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Maschietti più distratti, femminucce più concentrate? La scienza risponde

Quante volte i genitori osservano i propri figli e notano differenze nella loro attenzione o modo di riflettere? Da un lato, può capitare che i maschietti siano descritti come distratti, con la “testa tra le nuvole”; dall’altro, spesso le bambine sembrano più centrate, quasi meditative fin da piccole. Ma cosa dice davvero la scienza a proposito delle differenze cognitive e cerebrali tra bambine e bambini? La risposta arriva da una recente ricerca condotta da Lisa Toffoli e Giovanni Mento del Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova, in collaborazione con Gian Marco Duma dell’Irccs E. Medea di Conegliano e Duncan Astle dell’Università di Cambridge. Pubblicato sulla rivista Human Brain Mapping, lo studio mostra come l’attività cerebrale a riposo – associata al funzionamento cognitivo – presenti differenze notevoli già in età prescolare, differenze che sembrano legate al sesso biologico.

Attività cerebrale a riposo

Il team di ricerca ha osservato bambini e bambine di età compresa tra i quattro e i sei anni, studiando il loro cervello in uno stato di riposo – quello in cui non si svolgono attività cognitive attive o compiti specifici. Secondo l’Associazione La Nostra Famiglia, a cui fa capo l’Irccs E. Medea, i ricercatori hanno dimostrato che esiste una relazione diretta tra il cosiddetto “resting state” del cervello e il funzionamento cognitivo quotidiano. Questo significa che, anche quando apparentemente non impegnato, il cervello è già “al lavoro”, elaborando informazioni e stabilendo le basi per le abilità cognitive.

Ma cosa differenzia, a livello neurologico, bambini e bambine? I ricercatori hanno scoperto che, pur non variando significativamente con l’età nella fascia considerata, l’attività cerebrale a riposo presenta differenze tra i sessi. Nelle bambine, ad esempio, la stabilità e la durata delle comunicazioni cerebrali – ossia il modo in cui le informazioni sono trasmesse tra aree cerebrali – risultano più coerenti e mirate rispetto ai coetanei maschi, i quali invece mostrano una maggiore variabilità.

La “testa tra le nuvole” e la concentrazione

La ricerca mette in luce come i maschi tendano ad attivare maggiormente il Default-Mode Network, una rete cerebrale associata a fenomeni di “mind wandering”, ovvero la tendenza a lasciarsi distrarre, a “sognare a occhi aperti”. In parole semplici, è la rete che si accende quando il cervello si concede una pausa dall’attenzione verso l’esterno e indulge in un’attività mentale più libera, non orientata a compiti specifici. Al contrario, nelle bambine sono più attive le aree prefrontali, correlate alla concentrazione e all’attivazione cognitiva. Questo potrebbe spiegare perché, già in età prescolare, le bambine appaiono spesso più “presenti” e focalizzate rispetto ai coetanei maschi.

Inoltre, i ricercatori hanno somministrato ai genitori dei bambini alcuni questionari per verificare i risvolti pratici di queste attivazioni cerebrali. I risultati? I bambini e le bambine con un’attività maggiore nelle aree prefrontali risultano più capaci di regolare il proprio comportamento e le proprie emozioni. Al contrario, coloro che attivano più spesso il Default-Mode Network tendono a manifestare difficoltà maggiori nella gestione delle proprie emozioni e nel comportamento, riscontrando talvolta problemi anche a scuola.

Implicazioni per il neurosviluppo

Secondo Giovanni Mento, autore corrispondente dello studio, queste scoperte potrebbero avere un valore significativo per il trattamento di disturbi del neurosviluppo, come l’autismo e il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Grazie alla capacità di individuare precocemente i target neurali, i ricercatori possono sviluppare interventi terapeutici personalizzati, focalizzati su quegli aspetti neurologici critici nei primi anni di vita, una fase cruciale per il potenziamento delle abilità cognitive e comportamentali.

In particolare, Gian Marco Duma evidenzia che per la prima volta in bambini così piccoli è stata impiegata una tecnica avanzata di machine learning, nota come Hidden Markov Models. Questa tecnologia, applicata ai dati di elettroencefalografia ad alta risoluzione spaziale, ha permesso di monitorare la comunicazione tra aree cerebrali con una precisione di millisecondi, offrendo una visione dettagliata e dinamica delle variazioni nella connettività cerebrale.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.

