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Smartphone vietati al liceo Volta di Torino, l’esperto: “No prima dei 14 anni”

Non era una sorpresa e neppure una punizione: il divieto di smartphone a scuola per gli studenti del liceo Alessandro Volta di Torino è oggi realtà. “Niente smartphone a scuola” è un progetto annunciato in una circolare del Liceo scientifico, all’interno del quale, già da lunedì, 18 prime e seconde classi fanno a meno del proprio telefono.

Perché? “Sono una fonte di distrazione dalle attività didattiche e alienazione dai rapporti interpersonali”, scrive la dirigenza nella circolare scolastica. Infatti, si parla di mancanza di rapporti interpersonali e alienazione. Insomma, gli smartphone non fanno bene ai giovani che finiscono per trascorrere l’intervallo “senza alzarsi dal banco e guardarsi in faccia”.

“Sicuramente è positivo – ci ha spiegato il pedagogista Daniele Novara – pensare a una scuola dove il digitale sia concepito, nel caso, solo come strumento di apprendimento collettivo e si faccia capire ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze che può esistere un mondo lontano da smartphone e app”. Ma forse non basta”.

Il regolamento

La scuola ha ordinato e ricevuto gli armadietti da posizionare in ogni aula del biennio dove a partire da lunedì i telefoni degli alunni sono custoditi durante le lezioni: sottochiave e in ordine alfabetico.

Nel regolamento si legge che gli allievi devono consegnare al docente della prima ora di lezione tutti i propri device elettronici. Questi verranno posizionati in ciascuna classe del biennio e l’armadietto viene chiuso a chiave. “Le chiavi si troveranno al mattino presso le collaboratrici scolastiche del piano e a loro dovranno essere riconsegnate dallo stesso docente, affinché le collaboratrici le recapitino in presidenza, dove saranno custodite fino alla conclusione della mattinata”. Se uno studente volesse rifiutarsi, si becca una nota disciplinare o un servizio pomeridiano di volontariato nel caso si dovesse ripetere il rifiuto.

“Il primo giorno è andato bene – ha commentato la preside Maurizia Basili -, vedremo come andrà nei prossimi. Certo, non è un sistema molto comodo, c’è chi obietta che sarebbe stato più semplice limitarsi a farlo tenere nello zaino, ma si sa che poi lì non ci resta e in un attimo, per osmosi, chissà come finisce tra le mani”.

La reazione

“Il punto – ha aggiunto Daniele Novara – è che l’emergenza smartphone, perché di emergenza si tratta, deve essere affrontata molto prima e in modo più completo. Per quanto riguarda le tempistiche, questi strumenti dovrebbero essere vietati dalla prima infanzia fino ai 14 anni. Sul fatto che ciò avvenga esclusivamente a scuola, è evidente che, se fuori da scuola si sta otto ore attaccati agli schermi, la situazione non può trovare soluzione. Serve un’appropriata regolazione normativa – ha aggiunto Novara – che possa dare sostegno alle famiglie nel togliere di mano ai bambini e alle bambine uno strumento altamente dannoso per la loro crescita”.

E a concordare con il pedagogista sono in tanti. “Il mio vecchio liceo, baluardo delle lotte studentesche negli anni ’70, vieta il telefonino nel primo biennio scolastico. Ma sapete che sono proprio d’accordo!”, scrive un utente sui social commentando la notizia. E ancora: “Finalmente!!! Si è iniziato a capire che questi marchingegni, hanno rovinato la gioventù”. Oppure: “Siamo cresciuti bene senza smartphone, non ne soffriranno la mancanza”, scrive qualcun altro.

Al momento gli studenti non sembrano protestare. Per alcuni, il problema è che il cellulare spesso veniva usato come hotspot per connettere a internet il computer che si usa per scopi didattici, ma la preside anche per quello ha detto di avere una soluzione: “Potenzieremo la connessione se necessario”. Insomma, non c’è via di scampo e i giovani del liceo Volta di Torino si trovano a dover consegnare gli smartphone, senza troppe obiezioni.

