Negli ultimi anni, un fenomeno sociale ha attirato l’attenzione di sociologi, psicologi e demografi: l’aumento dei divorzi tra anziani, conosciuto anche come “gray divorce” o “divorzio grigio”. Se fino a qualche decennio fa l’idea di separarsi in età avanzata sembrava impensabile, oggi i dati mostrano chiaramente che le coppie over 60 non sono immuni dall’instabilità coniugale. Le dinamiche relazionali stanno cambiando, e le persone, anche in età più matura, sembrano più disposte a mettere in discussione matrimoni di lunga durata per cercare un nuovo inizio.
Negli anni ’60 e ’70, il divorzio era visto come un fenomeno raro e spesso stigmatizzato. Le coppie che si sposavano tendevano a restare insieme per tutta la vita, spesso per motivi economici, culturali o religiosi. Tuttavia, negli ultimi decenni, il divorzio è diventato sempre più comune e accettato nella società occidentale. L’avvento dei movimenti per i diritti delle donne, i cambiamenti nei valori sociali e l’indipendenza economica femminile hanno contribuito a rendere il divorzio un’opzione più accessibile. Se in passato il divorzio era considerato un tabù per le generazioni più anziane, oggi sempre più coppie in età avanzata scelgono di separarsi, anche dopo decenni di matrimonio.
I numeri del divorzio tra over 60
Secondo uno studio del Pew Research Center pubblicato nel 2017, la percentuale di divorzi tra persone di età pari o superiore ai 50 anni negli Stati Uniti è più che raddoppiata dal 1990. Se nel 1990 solo il 5 divorzi ogni 1.000 persone sopra i 50 anni decideva di porre fine al proprio matrimonio, nel 2015 il tasso era salito a 10 divorzi per 1.000. Inoltre, per le persone di età superiore ai 65 anni, il tasso di divorzio è addirittura triplicato, passando da 2 divorzi su 1.000 nel 1990 a 6 su 1.000 nel 2015.
In Italia, secondo i dati dell’ISTAT, il numero di divorzi tra persone con più di 60 anni è in costante aumento: tra il 2015 e il 2021 sono aumentati di oltre il 40%. In numeri assoluti, ciò significa che si è passati dai 6.131 divorzi nel 2015 agli 8.715 nel 2021. Un balzo che non può essere ignorato e che solleva molte domande su cosa stia cambiando nelle dinamiche di coppia degli anziani italiani.
Non si tratta più di episodi isolati o di situazioni eccezionali: il divorzio in età avanzata è ormai una realtà diffusa e, come vedremo, le ragioni alla base di questa scelta sono complesse e strettamente legate alle trasformazioni sociali, economiche e culturali degli ultimi anni.
Se guardiamo al contesto europeo, uno studio dell’Eurostat indica che tra il 2005 e il 2020 il numero di divorzi tra persone over 50 è aumentato in quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea, con picchi in Germania, Francia e Svezia.
Perché aumentano i divorzi tra anziani?
L’aumento dei divorzi tra persone over 60 è un fenomeno complesso, che non può essere spiegato con una sola causa. Dietro questa crescita ci sono diversi fattori, che spaziano dall’evoluzione dei valori culturali alla trasformazione della vita sociale ed economica degli anziani. Ma quali sono i motivi principali che spingono sempre più ultrasessantenni a mettere fine a un matrimonio di lunga durata?
Allungamento della vita media
Uno dei fattori chiave è sicurament l’allungamento della vita media. Le persone oggi vivono più a lungo e in migliori condizioni di salute rispetto al passato. Questo significa che, una volta raggiunta l’età della pensione, molte coppie si trovano ad affrontare decenni di vita insieme in un contesto in cui le priorità e le aspettative personali possono essere cambiate. Per alcuni, l’idea di trascorrere altri 20 o 30 anni con un partner con cui non condividono più gli stessi interessi o valori può spingere a considerare la separazione.
Cambiamenti culturali e sociali
La nostra società è diventata sempre più individualista e incentrata sull’autorealizzazione. Gli anziani di oggi sono stati testimoni, e spesso protagonisti, dei cambiamenti culturali del ventesimo secolo, compresa la rivoluzione sessuale e la diffusione dell’idea che ognuno abbia il diritto di essere felice. Di conseguenza, il matrimonio non è più visto come un’istituzione indissolubile, ma piuttosto come un contratto che può essere modificato o sciolto se non soddisfa più le esigenze di entrambi i partner.
Indipendenza economica
L’indipendenza economica, soprattutto delle donne, gioca un ruolo cruciale. Le donne di oggi, anche quelle di età avanzata, sono spesso economicamente autosufficienti. Questo è un cambiamento rispetto alle generazioni precedenti, quando le donne anziane dipendevano finanziariamente dai loro mariti. La maggiore indipendenza economica rende più facile per le donne prendere la decisione di porre fine a un matrimonio insoddisfacente.