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Demografica

Papa Francesco: “L’Italia ha bisogno dei migranti perché...

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L’Italia ha bisogno dei migranti per affrontare la denatalità. Papa Francesco è tornato a fare appello alla politica italiana, sul calo delle nascite. Durante il ricevimento dei Missionari di San Carlo, si è partiti dal tema del Giubileo che inizierà il prossimo dicembre 2024: “Pellegrini di speranza”. Ed è stata questa l’occasione per ribadire che dinanzi alla mancanza di neonati, con un tasso di denatalità che cresce, i migranti restano l’unica speranza per il nostro Paese.

“L’Italia ha bisogno dei migranti e deve riceverli, accompagnarli, promuoverli, integrarli”, ha detto Papa Francesco. Ma cosa dicono i dati?

Denatalità, il peso sull’Italia

Le parole di Papa Francesco non sono per nulla sbagliate. La denatalità in Italia (e non solo) ha assunto un peso maggiore negli ultimi anni ponendo una vera e propria sfida al Governo attuale. Come affrontare la mancanza di un ricambio generazionale tra sanità, welfare e lavoro? Molti analisti, demografi e statisti non hanno dubbi: una delle soluzioni è proprio la migrazione.

Si superino “stereotipi escludenti, per riconoscere nell’altro, chiunque sia e da qualunque luogo provenga, un dono di Dio, unico, sacro, inviolabile, prezioso per il bene di tutti”. Questo è l’invito del Papa, ieri 28 ottobre. “Io sono figlio di migranti e a casa abbiamo sempre vissuto quello di andare lì per fare l’America, per progredire, per andare più avanti”, ha detto il Papa. Le persone partono sperando di “trovare altrove il pane quotidiano”, aggiunge citando San Giovanni Battista Scalabrini, e “non si arrendono, anche quando tutto sembra remare contro, anche quando trovano chiusure e rifiuti”.

“Oggi tanti Paesi hanno bisogno dei migranti. L’Italia non fa figli, non fa figli. L’età media è di 46 anni. L’Italia ha bisogno dei migranti e deve riceverli, accompagnarli, promuoverli e integrarli. Dobbiamo dire questa verità”.

La migrazione è una soluzione?

Difficile sperare che le immigrazioni possano essere l’unica soluzione possibile al calo demografico. Altri fattori influenzano il fenomeno, ma demografi e statisti considerano tali flussi migratori una variabile fondamentale per invertire il processo di tendenza dello spopolamento del nostro Paese.

Nel 2023, l’Istat riporta che il saldo migratorio con l’estero complessivo è stato pari a +274mila unità, un guadagno di popolazione ottenuto come effetto di due dinamiche opposte. Da un lato, l’immigrazione straniera, ampiamente positiva (360mila), controbilanciata da un numero di partenze esiguo (34mila), dall’altro, il flusso con l’estero dei cittadini italiani caratterizzato da un numero di espatri (108mila) che non viene rimpiazzato da altrettanti rimpatri (55mila). Il risultato è un guadagno di popolazione di cittadinanza straniera (+326mila) e una perdita di cittadini italiani (-53mila).

Ai dati Istat, si è aggiunta la relazione di giugno del presidente della Banca d’Italia Fabio Panetta secondo il quale, il calo demografico nazionale presenta una sfida crescente, con 5,4 milioni di persone che andranno in pensione entro il 2024 e un afflusso netto previsto di soli 170.000 immigrati.

Questo scenario, secondo Panetta, potrebbe portare a una riduzione del 13% del PIL e del 9% pro capite, evidenziando l’urgenza di affrontare la diminuzione della forza lavoro. Inoltre, tra il 2008 e il 2022, circa 525.000 giovani italiani hanno cercato opportunità all’estero, aggravando il problema del capitale umano. Gli immigrati regolari possono quindi giocare un ruolo cruciale nel sostenere l’occupazione, bilanciando le esigenze produttive con quelle sociali. Con un tasso di occupazione femminile fermo al 52,5%, l’integrazione e il supporto all’occupazione di immigrati e donne rappresentano strategie vitali per compensare il calo demografico e garantire la crescita economica. In questo contesto, gestire in modo efficace il flusso migratorio diventa essenziale per mantenere la stabilità del mercato del lavoro italiano.

