Casalinghe e/o casalinghi, chi è oggi l’‘angelo del focolare’
L’immagine tradizionale della casalinga – associata alla dedizione esclusiva alla casa e alla famiglia – sta cambiando, sfumandosi in una figura più complessa e sfaccettata. Ma chi sono le persone, giovani e adulte, che oggi decidono o sono portate a dedicarsi alle faccende domestiche? E come si intrecciano queste vite con i cambiamenti sociali ed economici del nostro tempo? Nel 2016, un’indagine Istat contava 7 milioni 338 mila le donne in Italia, di almeno 15 anni, che si dichiaravano casalinghe, un numero che ha mostrato un calo di 518 mila unità rispetto al 2006. Questi dati, seppur datati, offrono un quadro utile per comprendere le dinamiche attuali. Stefania Negri, ricercatrice Adapt e senior fellow, sottolinea ad Adnkronos Labitalia l’importanza di aggiornare costantemente queste informazioni, affermando che oggi è necessario consultare i database dell’Istat per ottenere un’immagine più attuale e inclusiva, considerando anche i casalinghi maschi.
La categorizzazione delle casalinghe ha una lunga storia che riflette le trasformazioni socio-economiche della nostra società. In particolare, la divisione del lavoro ha sempre avuto una forte connotazione di genere, con aspettative e compiti ben definiti per uomini e donne. Nelle società preindustriali, uomini e donne si integravano nelle attività lavorative, contribuendo entrambi alla sussistenza della famiglia. Con l’avvento della rivoluzione industriale, tuttavia, questo equilibrio si è rotto. Gli uomini sono stati spinti verso il lavoro nelle fabbriche, mentre le donne hanno mantenuto un ruolo domestico, contribuendo a stabilire una netta separazione tra lavoro produttivo e riproduttivo.
La figura della casalinga nella storia
Con l’affermarsi del capitalismo industriale, le dinamiche di potere tra i generi sono state profondamente influenzate. Gli uomini, abbandonando le campagne per le fabbriche, hanno conquistato un nuovo status sociale, mentre le donne sono state relegate all’ambiente domestico. Gary Becker, noto economista, ha sostenuto che il matrimonio è diventato un contratto volto a proteggere le donne, permettendo loro di specializzarsi nelle mansioni domestiche senza timore di essere abbandonate. Tuttavia, questa visione, seppur storicamente significativa, ha anche contribuito a confinare le donne in un ruolo di subordinazione e dipendenza economica. Così Chiara Altilio, Ilaria Fiore, Silvia Loponte, Giorgia Martini, phd candidates Adapt – Università di Siena, ripercorrono l’evoluzione storico-sociale del lavoro di cura domestico
L’immagine della casalinga si è così cristallizzata nella cultura popolare, identificata storicamente con il concetto di “madre di famiglia”, utile alla collettività per il suo contributo all’allevamento dei figli. Questa visione ha avuto ripercussioni significative sulla costruzione del welfare state, dove il lavoro domestico è stato spesso considerato come un’attività secondaria e non retribuita. Nonostante l’importanza sociale del lavoro di cura, le politiche per la famiglia sono rimaste marginali nei sistemi di welfare.
Negli anni ’70, il femminismo italiano ha iniziato a contestare queste narrazioni, con la richiesta di un salario per le casalinghe che mirava a riconoscere il valore del lavoro domestico. Il dibattito si è quindi spostato sulla necessità di socializzare il lavoro di cura attraverso servizi pubblici, al fine di liberare le donne da un fardello pesante e non riconosciuto. Questo movimento ha gettato le basi per l’emergere di un mercato del lavoro di cura, in cui compiti precedentemente affidati alle casalinghe sono stati esternalizzati a lavoratori, spesso in condizioni di vulnerabilità.
Le trasformazioni socioeconomiche e culturali che hanno caratterizzato l’ultimo secolo hanno ridisegnato il panorama delle responsabilità familiari. Con l’aumento dell’occupazione femminile e il progressivo invecchiamento della popolazione, si è assistito a una crescente domanda di servizi di cura. Questo ha portato a una nuova configurazione dei ruoli, in cui il modello tradizionale della casalinga è stato messo in discussione, aprendo spazi per una maggiore condivisione delle responsabilità familiari e domestiche.