“L’iniziativa è certamente lodevole – ha concluso Novara – ma non colpisce né l’età più critica (fino ai 14 anni) né i momenti in cui i ragazzi e le ragazze sono più esposti: a casa e nei pomeriggi di svago. Come propongo da tempo, serve una legge che possa tutelare le nuove generazioni. Non c’è tempo da perdere”.

Il pedagogista Novara è critico su questo punto e sulla piattaforma ‘Change.org’ ha lanciato una petizione che chiede “al Governo italiano di impegnarsi per far sì che nessuno dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze possa possedere uno smartphone personale prima dei 14 anni e che non si possa avere un profilo sui social media prima dei 16. Aiutiamo le nuove generazioni”. L’appello è promosso dal Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti (Cpp), diretto e fondato dallo stesso Novara, e dal medico e psicoterapeuta Alberto Pellai. Seguono le firme di 24 esperti e di diversi esponenti di Unita (Unione nazionale interpreti teatro e audiovisivo), tra cui molti attori, da Stefano Accorsi a Luca Zingaretti.

ATTENZIONE - Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.

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Manovra, mini-rivalutazione delle minime e tutte le altre...

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L’inizio dell’autunno coincide puntualmente con l’alba delle nuove speranze per i pensionati italiani, costretti poi a ricredersi sotto la scure della crisi demografica. Il testo della manovra, approdato a Montecitorio, prevede alcune conferme e alcune novità per le pensioni nel 2025.

Pensioni minime 2025

Ci sarà una mini-rivalutazione per le pensioni minime: nel 2025 l’assegno mensile salirà dagli attuali 614,77 euro a circa 617 euro. Il rallentamento dell’inflazione porta la rivalutazione dal 2,7% di quest’anno al 2,2% nel 2025 e all’1,3% nel 2026.

Rivalutazione delle pensioni

La manovra introduce un cambiamento importante nell’indicizzazione delle pensioni per i residenti all’estero. Per questa categoria di pensionati, dal 2025 sarà applicata una stretta sull’indicizzazione delle pensioni per i trattamenti superiori al minimo Inps. Per i pensionati residenti in Italia, invece, si ritornerà al meccanismo di rivalutazione basato sulla legge n. 388/2000, che prevede tre livelli di indicizzazione:

100% di adeguamento all’inflazione per pensioni fino a quattro volte il minimo Inps;
90% per pensioni tra quattro e cinque volte il minimo;
75% per pensioni superiori a cinque volte il minimo.

Questo cambiamento mira a tutelare maggiormente il potere d’acquisto dei pensionati con assegni di importo medio-basso.

Tfr, sfuma l’ipotesi silenzio-assenso

Nonostante le indiscrezioni delle scorse settimane, sfuma l’ipotesi del “silenzio assenso” per il Trattamento di fine rapporto (Tfr). La ministra del Lavoro, Marina Calderone, aveva proposto di aprire un nuovo periodo di silenzio-assenso per destinare automaticamente il Tfr ai fondi pensione di categoria. Questo meccanismo, già utilizzato in passato, permetterebbe di far confluire il trattamento di fine rapporto nei fondi pensione se il lavoratore non esprime esplicitamente la propria contrarietà entro sei mesi dall’avvio del periodo.

La nuova fase per destinare il Tfr alla previdenza complementare non è stata inclusa nel testo finale della manovra ma non è escluso che possa tornare in auge nel dibattito parlamentare.

Resta comunque confermato il supporto per i lavoratori interamente contributivi, cioè quelli che hanno iniziato a versare contributi dal 1996. Per questi lavoratori sarà possibile utilizzare la rendita di pensione integrativa per raggiungere la soglia dell’assegno sociale, un requisito necessario per ottenere la pensione a 67 anni con almeno 20 anni di contributi.