Nonostante ciò, la ministra per la Famiglia, Eugenia Maria Roccella, ha dichiarato che l’immigrazione non può sostituire la natalità, sottolineando che il fenomeno denota una mancanza di vitalità nel Paese. In Italia, il 30% delle famiglie è composto da una sola persona e molte coppie non hanno figli. Con un tasso di natalità di 1,24 figli per donna, l’Italia rischia una significativa diminuzione della popolazione entro il 2050. Il governo sta cercando di promuovere la natalità attraverso provvedimenti come l’assegno unico e piani per supportare la nascita di figli, puntando a un cambiamento culturale che faccia percepire avere figli come un valore piuttosto che un ostacolo. Ma per ora le stime del 2024 e quelle del prossimo decennio non sembrano arrestare la crisi in atto.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.
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Demografica

Lucca Comics, Himorta: “Il cosplaying è l’anima della...

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Quelli del Lucca Comics & Games sono i cinque giorni più attesi dell’anno da centinaia di migliaia di italiani e non solo dai più giovani. Quasi duecentomila sono i biglietti già staccati per la fiera internazionale dedicata al fumetto, all’animazione, ai giochi (di ruolo, da tavolo, di carte), ai videogiochi e al mondo fantasy. Anche se “l’anima pulsante del Lucca Comics e anche degli altri eventi a tema è il cosplaying”, racconta a Demografica di Adnkronos Antonella Arpa, in arte Himorta.

Un po’ come il Lucca Comics, prima fiera di settore a livello europeo, Himorta è la cosplayer più seguita d’Italia e d’Europa con oltre 1 milione di follower su Instagram. “Tutto nasce dal senso di umanità” profonda che anima le sue azioni, come quella, tra le altre, di essere ambasciatrice dell’associazione Women in game a sostegno delle discriminazioni di genere.

Lucca Comics, cosplaying e ponti generazionali

Himorta ci svela subito un aspetto poco conosciuti del cosplaying: “Negli ultimi anni sta avvicinando le diverse generazioni in un contesto caratterizzato da grande divisione sociale e intergenerazionale”.

Cosa accomuna i fan di questo mondo che si ritrovano al Lucca Comics. È giusto trovarne la cause nella volontà di evasione, o c’è dell’altro?

“La parte bellissima di Luca è che tu cammini per strada e trovi la barista vestita da Sailor Moon, il commesso vestito da Goku, un altro da Hercules… Le altre fiere di settore, in Italia, sono all’interno di un padiglione, al più dei poli fieristici. A Lucca si trasforma tutta la città, ci sono delle parate, delle sfilate per tutta la città che creano un’atmosfera magica. Quindi più che evasione, io parlerei di elemento nostalgico condiviso dai bambini, dai ragazzi e dagli adulti, che per cinque giorni si immergono in questo mondo fatto di cartoon, di videogiochi, di fumetti, e di cosplay, che sono l’anima della fiera”.

Come approcciano le diverse generazioni al mondo del cosplay?

Per rispondere a questa domanda, Antonella Arpa ci fa un esempio concreto: “Tra la generazione di mia madre e la mia c’è un profondo divario sociale, culturale e tecnologico. Eppure, c’è qualcosa che va oltre le generazioni, oltre le differenze: quando guardiamo una sfilata cosplay, quando sfogliamo un fumetto, quando ci immergiamo in questo mondo, proviamo lo stesso sentimento. Questo perché per quanto siamo diverse e quindi per quanti anni ci possano dividere, abbiamo in comune l’amore per il fumetto e per l’infanzia, perché io amo la mia infanzia, mia madre ha amato la sua. In qualche modo i personaggi dell’infanzia sono quelli che rimangono nel nostro cuore per sempre”. Una passione così forte da trascendere non solo i limiti di età, ma qualsiasi divisione, spiega Himorta: “I cartoni animati fanno parte dell’infanzia di ciascuno di noi e tutti quanti li amiamo indistintamente da chi siamo, uomini, donne, giovani, vecchi, bambini o di qualsiasi etnia o religione. Tutti amiamo i cartoni animati”.

Un tempo erano anche gli orari televisivi a sincronizzarci con i nostri coetanei ad un orario preciso. Come cambia il rapporto con i cartoni animati ora che è finita l’era della tv lineare in favore di quella veloce e on demand del digitale?