I dati attuali
Analizzando i dati più recenti, risulta chiaro che il numero di casalinghe continua a diminuire. Nel 2023, le donne che si dichiarano casalinghe sono circa 6,2 milioni, rappresentando il 41,43% delle donne inattive, mentre gli uomini inattivi nella stessa fascia di età si attestano a solo lo 0,009%. Questo calo è particolarmente marcato nel sud Italia, dove si concentra il 50,7% delle casalinghe italiane, evidenziando un divario territoriale significativo.
Inoltre, l’inattività femminile è fortemente influenzata dalla presenza di figli. Secondo i dati dell’Istat, per il 73% delle giovani casalinghe (15-34 anni), la motivazione per non cercare lavoro è di natura familiare. Anche il tasso di occupazione femminile rimane basso, attestandosi al 52,5%, contro il 70,4% degli uomini nella fascia di età 15-64 anni. Questo divario, seppur in riduzione, rimane un tema di preoccupazione e riflessione, poiché il carico delle responsabilità familiari è ancora prevalentemente a carico delle donne.
La questione della casalinga non è esclusivamente un fenomeno italiano, ma si colloca in un contesto europeo più ampio. Dati Eurostat mostrano che l’Italia ha una delle più alte percentuali di donne inattive nell’Unione Europea, superata solo dalla Romania. La percentuale di donne inattive in Italia è del 42,3%, rispetto alla media europea del 29,8%. Questo dato evidenzia la necessità di politiche più efficaci per promuovere l’occupazione femminile e ridurre il divario di genere.
L’analisi del tempo dedicato alle attività domestiche rivela ulteriormente l’ineguaglianza di genere. Le donne italiane dedicano in media oltre 5 ore al giorno a queste attività, rispetto a poco più di 2 ore per gli uomini. Questo divario di 2 ore e 47 minuti è il più alto nell’Unione Europea e sottolinea l’inequità persistente nella distribuzione delle responsabilità familiari.
Nonostante i progressi, il modello di casalinga è ancora presente, soprattutto in alcune fasce demografiche e territoriali. Tuttavia, il cambiamento è in atto.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato dall’agenzia Adnkronos. Sbircia la Notizia Magazine non è responsabile per i contenuti, le dichiarazioni o le opinioni espresse nell’articolo. Per qualsiasi richiesta o chiarimento, si prega di contattare direttamente Adnkronos.Demografica
#Childfree, cos’è il trend TikTok che parla di chi non...
“Perché non vuoi avere figli?” Inizia sempre con questa domanda uno dei dibattiti più accesi tra le nuove generazioni. La risposta è nell’hashtag “#Childfree”. Diventato un vero e proprio slogan social, “Child free” si è diffuso su piattaforme come TikTok, ad esempio, che ha raccolto sotto questa espressione tutte le testimonianze delle donne o di giovani coppie che decidono deliberatamente di non voler avere figli o che, per motivi diversi, non possono averne.
Ma oltre ad essere un semplice hashtag social, è anche un vero e proprio movimento e un fenomeno radicalmente diffuso da oltre 60 anni, con una Giornata internazionale dedicata che cade il primo agosto di ogni anno e che è nata proprio per rivendicare la libertà di coloro che scelgono di non avere figli.
Come nasce “#Childfree”?
L’espressione Child free, a differenza di “Child less (cioè chi non può avere figli, ma li desidera)”,
ha lo scopo di enfatizzare sull’intenzione e la volontà di non avere figli. Una scelta, insomma, che ha ripercussioni sociali e culturali su chi la prende e che oggi è tornata ad essere al centro del dibattito politico per le ripercussioni che ha anche sulla società e sul futuro della popolazione.
Anche se possa sembrare un termine diffusosi da poco, in realtà questa affermazione di una scelta di vita ben precisa pone le sue basi nella letteratura sociologica sin dagli anni ’60. L’espressione si è diffusa di pari passo con l’uso della pillola anticoncezionale, strumento usato dalle donne per avere il controllo sulle proprie scelte riproduttive, compresa quella di non avere figli.