Figli adulti e sindrome del “nido vuoto”
Molte coppie restano insieme “per il bene dei figli”, ma una volta che i figli sono cresciuti e si sono trasferiti, il cosiddetto “nido vuoto” può mettere in luce le crepe nel rapporto. Con i figli ormai adulti e indipendenti, alcune coppie anziane si rendono conto di non avere più molto in comune e scelgono di separarsi per cercare nuove opportunità di realizzazione personale.
Nuove opportunità per relazioni
La tecnologia ha aperto nuove porte anche agli anziani. Siti di incontri online e social media offrono la possibilità di incontrare nuove persone, facilitando la prospettiva di una nuova relazione anche in età avanzata. Questo può incoraggiare alcuni a lasciare un matrimonio insoddisfacente nella speranza di trovare un nuovo compagno o compagna.
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‘Ugly Privilege’, essere brutti è un vantaggio? Per...
Chi bella vuole apparire un poco deve soffrire, dicevano le nostre nonne, dando per scontato – e tramandando l’idea – che la bellezza sia un valore talmente importante da meritare sudore, fatica e in definitiva anche dolore. E che per le donne, in fondo, sia un imperativo cui inevitabilmente sottostare. Arrivati all’oggi, però ci sono anche delle voci contrarie, che emergono in particolare su TikTok, teatro dei trend più strani ma anche specchio delle tendenze della società, secondo le quali il vero privilegio è essere brutti. La novità si chiama infatti ‘Ugly privilege’, e in sostanza sostiene che se sei brutta gli uomini non ti guardano, quindi ti lasciano in pace e quindi puoi vivere molto più serenamente.
I pregiudizi che colpiscono i ‘belli’
Inoltre chi è bello soffre del pregiudizio secondo cui come minimo è una persona superficiale, e molto probabilmente anche poco intelligente, col risultato che spesso viene oggettificato sessualmente, scatena invidie e cattiverie, le sue virtù interiori vengono del tutto ignorate e in generale deve faticare per far vedere che ‘oltre le gambe c’è di più’.
Partendo da questi presupposti, la rivoluzione dell’ugly privilege riscuote consensi sul social cinese e potrebbe fare presa su molte donne (e uomini). E così, in un mondo dove migliaia di euro, tempo, fatica e serenità mentale vengono sacrificati sull’altare dei canoni di bellezza imposti dalla società e dalla cultura, viene rivendicato non solo il diritto ad essere brutti, ma addirittura il vantaggio di esserlo.
‘Ugly privilege’: essere brutta non ti salverà
Ma se reclamare il diritto a non essere ‘conformi’ a certi standard può essere una rivoluzione copernicana dei nostri tempi, che salva le donne da imperativi plurisecolari e gli uomini da diktat più recenti ma in cui stanno cascando con tutti i piedi, affermare che essere brutti, insignificanti e ignorati dall’altro sesso sia un privilegio sembra più un paradosso, un dire – come la volpe della favola – che ‘l’uva non è matura’, e alla fin fine un tirarsi la zappa sui piedi.
Questo per vari motivi. Intanto sostenere che essere brutti sia meglio significa non riconoscere che le persone belle godono di effettivi vantaggi, ingiusti ma certificati dalla scienza: ognuno di noi è meglio predisposto verso chi ha un aspetto gradevole, tanto che per chi rientra nella categoria è più facile trovare lavoro, ad esempio, così come è avvantaggiato a livello sociale. È il cosiddetto ‘pretty privilege’.
Poi significa anche ridurre la questione delle attenzioni indesiderate che si possono ricevere (tipicamente dagli uomini verso le donne) a un fattore estetico, quando la realtà dei fatti e le statistiche ci dicono che molestie, stalking, stupri e violenze capitano a donne belle o brutte, giovani e meno giovani. E questo per il semplice fatto che la violenza di genere deriva da una dinamica di potere e di controllo, non certamente dall’avvenenza di chi la subisce.
Inoltre, molte donne hanno commentato video TikTok relativi al ‘privilegio della bruttezza’ affermando che proprio perché gli uomini non le trovano attraenti e le lasciano in pace si sentono al sicuro ad esempio tornando a casa la sera, e che questo per loro è molto positivo. Uno sfasamento visivo che non tiene conto che la violenza non guarda in faccia a nessuno e che potrebbe indurre le persone ad essere meno prudenti, pensando di godere di un salvacondotto che nei fatti non esiste.
