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Long covid nascosto, lo scopre l’intelligenza artificiale: oltre 1 su 4 ha sintomi

L'algoritmo sviluppato dagli scienziati Usa ha riscontrato i sintomi nel 22,8% della popolazione

Un laboratorio

L'intelligenza artificiale in soccorso della medicina per un''operazione verità' sul Long Covid, quel mix di sintomi in parte ancora misteriosi che molte persone contagiate da Sars-CoV-2 continuano a lamentare anche quando l'infezione vera e propria è ormai un lontano ricordo. Tosse cronica, affaticamento, mente annebbiata sono solo alcune delle facce con cui si presenta la sindrome post-virus, una condizione ben più diffusa di quanto oggi si riesca a comprendere.

A confermarlo sono i ricercatori americani del Mass General Brigham, che hanno messo a punto un algoritmo Ai capace di 'stanare' nelle cartelle cliniche i casi di Long Covid sommerso. Il nuovo approccio, basato sulla cosiddetta fenotipizzazione di precisione e descritto su 'Med', suggerisce che "il 22,8% manifesta i sintomi del Long Covid": quasi 1 persona su 4, contro meno di 1 su 10 come indicavano ricerche precedenti. "Una cifra che potrebbe dipingere un quadro più realistico del tributo a lungo termine che paghiamo alla pandemia", affermano gli autori dello studio, finanziato dagli Usa attraverso gli Nih e da istituzioni/enti in Germania.

Il ruolo dell'Ai

"Il nostro strumento di Ai potrebbe trasformare un processo diagnostico nebuloso in qualcosa di nitido e mirato, dando ai medici la possibilità di dare un nome a una condizione difficile" da inquadrare e riconoscere, spiega l'autore senior Hossein Estiri, responsabile della ricerca sull'intelligenza artificiale presso il Center for Ai and Biomedical Informatics of the Learning Healthcare System (Caibils) del Mass General Brigham e professore associato di medicina alla Harvard Medical School.

"Con questo lavoro potremmo finalmente essere in grado di vedere il Long Covid per quello che è veramente e, cosa ancora più importante, capire come trattarlo". Lo studio indica infatti che "la prevalenza del Long Covid potrebbe essere notevolmente sottovalutata", e grazie all'algoritmo Ai potrebbe contribuire a "una strategia di assistenza personalizzata" e a "ridurre le disuguaglianze e i pregiudizi" che 'viziano' il processo diagnostico della sindrome post-Covid.

Estiri e colleghi sono partiti determinando un criterio per la diagnosi di Long Covid: il quadro patologico non poteva essere spiegato altrimenti, si associava a una precedente infezione da Sars-CoV-2 e persisteva per almeno 2 mesi nell'ambito di un follow-up di 12 mesi. L'algoritmo di intelligenza artificiale è stato sviluppato estraendo dati anonimizzati dalle cartelle cliniche di quasi 300mila pazienti in 14 ospedali e 20 centri sanitari comunitari del network Mass General Brigham. Per individuare il Long Covid l'Ai ha utilizzato un metodo elaborato e fornitole dagli stessi ricercatori, detto appunto fenotipizzazione di precisione: esaminava le singole cartelle per identificare sintomi collegati a Covid-19, quindi li monitorava nel tempo per distinguerli da altre malattie. La mancanza di respiro, ad esempio, può derivare da patologie preesistenti come insufficienza cardiaca o asma: solo quando ogni altra possibile opzione era stata scartata, l'Ai segnalava il paziente come affetto da Long Covid.

I risultati dello studio

Ed ecco i risultati: "Mentre altri studi diagnostici hanno suggerito che circa il 7% della popolazione soffre di Long Covid, il nuovo approccio indica una stima molto più alta", che sfiora il 23% e "appare più in linea con i trend nazionali", riferiscono gli scienziati.

I ricercatori hanno calcolato che il loro strumento era "circa il 3% più accurato" rispetto al codice diagnostico ufficiale Icd-10. Codice, quest'ultimo, che fra l'altro tende intercettare il Long Covid soprattutto nei gruppi di popolazione con un miglior accesso all'assistenza sanitaria, rischiando di discriminare le persone più svantaggiate. Quelle "spesso emarginate negli studi clinici", evidenzia Estiri, mente l'Ai potrebbe contribuire a far sì che "non siano più invisibili". E per "i medici, che sono sottoposti a carichi di lavoro intensi e si trovano spesso a doversi districare fra sintomi e anamnesi, incerti su quali fili tirare dentro una rete contorta - osserva Alaleh Azhir, co-autore principale dello studio, internista al Brigham Women's Hospital e membro fondatore del Mass General Brigham - avere uno strumento basato sull'intelligenza artificiale, che può fare questo lavoro per loro e con metodo, potrebbe cambiare le carte in tavola".