Due attiviste di questo movimento, Ellen Peck e Shriley Radl, hanno fondato la National Organization for Non-Parents, nel 1972, che difende il diritto dei “senza figli per scelta”. In America, questo movimento fu ampiamente criticato da chi riteneva che la genitorialità fosse una caratteristica distintiva della famiglia americana tradizionale, ma più in generale dei valori occidentali.
Poiché questa scelta è stata culturalmente associata alla mancanza del desiderio di maternità, la maggior parte degli studi e delle statistiche sul fenomeno hanno per anni analizzato la percentuale di donne, e non di uomini, che intendeva rinunciare alla genitorialità.
A spiegare le cause di questi stereotipi è stata recentemente Kisten Varian, dottoressa dell’Istituto di salute comportamentale di Parkview, Fort Wayne, Indiana (Stati Uniti), studiosa del fenomeno “Child free”, secondo la quale, le persone che prendono volontariamente la decisione di non avere figli vengono “poi viste sotto una luce negativa”. Sono etichette che vanno dall’egoismo, all’innaturalezza della scelta, così come la manifestazione di un’insoddisfazione e infelicità relazionale.
“Tuttavia – ha spiegato la dottoressa Varian -, nessuna di queste ipotesi è necessariamente vera. Inoltre, gli studi hanno scoperto che le donne senza figli hanno semplicemente valori e atteggiamenti diversi rispetto alle madri o alle donne che vogliono avere figli. Le coppie senza figli sono anche percepite come aventi una soddisfazione coniugale più bassa rispetto alle coppie con figli, il che non è automaticamente vero, poiché i genitori negli anni di crescita dei figli hanno una soddisfazione coniugale significativamente inferiore rispetto ai non genitori”. A rilevare questo grado di soddisfazione sono stati gli studiosi J.M. Twenge, W. K. Campbell e C.A. Foster, in una ricerca dal titolo “Genitorialità e soddisfazione coniugale: una revisione meta-analitica, pubblicata nel 2003 sul Journal of Marriage and Family.
Perché ci sono persone che non vogliono avere figli?
Le motivazioni dietro la scelta di non avere figli includono un desiderio di libertà o di concentrarsi sugli obiettivi professionali, ma recentemente si sono aggiunte preoccupazioni riguardante i cambiamenti climatici, pandemie globali e crisi geopolitiche internazionali.
In uno studio sui modelli di maternità, in un campione rappresentativo a livello nazionale, Heaton et al. (1999) hanno scoperto che, mentre alcuni adulti sono rimasti “coerentemente childfree” nel tempo, altri che inizialmente intendevano avere figli hanno poi cambiato idea e deciso di non averne. Ma la maggior parte delle indagini quantitative in questo settore non distingue tra chi è volontariamente e involontariamente senza figli, riducendo all’essere o non essere genitore la dimensione del fenomeno.
Studiosi italiani, invece, quali Christian Agrillo e Cristian Nelini, entrambi docenti del dipartimento di Psicologia generale dell’Università di Padova, nel 2008, hanno esaminato il motivo per cui alcuni adulti decidano di non avere figli in uno studio dal titolo “Childfree by choice: a review”. Tra le motivazioni, configuravano come prioritarie forze macrosociali, come la crescente partecipazione delle donne al mondo del lavoro e microsociali come l’autodeterminarsi come “child free” semplicemente per avere maggior libertà e autonomia.
Oggi, per comprendere al meglio cosa ci sia dietro questo fenomeno è sufficiente cercare online hashtag come #childfreetok, #childfreebychoice e #nothavingkids, presenti su TikTok da un po’ di tempo, hanno guadagnato molta più popolarità negli ultimi anni.