Pensioni anticipate nel 2025

Sul fronte della flessibilità in uscita viene prorogata per un altro anno Quota 103, che permette di accedere alla pensione anticipata con almeno 62 anni di età e 41 anni di contributi. Giova ricordare che già il nuovo schema, in vigore già da quest’anno, prevede un ricalcolo contributivo della pensione, che è meno conveniente per il pensionato rispetto a una pensione calcolata con il sistema misto. L’obiettivo è disincentivare l’uscita anticipata dal lavoro, proseguendo nel solco già tracciato.

D’altronde, a inizio mese l’Istat ha lanciato l’allarme sulle troppe pensioni anticipate in Italia. Così tante che mediamente si va in pensione a 64,2 anni e non a 67. Un gap che il Paese non può permettersi con questa crisi demografica.

Per questo motivo, vengono confermati i requisiti stringenti fissati dalla Manovra 2024 per l’Ape Sociale, un sussidio economico per categorie di lavoratori in difficoltà, e per Opzione Donna, che consente alle lavoratrici di anticipare il pensionamento accettando un calcolo contributivo meno favorevole.
Già da quest’anno, il requisito anagrafico per l’uscita anticipata con l’Ape Sociale è stato aumentato di cinque mesi passando da 63 anni a 63 anni e 5 mesi.
Per quanto riguarda il pensionamento anticipato delle donne, resta il requisito anagrafico di 61 anni senza figli; 60 anni con un figlio; 59 anni con due o più figli.

Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti aveva messo sul tavolo l’ipotesi di prolungare le finestre per l’accesso alla pensione anticipata dagli attuali 3 mesi fino a 6 o 7 mesi per chi intende uscire dal lavoro con 42 anni e 10 mesi di contributi (per le donne 41) e indipendentemente dall’età anagrafica. Pe ora l’ipotesi è stata scartata.

Ampliato il Bonus Maroni

Se le pensioni anticipata sono disincentivate, chi resta al lavoro viene premiato. La manovra 2025, infatti, conferma e amplia il cosiddetto Bonus Maroni, un incentivo per coloro che, pur avendo i requisiti per la pensione anticipata con Quota 103, scelgono di restare al lavoro. Il bonus consiste nell’accredito in busta paga della quota di contributi a carico del lavoratore (9,19%), che va ad aumentare il reddito netto del lavoratore.

Inoltre, viene prevista la possibilità per i dipendenti pubblici di rimanere in servizio oltre i limiti di età per la pensione, previa autorizzazione delle amministrazioni di appartenenza, fino a un massimo di 70 anni. Questo prolungamento mira soprattutto a rallentare gli effetti della crisi demografica sull’offerta di lavoratori, ma anche ad affiancare i neo-assunti, favorendo il trasferimento di competenze ed esperienza. Il provvedimento proposto dal ministro della Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo mira a tamponare la perdita di quasi un milione di dipendenti prevista entro il 2030, a causa di pensionamenti previsti e del blocco del turnover attuato tra il 2010 e il 2020, che ha ridotto l’organico di circa 300.000 unità.

ATTENZIONE - Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.
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Manovra 2025 in ‘formato famiglia’: dal bonus bebè al...

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Numerose le misure con un impatto significativo sulle famiglie italiane al centro del disegno di legge di Bilancio 2025, autorizzato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e depositato alle Camere. Il provvedimento, con i suoi 144 articoli, abbraccia temi cruciali per le famiglie, con un’attenzione particolare a sostegno della natalità e del welfare familiare.

Detrazioni fiscali e quoziente familiare

Uno degli elementi più innovativi del ddl Bilancio riguarda il riordino delle detrazioni fiscali, con l’introduzione del quoziente familiare per le famiglie con redditi superiori ai 75mila euro. Si tratta di una misura che vuole premiare i nuclei con figli, riducendo la pressione fiscale in proporzione al numero di componenti. In pratica, il coefficiente che determina la detrazione varia a seconda della composizione del nucleo familiare: parte da 0,50 per le famiglie senza figli, e arriva a 1 per quelle con più di due figli.