La bellezza è anche un privilegio economico e sociale
Un altro aspetto problematico dell’ugly privilege è che sminuisce e fa passare per qualcosa di positivo quella che è di fatto una marginalizzazione sociale o lavorativa che si basa solo sull’estetica. Un problema aggravato dal fatto che la bellezza può essere un dono di Madre Natura ma spesso può esserci lo zampino del chirurgo o della chirurga, o di tutta una serie di pratiche – mangiare bene, avere tempo per sé, poter fare sport o trattamenti specifici – che dipendono dalle situazioni di vita e dalla disponibilità di soldi di cui si gode. Il pretty privilege insomma è allo stesso tempo un discorso di possibilità, e si associa a ben altri tipi di privilegi: economici, sociali e culturali.
Infine c’è un altro aspetto, alla base dell’ugly come anche del pretty privilege. Per quanto tutte e due queste ‘problematiche’ possano riguardare entrambi i sessi, le donne sotto decisamente molto più sotto pressione, in un senso o in un altro, e per lo stesso motivo: lo sguardo degli uomini. Che sia perché le molestano più o meno pesantemente, sia che le ignorino, in questo modo sono sempre loro a dettare come una donna si debba sentire.
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Bologna, 12 brasiliani chiedono la cittadinanza perché...
12 brasiliani hanno chiesto al tribunale di Bologna la cittadinanza italiana. La parte anomala della vicenda è che la richiesta si basa su un’antenata in comune, nata a Marzabotto nel 1876.
Una richiesta formalmente legittima, ma di dubbia ragionevolezza giuridica, tanto che, con ordinanza, il tribunale di Bologna “ha sollevato d’ufficio l’eccezione di illegittimità costituzionale della disciplina italiana in materia di cittadinanza, nella parte in cui prevede il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis senza alcun limite temporale”. Come spiegato dal presidente del tribunale Pasquale Liccardo, i giudici chiedono se sia legittimo riconoscere la cittadinanza anche se l’avo di riferimento sia nato molte generazioni prima (in questo caso quasi 150 anni fa) e i discendenti non abbiano alcun legame con la cultura, le tradizioni e la lingua italiana.
L’ordinanza del tribunale di Bologna
A firmare l’atto è stato il giudice Marco Gattuso, lo stesso che un mese fa aveva sollevato alla Corte di Giustizia Ue il rinvio pregiudiziale del decreto Paesi sicuri, attirandosi le critiche dell’esecutivo. In questo caso, Gattuso spiega che “la cittadinanza identifica l’elemento costitutivo del popolo, cui la Carta costituzionale riconosce la sovranità”, “il criterio che consente di distinguere il ‘popolo’ rispetto agli altri popoli”.
Da qui la questione di costituzionalità sullo ius sanguinis, che si applica senza alcun limite temporale purché la trasmissione di cittadinanza non sia mai stata interrotta con un atto formale di rinuncia. Il tribunale chiede alla Consulta di verificare se “tale disciplina sia o meno in contrasto con le nozioni di popolo e di cittadinanza richiamati nella Costituzione, con il principio di ragionevolezza e con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia anche nell’ambito dell’Unione europea”, sottolineando implicitamente l’illogicità del meccanismo.
I 12 brasiliani, spiega ancora il tribunale di Bologna “chiedono l’accertamento della cittadinanza italiana per la sola presenza di un’antenata italiana, fra le decine di loro antenati non italiani, nata nel 1876 e partita da giovane dal nostro Paese”.
Il confronto con gli altri Paesi e il rischio di un precedente
Recentemente, il dibattito politico si è acceso sul tema della cittadinanza tra ius scholae, ius soli e ius sanguinis. Il Referendum Cittadinanza proposto da +Europa ha superato agevolmente le 500.000 firme necessarie per far iniziare l’iter. Gli italiani saranno chiamati a votare probabilmente nella primavera 2025, comunque entro tre mesi dalla vidimazione delle firme. La modifica proposta punta a facilitare l’ottenimento della cittadinanza per 2,5 milioni di extracomunitari che dovrebbero risiedere in Italia per cinque anni, invece di dieci, prima di poter richiedere la cittadinanza italiana.
Intanto, tranne rare eccezioni, vige uno ius sanguinis particolare: “l’ordinamento italiano è uno dei pochissimi al mondo a riconoscere lo ius sanguinis senza prevedere alcun limite”, scrive ancora il tribunale di Bologna nell’ordinanza spedita a Roma. I giudici si rivolgono alla Consulta non solo in merito alla richiesta dei 12 brasiliani, ma anche considerando che l’Italia “presenta all’estero, secondo le stime più accreditate, diverse decine di milioni di discendenti da un antenato italiano”. Un precedente in tal senso potrebbe generare un effetto a cascata nonostante la dubbia ragionevolezza giuridica del meccanismo.