“Credo che il ruolo dei cartoni animati spesso venga sottovalutato: io ho imparato molto del linguaggio vedendo i cartoni animati, anche perché prima c’erano molti dialoghi chiari da cui chiunque ha imparato tantissimo”. Oggi la situazione è un po’ diversa e anche la produzione risente spesso della ‘produttività a tutti i costi’. Per Himorta, questo si dovrebbe tradurre in un’attenzione ancora maggiore da parte dei genitori che devono fare “una selezione dei cartoni animati da far guardare ai propri figli”. Per essere precisi, Antonella aggiunge: “non sono madre, ma sicuramente un giorno almeno tutta la carrellata di classici Disney i miei figli la faranno, perché oltre ad essere meravigliosi e farci sognare aiutano tantissimo da un punto di vista educativo e linguistico”.

Purtroppo, anche ma non solo a causa di un work-life balance squilibrato, spesso le cose non vanno così e per molti genitori “passare il tablet al figlio per evitare che pianga è molto più semplice che fare delle attività ludico-ricreative con i propri figli, mentre l’offerta è fuori controllo. Per questo credo che il ruolo dei genitori sia più delicato oggi che qualche anno fa”.

Tu sei molto attiva anche nella lotta al bullismo e cyberbullismo. Secondo la tua esperienza, quali sono i messaggi più efficaci per contrastare queste forme di violenza?

Sul tema Himorta parte da sé stesso e da quello che lei chiede di fare alla sua enorme community. La chiama “Educazione al commento” e risponde a un principio tanto semplice quanto prezioso: essere sempre costruttivi, mai distruttivi. “I commenti che si fanno devono essere positivi, – spiega Antonella – se qualcosa non ci piace scrolliamo, andiamo oltre, perché nel momento in cui noi alimentiamo un commento negativo creiamo il principio del bullismo, che esiste solo se esiste un branco”.

Questo significa anche non dare risalto ai commenti negativi, non dargli alcuna rilevanza. “Se lasciamo quel commento negativo isolato non può crearsi il bullismo”. Il messaggio di Himorta è chiaro: “È una banalità ma è davvero così: se, nel nostro piccolo, tutti iniziamo a fare commenti positivi, creiamo un circolo virtuoso”, la ‘kryptonite’ dei bulli.

“Dobbiamo iniziare a educare dal momento in cui installano i social, dal momento in cui installano Instagram piuttosto che Facebook o piuttosto che YouTube, insegnare all’educazione del commento positivo. È sbagliato parlare di bullo, bisogna parlare di bulli, perché i bulli esistono laddove c’è un contesto fertile per il bullismo”. E noi possiamo fare in modo che non sia così.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.
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Demografica

“Toccare una persona senza il suo consenso non è violenza”:...

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Per metà degli adolescenti la gelosia non è violenza e quasi uno su tre pensa che inviare messaggi insistentemente non sia stalking. Ma quando abbiamo iniziato a considerare la violenza come qualcosa di romantico?

Allo Step FuturAbility District a Milano, la Fondazione Libellula ha presentato la Survey Teen 2024, la nuova indagine condotta dall’impresa sociale nata con lo scopo di agire su un piano culturale per prevenire e contrastare la violenza di genere e ogni forma di discriminazione. Sono 1.592 gli adolescenti tra i 14 e i 19 anni che hanno partecipato al sondaggio e quello che è emerso è allarmante.

Dal grado di consapevolezza alla percezione delle dinamiche relazionali tra i più giovani: scopriamo cosa pensano della violenza e quale sia per loro il confine con l’amore.

Il consenso: una questione di percezione?

Per i giovani che hanno partecipato al sondaggio, non è considerata violenza:
Toccare una persona senza il suo consenso: lo pensa 1 adolescente su 5.
Baciare una persona senza il suo consenso, lo pensa 1 adolescente su 5.
Raccontare ad amici e amiche dettagli intimi del o della partner senza il suo consenso, lo pensa più di 1 adolescente su 4.

“Questi dati riflettono una percezione distorta della violenza di genere e del consenso per una buona parte di adolescenti. Il fatto che il 20-25% di loro non consideri comportamenti come il toccare, baciare o rivelare dettagli intimi senza consenso come violenza è preoccupante, poiché sono chiaramente atti invasivi e non rispettosi dell’integrità personale”, ha spiegato la Fondazione.