Questo intervento mira a sostenere la classe media, che spesso si trova a fronteggiare un’alta pressione fiscale, senza godere dei benefici di altre fasce di reddito. Se per i contribuenti con redditi superiori a 75mila euro l’importo base per la detrazione è fissato a 14mila euro, la cifra scende a 8mila euro per chi supera i 100mila euro, lasciando comunque uno spazio di agevolazione.

Sostegno alla natalità: bonus bebè e asili nido

Il governo punta fortemente a incentivare la natalità, con una serie di misure mirate. Tra queste, spicca il bonus bebè, un contributo una tantum di 1.000 euro per ogni figlio nato o adottato dal 2025 per le famiglie con Isee inferiore a 40.000 euro. Si tratta di un sostegno economico che intende dare respiro ai nuovi genitori, che spesso si trovano a fronteggiare spese ingenti già nei primi mesi di vita del bambino.

A questa misura si affianca il rafforzamento del bonus asili nido, con un aumento delle risorse disponibili che raggiungeranno i 200 milioni di euro annui a partire dal 2029. L’obiettivo è di rendere più accessibili i servizi per la prima infanzia, facilitando l’inserimento lavorativo delle madri e riducendo l’onere delle rette scolastiche. Particolarmente rilevante è l’estensione del bonus anche alle famiglie con un solo figlio, superando il limite precedente che privilegiava le famiglie numerose.

Congedo parentale e sostegno alle mamme lavoratrici

Un altro pilastro del ddl Bilancio è rappresentato dall’estensione del congedo parentale retribuito all’80% per tre mesi, fino al sesto anno di vita del bambino. Questa misura amplia di un mese il congedo attuale, e rappresenta un passo avanti verso una maggiore parità di genere nel mondo del lavoro, in quanto offre ai genitori la possibilità di conciliare meglio carriera e famiglia senza dover subire forti perdite economiche.

Per le mamme lavoratrici, viene introdotto un parziale esonero contributivo fino ai dieci anni del figlio più piccolo per chi ha due figli, e fino ai 18 anni per chi ha tre figli o più. Questa misura interesserà sia lavoratrici dipendenti che autonome.

Piano casa e politiche abitative

Infine, l’annuncio di un Piano Casa Italia da approvare entro sei mesi è un segnale forte verso una politica abitativa che risponde ai bisogni delle famiglie. Questo piano promette di rilanciare le politiche abitative, un elemento fondamentale per garantire stabilità e sicurezza alle famiglie italiane, permettendo loro di avere accesso a soluzioni abitative dignitose e sostenibili.

ATTENZIONE - Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.
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Doppio cognome in crescita in Italia, cosa cambia per le...

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Negli ultimi anni, il tema del doppio cognome ha guadagnato sempre più attenzione in Italia, soprattutto dopo la storica sentenza della Corte Costituzionale n. 286 del 21 dicembre 2016. Questa sentenza ha finalmente dato la possibilità ai genitori di attribuire anche il cognome materno ai propri figli, aprendo la strada a un cambiamento culturale nel nostro Paese. Ma quanto hanno accolto questa opportunità gli italiani? I dati Istat del 2023 ci raccontano una storia di crescita, sorprese e differenze geografiche e culturali, dimostrando che il doppio cognome è molto più di una semplice scelta burocratica: è una questione identitaria.

Numeri in crescita

Nel 2023, il 6,2% dei neonati residenti in Italia ha ricevuto un doppio cognome, un dato che segna un notevole balzo rispetto al 2020, quando solo il 2,4% dei bambini portava sia il cognome paterno che materno. Questo incremento di 3,8 punti percentuali in soli tre anni racconta di un fenomeno che sta guadagnando terreno. Non è solo una questione di numeri: dietro questa scelta c’è una crescente consapevolezza da parte dei genitori italiani, che vedono nel doppio cognome un modo per riflettere l’equilibrio tra le due figure genitoriali.

