dello studente a Roma, sostenendo di non aver mai detto che il femminicidio è colpa degli immigrati: “Non ho mai detto che il femminicidio è colpa degli immigrati, ma che in Italia c’è un aumento preoccupante delle violenze sessuali a cui contribuisce anche, ed è importante l’anche, la marginalità e la devianza conseguenti a un’immigrazione irregolare”.

“Le violenze sessuali sono un altro fenomeno molto triste – ha aggiunto Valditara -. I dati Istat e del ministero dell’Interno sono purtroppo inequivocabili e mi dispiace che qualcuno li abbia alterati o non li abbia conosciuti. Non ho detto che l’immigrato è causa di questo”.

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