La scrittrice Adrienne Rich ha raccolto nella sua produzione letteraria le motivazioni, gli scenari, le cause, le ripercussioni e la dimensione del fenomeno Child Free. In Of Woman Born, uno dei suoi libri più famosi, scrive: “Le madri: che vanno a prendere i figli a scuola; che siedono in fila durante le riunioni genitori-insegnanti; che calmano i neonati stanchi nei passeggini del supermercato; che tornano a casa per preparare la cena, fare il bucato e accudire i bambini dopo una giornata di lavoro; che lottano per ottenere un’assistenza dignitosa e aule vivibili per i loro figli; che aspettano gli assegni di mantenimento mentre il padrone di casa minaccia lo sfratto; che rimangono di nuovo incinte perché la loro unica via di fuga verso il piacere e l’abbandono è il sesso; che si infilano lunghi aghi nelle loro delicate parti interiori; che vengono svegliate dal pianto di un bambino dai loro sogni esteriormente incompiuti: le madri, se potessimo guardare nelle loro fantasie, nei loro sogni ad occhi aperti e nelle loro esperienze immaginarie, vedremmo l’incarnazione della rabbia, della tragedia, dell’energia sovraccarica dell’amore, della disperazione inventiva, vedremmo il meccanismo della violenza istituzionale lacerare l’esperienza della maternità”.
In sintesi, dietro questo fenomeno confluiscono forze sociali e culturali che variano negli anni e nei contesti geografici, ma che in tutto il mondo occidentale restituisce un quadro chiaro e preciso della consapevolezza che c’è dietro questa scelta e del peso che possa avere su di sé e sugli altri. Un principio di autodeterminazione, insomma, che sotto il vocabolo “Child free” ha trovato tutta la sua espressione massima di protesta.
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Debiti per oltre mezzo milione, coppia di anziani “salvata”...
Rischiavano di vedere la propria vita cadere a picco i due anziani che, dopo il fallimento imprenditoriale, avevano accumulato un debito di oltre mezzo milione di euro. Una situazione debitoria insostenibile, che il tribunale di Treviso ha cancellato con la cosiddetta “legge anti-suicidi” concedendo l’esdebitazione totale a una coppia di settantenni di Casale sul Sile.
I due pensionati si trovavano da anni in condizioni di estremo disagio economico. La legge anti-suicidi, che permette a privati e piccoli imprenditori di ottenere la cancellazione dei debiti in casi di gravi difficoltà economiche, ha permesso all’anziana coppia di ottenere una nuova opportunità di vita, senza più l’incubo di un debito insostenibile.
Treviso, il caso della coppia di anziani indebitati
I due anziani avevano accumulato i debiti per i canoni non pagati su un leasing per macchinari, beni strumentali per l’azienda, poi fallita, di carpenteria metallica di cui loro erano soci, ma che era gestita dal figlio.
La loro era una società in forma semplice e quindi, in quanto società di persone, non prevedeva distinzione tra il capitale dei soci e il capitale della società: i due anziani rispondevano con responsabilità patrimoniale illimitata; l’esposizione e i relativi interessi passivi dei canoni superavano di gran lunga la loro pensione. Peraltro, dopo il fallimento dell’attività, i due anziani, che possono contare solo sulle entrate del marito – in quiescenza – e sulla piccola pensione di invalidità della moglie, si erano trovati non solo in ristrettezze economiche ma praticamente strozzati dal leasing non pagato.
L’applicazione della legge anti suicidi da parte del tribunale di Treviso mette in luce l’importanza di un aiuto concreto per chi si trova in situazioni di sovraindebitamento, dimostrando come, in casi estremi, sia possibile chiedere il supporto del sistema giuridico.
Già seguiti dai servizi sociali, i due anziani hanno ricevuto anche l’appoggio economico del Comune di Casale sul Sile per avviare la procedura. Il sindaco Stefania Golisciani ha sottolineato che il caso rappresenta “un segnale di speranza” per chi si trova in situazioni simili, consentendo di guardare al futuro con una rinnovata serenità.
Come funziona la legge anti-suicidi
La cosiddetta “legge anti-suicidi”, entrata in vigore nel 2012, è uno strumento fondamentale per privati e piccoli imprenditori che si trovano in gravi difficoltà economiche. Questa legge consente di ottenere una cancellazione parziale o totale dei debiti, in base alla valutazione del tribunale, purché il debitore dimostri di non avere i mezzi per adempiere agli obblighi finanziari e di non aver agito in malafede o con colpa grave.
La Legge 3/2012 consente la cancellazione di diversi tipi di debiti all’interno delle procedure di sovraindebitamento, tra cui quelli con:
- Banche e istituti finanziari, come mutui e prestiti personali;
- Fornitori e privati, come quelli relativi al condominio o il caso dell’anziana coppia di Casale sul Sile;
- Debiti con le Pubbliche Amministrazioni, inclusi quelli con l’Agenzia delle Entrate e Equitalia.