L’aumento è particolarmente evidente nelle regioni del Centro-nord, dove oltre il 7% dei bambini nati nel 2023 porta entrambi i cognomi. Nelle regioni del Sud, invece, il fenomeno è più contenuto, con circa il 4% dei neonati che riceve questa doppia identità. Questa differenza geografica non è casuale e potrebbe essere legata a un mix di fattori culturali e tradizioni radicate, che nel Mezzogiorno sembrano ancora privilegiare una trasmissione più classica del cognome paterno.

Doppio cognome più diffuso tra le neo-famiglie

Uno degli aspetti più affascinanti dei dati riguarda i primi figli. Nel 2023, ben il 9,1% dei primogeniti ha ricevuto il doppio cognome, un incremento di 6,2 punti percentuali rispetto al 2020. Questo dato ci dice molto sul modo in cui i genitori affrontano le prime decisioni legate alla nascita. Sembra che, alla loro prima esperienza, le coppie siano più inclini a sperimentare e a cogliere l’opportunità di attribuire il cognome materno. In contrasto, tra i secondogeniti e terzogeniti le percentuali si abbassano notevolmente, con solo il 3,7% e il 2,8% rispettivamente.

Questo potrebbe dipendere dalla volontà di mantenere una continuità con le scelte fatte per i figli nati prima della sentenza del 2016. I genitori che hanno già assegnato solo il cognome paterno ai figli precedenti sembrano meno propensi a “rompere” la coerenza familiare con l’arrivo di nuovi figli, preferendo conservare la stessa logica di attribuzione. Tuttavia, per i neo-genitori, il doppio cognome rappresenta una novità da esplorare, un simbolo di parità e di modernità.

Chi sceglie di più il doppio cognome?

Guardando alla tipologia di coppie, emergono ulteriori sorprese. Le coppie coniugate sono quelle meno inclini ad attribuire il doppio cognome ai figli, con solo il 4,9% che fa questa scelta nel 2023. Al contrario, le coppie non sposate sembrano molto più aperte all’idea: qui il doppio cognome è scelto nell’8% dei casi. Una percentuale quasi identica (7,8%) si registra anche tra le coppie in cui almeno uno dei genitori ha avuto un matrimonio precedente.

Un altro fattore chiave che incide fortemente sulla scelta del doppio cognome è la cittadinanza dei genitori. I dati Istat mostrano che le coppie miste, in particolare quelle formate da madre italiana e padre straniero, hanno una percentuale altissima di attribuzione del doppio cognome: nel 2023 si arriva al 14,2%. Anche le coppie con madre straniera e padre italiano registrano una percentuale significativa (7,7%), mentre le coppie composte da entrambi genitori italiani si fermano al 6,1%.

Quando si tratta, poi di genitori di origine latinoamericana o spagnola il dato esplode. In questi Paesi, infatti, la tradizione del doppio cognome è già ben radicata e obbligatoria: i figli devono portare il cognome di entrambi i genitori. Quando entrambi i genitori sono latini, la percentuale di nati con doppio cognome raggiunge un impressionante 86,7%. Se uno dei due genitori è latino, la percentuale scende, ma resta comunque alta al 33,1%.

Verso un nuovo standard di parità e riconoscimento

L’introduzione del doppio cognome in Italia sembra destinata a crescere ulteriormente. Pur rappresentando ancora una minoranza, la percentuale di neonati con doppio cognome continua a salire, segno di un cambiamento culturale in corso. Sempre più famiglie scelgono di riconoscere, attraverso il nome, l’importanza di entrambe le figure genitoriali, aprendo la strada a un futuro di maggiore parità e inclusività.

In un Paese che ha storicamente privilegiato il cognome paterno, la crescente diffusione del doppio cognome rappresenta un segnale importante. Potrebbe essere il preludio a una trasformazione più ampia delle dinamiche familiari, dove l’identità, la tradizione e la modernità si incontrano.

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