Questa visione della violenza è dovuta ad una diffusione della “rape culture”, “una pseudocultura che minimizza gli effetti dello stupro arrivando perfino a colpevolizzare le vittime, abbracciando l’idea che l’uomo sia strutturalmente un predatore e la donna una preda sessuale”.

Naturale conseguenza di questo fenomeno è il “victim blaming”: nei casi di violenza sessuale, la donna che sporge denuncia da vittima diventa oggetto di indagine per l’abbigliamento indossato quando è successo il fatto, la strada percorsa, l’orario di uscita, il numero di partner sessuali avuti, tutte domande che trasferiscono sulla donna la responsabilità di quanto accaduto.

A dare l’esempio ai giovani, però, ci sono sempre gli adulti. Non meraviglia, perciò, che i dati dell’indagine Istat “Stereotipi di genere e immagine sociale della violenza” (2018/2023), confermino questa visione: per il 40% degli uomini è colpa delle donne se vengono violentate; il 39,3% degli uomini è convinto che una donna sia in grado di sottrarsi, se davvero lo vuole, a un rapporto sessuale; il 19,7% degli uomini pensa che siano sempre le donne a provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire, mentre il 10% ritiene che, se una donna dopo una festa accetta un invito e poi viene stuprata, è anche colpa sua. L’11% di uomini e donne ritiene che una donna ubriaca (o sotto effetto di droghe) sia in parte responsabile dello stupro; a pensare la stessa cosa è anche il 14,6% delle donne.

Ma quando abbiamo iniziato a considerare normale la violenza o addirittura a romanticizzarla?

“Romanticizzazione della violenza”

Un terzo del campione dei giovani adolescenti intervistati non riconosce come violenza al o alla partner:
dire quali vestiti può indossare e quali no.
impedire di accettare nuove amicizie online senza averne parlato prima.
chiedere di geolocalizzarsi quando si è fuori e voler sapere sempre con chi è.

A questo si aggiunge il 50% del campione secondo il quale la gelosia non è una forma di violenza. Ma ragazzi e ragazze la pensano allo stesso modo? Il 32% delle ragazze pensano che la gelosia sia il segnale che il o la partner ci tiene. Il 56% dei ragazzi è d’accordo che sia un’espressione dell’amore. Per circa il 40% del campione non è una forma di violenza:
• chiedere al o alla partner di condividere la password dei suoi profili social
controllare di nascosto il cellulare e i profili social altrui.

Per il 40% delle e degli adolescenti telefonare o inviare insistentemente messaggi a una persona che ti piace non è una forma di violenza. “Il fatto che oltre il 40% di chi ha risposto non consideri una forma di violenza il mandare insistentemente messaggi a chi piace – ha spiegato il professor Luca Milani, dell’Università Cattolica di Milano -, ci allerta su quanto anche tra gli e le adolescenti non venga tenuta in considerazione l’esperienza soggettiva di chi riceve i messaggi. Se infatti il comportamento di contatto prosegue anche in presenza di manifesto disagio da parte del/la ricevente (e in questo si può anche includere la assenza di reciprocità), si può configurare un comportamento chiaramente persecutorio, indipendentemente dalle intenzioni di chi invia il messaggio. È come se la “buona intenzione” venga considerata in qualche modo, da chi considera accettabile il comportamento persecutorio, una valida giustificazione per considerare queste azioni “meno gravi” e dunque percepite come assimilabili a una manifestazione di affetto”.

Il peso degli stereotipi

Perdere la testa dopo un tradimento e reagire con violenza o aggressività è comprensibile per 1 adolescente su 4. Una ragazza che picchia un ragazzo è meno grave del contrario per 1 adolescente su 4. Vedere diffuse pubblicamente le foto intime che hai inviato al o alla partner è anche colpa tua per quasi un adolescente su 3. Di questo ne sono più convinti i ragazzi (40%) che le ragazze (19%).