Non possono essere eliminati tramite questa legge i debiti di mantenimento, come gli “alimenti” non pagati al coniuge separato o divorziato.
Il processo di esdebitazione inizia con la presentazione della domanda a un Organismo di Composizione della Crisi (Occ), che analizza la situazione del richiedente e formula un piano di risanamento o un accordo con i creditori. Se il tribunale approva la richiesta, il debitore non è più soggetto alle azioni di recupero crediti, e in alcuni casi il debito viene cancellato definitivamente. Questa procedura è stata ideata per offrire un’opportunità concreta a chi rischia di essere travolto dai debiti, spesso causa di gravi disagi personali e sociali. Durante la procedura di risoluzione della crisi, è fondamentale elencare tutti i debiti detenuti e dichiarare tutti i beni posseduti.
La coppia ha ottenuto l’omologazione della richiesta ai sensi del “Codice della Crisi”, introdotto nel sistema normativo italiano nel 2019.
Suicidi e crisi economica: una realtà preoccupante in Italia
In Italia, i suicidi legati a situazioni di sovraindebitamento e crisi economica sono una questione allarmante e poco discussa. I dati dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) indicano un tasso di suicidi di 7,2 casi ogni 100.000 abitanti, con una forte variabilità tra Nord e Sud e un’incidenza maggiore tra gli uomini nella fascia d’età 25-69 anni. Secondo l’Iss, nel 2020 si sono registrati 3.879 suicidi in Italia, con una percentuale significativa di questi legati alla crisi economica e ai problemi finanziari, aggravati dalla pandemia di Covid e dall’aumento dell’inflazione a cui non è corrisposto l’aumento dei salari.
Studi epidemiologici e ricerche sul tema confermano che, in periodi di recessione o difficoltà economiche, il tasso di suicidi tende a salire, specie tra coloro che si trovano in condizioni di vulnerabilità finanziaria. La correlazione tra crisi economica e rischio suicidario è stata documentata anche da organizzazioni internazionali come l’Oms, che ha evidenziato la necessità di misure preventive e di supporto per chi vive situazioni di debito insostenibile. Il supporto psicologico e la consapevolezza delle risorse legali a disposizione, come la legge anti-suicidi, possono scongiurare un esito tragico della vicenda.
Il ruolo della consapevolezza
La vicenda della coppia di Casale sul Sile offre uno spunto di riflessione sull’importanza di rafforzare i meccanismi di supporto per le persone indebitate e promuovere la consapevolezza degli strumenti disponibili. Molti cittadini in difficoltà, infatti, non sono a conoscenza della legge anti-suicidi e delle procedure di esdebitazione che potrebbero offrire una seconda possibilità. In un Paese dove la cultura del fallimento personale è ancora vista come uno stigma, è essenziale migliorare la comunicazione e l’accessibilità di tali strumenti.
L’esdebitazione totale ottenuta dai due anziani non solo rappresenta un aiuto concreto in termini economici, ma può servire da modello per altre situazioni analoghe, portando alla luce l’importanza di un sistema di assistenza che unisca sostegno legale, sociale e psicologico. In una società sempre più segnata dalle incertezze economiche, dove il lavoro è sempre più povero, diventa fondamentale che il diritto a una seconda possibilità sia riconosciuto e applicato in modo efficace, evitando che l’oppressione dei debiti possa spingere le persone verso situazioni di disperazione.
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Gli utensili e i giocattoli di plastica nera sono...
Se anche voi nella vostra cucina avete degli utensili di plastica nera, mettetevi comodi.
Una nuova ricerca condotta da Megan Liu di Toxic-Free Future, pubblicata sulla rivista Chemosphere, ha messo in luce un grave rischio per la salute legato agli utensili da cucina in plastica nera, spesso presenti nelle nostre cucine. Il rischio riguarda anche i bambini, che spesso mettono in bocca gli oggetti che si trovano tra le mani, siano essi giocattoli, utensili o qualsiasi altra cosa.