Seguendo una interpretazione restrittiva della legge, i richiedenti possono diventare italiani pur non avendo mai visto l’Italia se non in video o in foto. Nel frattempo, milioni di immigrati nati e cresciuti in Italia non riescono ad ottenere la cittadinanza perché, tranne in rare eccezioni, non vige lo ius soli, né lo ius scholae o lo ius culturae.
L’analogia con il “caso veneto”
La questione sollevata dal tribunale di Bologna ricorda il “caso veneto”, dove 92mila bambini e ragazzi, figli di genitori stranieri, vivono e studiano senza avere la cittadinanza, mentre 300mila oriundi nati all’estero, con un trisavolo veneto, riescono a ottenerla. Il fenomeno pone interrogativi sul senso di appartenenza e cittadinanza nel nostro Paese, ma anche sui criteri con cui vengono stabiliti i diritti civili.
Il Veneto è una delle regioni italiane più colpite da questa dinamica, a causa del suo passato di forte emigrazione verso le Americhe tra Ottocento e Novecento. Molti discendenti di emigranti veneti, principalmente in Brasile e Argentina, richiedono la cittadinanza italiana grazie alla legge sullo ius sanguinis. Salvatore Laganà, presidente del Tribunale di Venezia, ha confermato che il 43% delle richieste per discendenza in tutta Italia proviene proprio dal Veneto. Dal trasferimento della competenza nel 2022, il Tribunale ha gestito oltre 23mila pratiche, con ancora 18mila richieste pendenti.
La regione oggi si trova a gestire migliaia di richieste di cittadinanza, un compito che grava pesantemente sui piccoli Comuni. Il paradosso demografico è evidente: in un territorio in cui nascono sempre meno bambini – circa 30mila all’anno – il numero di nuovi cittadini per discendenza supera di gran lunga quello delle nuove nascite.
Per approfondire: Alcuni comuni veneti hanno più richieste di cittadinanza che nuovi nati
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Congedo paternità obbligatorio, per Meloni è ‘no’. Valore...
Occorre stimolare un cambiamento culturale per quanto riguarda l’utilizzo dei congedi di paternità, ma per rendere questo cambiamento concreto e celere serve anche estendere la misura e renderla obbligatoria, in modo da “responsabilizzare entrambi i genitori nel loro ruolo educativo”. Lo ha sottolineato Valore D, associazione di imprese che promuove l’equilibrio di genere e l’inclusività come fattore competitivo per la crescita delle aziende e del Paese, a proposito delle affermazioni della premier Giorgia Meloni espresse in un’intervista rilasciata alla direttrice di ‘Donna Moderna’ Maria Elena Viola.
Meloni: “No al congedo di paternità obbligatorio”
Nell’intervista Meloni aveva detto di non essere a favore dell’introduzione del congedo di paternità obbligatorio, e questo perché la soluzione, ha precisato, è nella “libera scelta: il congedo parentale, infatti, vale sia per la madre che per il padre”.
La premier riconosce l’esistenza di un problema culturale su cui è favorevole a intervenire: in Italia gli uomini si vergognano a prendere il congedo parentale. “Sono d’accordo – ha detto – ed è qualcosa su cui bisogna lavorare, però non so quanto lo possiamo risolvere con un obbligo”.
“Il congedo parentale, come lo abbiamo ampliato noi, si utilizza fino al sesto anno di vita del bambino e consente alla famiglia di organizzarsi perché non si smette di essere genitori dopo i primi mesi di vita del figlio – ha spiegato. È un congedo che si prende a condizione necessaria. Se noi lo mettessimo obbligatorio potremmo aumentarlo di quanto? Dieci giorni, un mese? Non avrebbe lo stesso impatto. Culturalmente sì, però, secondo me, ha più senso se noi su questo lavoriamo sul piano culturale perché ci dà una risposta che può essere ugualmente utile, senza però comprimere quello che stiamo dando alle famiglie, perché tre mesi sono tre mesi. Sicuramente sul tema culturale questa è una battaglia che mi interessa”.
Valore D: da anni lavoriamo per promuovere congedo di paternità
In riferimento alla posizione espressa da Meloni, Valore D ha anche evidenziato come da anni l’associazione lavori attraverso le proprie associate per mettere in atto politiche che promuovano il congedo di paternità oltre i 10 giorni stabiliti dalla legislazione corrente, sottolineando che l’estensione del congedo di paternità e l’obbligatorietà della misura rimangano necessarie per raggiungere l’obiettivo di “una pari responsabilizzazione di entrambi i genitori”, e dunque per “migliorare il benessere della famiglia nel suo insieme” e arrivare a “contrastare l’inverno demografico italiano”.