Secondo la Fondazione, questa mancanza di consapevolezza su cosa sia violenza e cosa non lo sia è una percezione legata a stereotipi culturali societari che si apprendono sin dalle prime fasi della vita. Ed è ancora una volta analizzando i dati che ciò emerge con chiarezza:

Nei rapporti spesso le ragazze dicono di no, ma vorrebbero dire di sì: lo pensa 1 adolescente su 3. Solo il 18% delle ragazze ha questa convinzione mentre è il 38% dei ragazzi a pensarla così.
È normale che un ragazzo sia più interessato al sesso rispetto a una ragazza per 1 adolescente su 3. Il 23% delle ragazze la pensa così contro il 28% dei ragazzi. Un ragazzo che non vuole fare sesso con una ragazza probabilmente è gay, secondo il 17% del campione. Ma solo il 5% delle ragazze ha questa convinzione a fronte del 28% dei ragazzi che la pensa così.
Gli uomini hanno bisogno di una donna che si prenda cura di loro per il 36% del campione: 25% delle ragazze è concorde a fronte del 47% dei ragazzi che la pensa così.
Le donne hanno bisogno di un uomo che le protegga: lo pensa il 38% del campione. Ma solo il 27% delle ragazze ha questa convinzione a differenza del 49% dei ragazzi che la pensa così
Ragazzi e ragazze hanno capacità diverse per natura per il 52% del campione. Lo crede il 44% delle ragazze, mentre sale a 60 la percentuale di ragazzi che la pensa così.

“La survey ci dice che sembra sia più difficile per i ragazzi liberarsi dalle gabbie degli stereotipi, dalle norme di maschilità definite “tradizionali”, le quali possono promuovere l’esercizio della violenza e la negazione delle responsabilità – spiegano i ricercatori -. Forse perché negli ultimi anni abbiamo puntato molto (anche se mai abbastanza) sull’empowerment femminile, ricordando alle ragazze che possono essere ciò che vogliono, mentre si è fatto ancora troppo poco per incoraggiare gli adolescenti a esprimersi pienamente”.

Subire una violenza

Subire un episodio di violenza è capitato a 1 adolescente su 3. Sentire commenti espliciti sul proprio corpo capita a 1 adolescente su 3. Ma ragazzi e ragazze hanno la stessa esperienza? Non proprio. Il 43% delle ragazze ha sentito commenti espliciti sul proprio corpo, mentre per i ragazzi riguarda solo il 21% del campione. Così come, ricevere richieste sessuali e attenzioni non desiderate capita a 1 ragazza su 4. Mentre per gli uomini capita ad 1 ragazzo su 10. E lo stesso vale per quanto riguarda ricevere contatti fisici indesiderati da parte di coetanei o coetanee che capita a più di 1 adolescente su 10.

Inoltre, è successo di aver ricevuto strattoni da parte del o della partner a un adolescente su cinque. Come è successo di aver ricevuto pugni, schiaffi o colpi da parte del o della partner a più di 1 adolescente su 10. È successo di vedersi lanciati addosso oggetti dal o dalla partner a quasi 1 adolescente su 10.

Dove si verificano più frequentemente episodi di violenza? Il luogo più a rischio di molestie e violenze è la strada secondo 7 adolescenti su 10: nello specifico, lo pensa il 75% delle ragazze e il 62% dei ragazzi è d’accordo.

I social network sono più pericolosi dei mezzi di trasporto pubblici. Sono soprattutto le teenager femmine a pensarlo (71% contro il 57% dei ragazzi). La scuola è più pericolosa per i teenager maschi che femmine (34% contro il 24%). La scuola è anche il luogo dove può avvenire il cambiamento culturale: 3 adolescenti su 4 reputano che qui si debba parlare di violenza di genere.

Durante l’evento di presentazione, relatori come Giuseppe Di Rienzo, direttore generale di Fondazione Libellula, Elena Panzera, presidente Aidp Lombardia, e con la moderazione di Valeria Ciardiello, hanno discusso dell’importanza di agire con urgenza per educare le nuove generazioni al rispetto e al consenso, coinvolgendo scuole, famiglie e aziende per prevenire la violenza di genere

“Il fatto che quest’anno alla Survey abbiano risposto più di 1.500 adolescenti tra i 14 e i 19 anni ci dimostra che c’è volontà di parlare di questi argomenti” – dichiara Giuseppe Di Rienzo, direttore generale di Fondazione Libellula. “A noi spetta coinvolgere gli agenti educativi per parlarne con consapevolezza e competenza: la scuola, ma anche le aziende, di cui spesso sottovalutiamo il ruolo culturale. Il nostro approccio è quello di creare una sinergia tra tutte le parti coinvolte, adolescenti, famiglie, scuole, associazioni e aziende, per portare soluzioni che abbiano un impatto concreto per prevenire e contrastare la violenza di genere”.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.
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