Il team di ricerca ha analizzato oltre 200 oggetti domestici, come mestoli, spatole, contenitori per alimenti e appunto giocattoli per bambini, rilevando la presenza di ritardanti di fiamma nell’85% dei prodotti. L’obiettivo è evitare che gli oggetti, esposti al calore, prendano fuoco o si sciolgano e questi composti chimici, come il bromo, sono particolarmente usati nell’industria elettronica per rendere ignifughi i materiali. Ora la ricerca di Toxic-Free Future lancia l’allarme: questi prodotti sono un grave rischio per la salute, soprattutto a contatto con il cibo.
Ritardanti di fiamma e rischi per la salute
Il principale problema dei ritardanti di fiamma negli utensili da cucina è legato al riciclo dei materiali: la plastica nera utilizzata in questi prodotti proviene infatti da scarti di elettrodomestici, come vecchi televisori e computer, trattati in precedenza con sostanze ignifughe. Come evidenziato da Megan Liu, “i ritardanti di fiamma possono disperdersi facilmente, e i bambini, ad esempio, mettono spesso i giocattoli in bocca”. Da qui l’urgenza di migliorare la regolamentazione sui materiali che entrano nei cicli di riciclo, per evitare che sostanze nocive arrivino nei prodotti domestici.
Attualmente, il processo di separazione delle plastiche riciclate non distingue tra plastica trattata e non trattata, portando quindi alla produzione di utensili domestici con composti chimici potenzialmente pericolosi per la salute. Questo fenomeno è particolarmente problematico per gli utensili neri, poiché i sistemi di separazione dei rifiuti non sono in grado di identificare correttamente il pigmento nero, rendendo difficile l’isolamento dei materiali pericolosi.
Un rischio domestico sottovalutato
I ritardanti di fiamma, oltre a ridurre l’infiammabilità dei materiali, presentano però anche effetti collaterali significativi. Alcuni di questi composti sono classificati come interferenti endocrini e possono alterare il sistema ormonale umano, aumentando il rischio di patologie della tiroide, cancro e altre malattie croniche come il diabete. Uno studio precedente, pubblicato su Jama Network Open, ha rilevato che i livelli elevati di eteri difenile polibrumati (Pbde) – una classe di ritardanti di fiamma – sono associati a un aumento del rischio di cancro del 300%.
I ritardanti di fiamma presenti in plastica nera usata per cucinare possono migrare facilmente nel cibo, soprattutto in presenza di calore. Una ricerca del 2018 ha dimostrato che questi composti possono trasferirsi nei grassi alimentari, come l’olio di cottura, rendendo il consumo di cibo cucinato con questi utensili potenzialmente dannoso per la salute.
Oltre agli utensili da cucina, i ritardanti di fiamma sono stati trovati anche in giocattoli per bambini e contenitori alimentari in plastica nera. A differenza degli adulti, i bambini sono particolarmente vulnerabili, poiché tendono a portare in bocca gli oggetti, aumentando il rischio di esposizione. Inoltre, questi composti chimici possono accumularsi nella polvere domestica, entrando così nel nostro sistema respiratorio.
Come limitare l’esposizione
L’enorme diffusione di oggetti di plastica nera nelle nostre case preoccupa diversi gli italiani, o almeno quelli che hanno letto di questa ricerca. Allora cosa si può fare per ridurre il rischio di ammalarsi o di fare ammalare i propri figli?
Gli esperti di Toxic-Free Future suggeriscono due semplici accorgimenti:
- sostituire utensili da cucina in plastica nera con materiali alternativi come l’acciaio inossidabile o il silicone, che non rilasciano sostanze tossiche;
- non usare o ridurre l’utilizzo dei contenitori alimentari in plastica nera, compresi i coperchi di plastica nera per le bevande da asporto, soprattutto se si prevede di riscaldare il cibo.
Un allarme per la regolamentazione e il futuro del riciclo
La scoperta della diffusione di sostanze tossiche nella plastica nera evidenzia la necessità di una maggiore regolamentazione e trasparenza nei processi di riciclo. Come ha affermato Megan Liu, l’attuale mancanza di controlli chimici sui materiali riciclati rischia di rendere inadeguato un sistema che dovrebbe invece promuovere la sostenibilità e la sicurezza.
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