Gli autori precisano che il loro studio ha dei limiti, uno fra tutti quello di essere stato condotto solo su pazienti del Massachusetts. Tuttavia intendono mettere a disposizione il loro algoritmo di Ai a medici e sistemi sanitari a livello globale. Studi futuri potrebbero esplorarne l'applicazione anche in coorti di pazienti con condizioni specifiche, come la broncopneumopatia cronica ostruttiva Bpco o il diabete. "Oltre ad aprire le porte a una migliore assistenza clinica, questo lavoro potrebbe gettare le basi per future ricerche sui fattori genetici e biochimici alla base dei vari sottotipi di Long Covid", prospettano gli scienziati. "Le domande sul vero impatto di questa sindrome, finora eluse, adesso sembrano avere risposte più a portata di mano", chiosa Estiri.

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Salute e Benessere

Prematuro 1 neonato su 10, ‘fino al 50% rischia...

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Neonato prematuro in incubatrice

Nel mondo circa 1 neonato su 10 nasce pretermine, cioè prima della 37esima settimana di gestazione che è il tempo necessario al feto per completare lo sviluppo nell'utero materno. Per l'Italia la percentuale di bebè nati prima del tempo è intorno al 6,3% secondo il Rapporto Cedap 2022, per un totale di circa 24mila neonati pretermine: in maggioranza (75,3%, oltre 3 su 4), venuti alla luce tra la 34esima e la 36esima settimana gestazionale, ma con uno 0,9-1% molto o estremamente pretermine, 'bimbi piuma' nati sotto le 32 settimane di gestazione. In vista della Giornata mondiale della prematurità in calendario il 17 novembre, sono questi i dati ricordati dalla Società italiana di neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza (Sinpia) che avverte: "I disturbi del neurosviluppo sono una delle conseguenze più frequenti della nascita pretermine". Li rischia fino a 1 bebè prematuro su 2.

"Nel neonato pretermine - spiegano i neuropsichiatri dell'infenzia - anche quando non ci sono lesioni cerebrali visibili con le tecniche di neuroimaging più utilizzate, il sistema nervoso che si sviluppa e matura in un ambiente molto diverso da quello fisiologico si trova in qualche modo 'impreparato' ad affrontare la vita extrauterina in un momento cruciale in cui avviene la massima crescita e maturazione delle connessioni cerebrali, e facilmente va incontro a fenomeni lesionali e/o dismaturativi, con un'alterazione dei circuiti cerebrali che sottendono alle funzioni adattive". Se "esiste ancora una quota di bambini pretermine, nati di peso estremamente basso, che sviluppa deficit di tipo motorio come paralisi cerebrale infantile (dal 5% al 10%), una percentuale che va dal 25% al 50% dei nati pretermine può presentare ritardi di sviluppo, disabilità cognitiva di varia gravità, problemi comportamentali, deficit dell'attenzione e/o iperattività, difficoltà di regolazione delle emozioni, disturbi dello spettro autistico".

"La nascita pretermine - commenta la presidente Sinpia Elisa Fazzi, direttore Uo Neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza (Uonpia) Asst Spedali Civili e docente all'università di Brescia - resta una condizione di rischio per lo sviluppo delle funzioni del sistema nervoso centrale", perché "all'aumento delle possibilità di sopravvivenza non corrisponde anche una diminuzione delle problematiche presentate a distanza rispetto al neurosviluppo". Piuttosto, "negli anni abbiamo assistito a un cambiamento delle conseguenze neuropsichiche della nascita prematura: a fronte di una riduzione delle gravità delle problematiche motorie e cognitive (come le paralisi cerebrali e la disabilità intellettiva grave), un tempo le più temute, assistiamo a un aumento di problemi legati alla coordinazione motoria, alle funzioni attentive, esecutive e di apprendimento, a quelle comunicativo-linguistiche e quelle emotivo-relazionali e sociali. Possiamo quindi dire che un bambino nato pretermine può potenzialmente rappresentare il prototipo di un soggetto a rischio di un disturbo del neurosviluppo". La Sinpia raccomanda di "seguire e accompagnare i bambini e le loro famiglie anche dopo le dimissioni dalla Terapia intensiva neonatale attraverso programmi di follow-up dedicati in cui il neuropsichiatra infantile affianchi il pediatra neonatologo, per individuare precocemente i soggetti più a rischio e avviare in modo tempestivo programmi abilitativi, per informare e sostenere i genitori e continuare il monitoraggio fino all'età scolare quando possono emergere nuove problematiche del neurosviluppo".

"L'impatto di questi deficit" del neurosviluppo nei neonati pretermine "può essere molto significativo - sottolinea Simona Orcesi della Sc Neuropsichiatria infanzia e adolescenza dell'Irccs Fondazione Mondino, docente di Neuropsichiatria infantile all'università di Pavia e membro del direttivo Sinpia - sia sui pazienti e sulle famiglie, sia per i costi a carico dell'assistenza sanitaria pubblica, soprattutto perché si tratta di problematiche le cui conseguenze rischiano di permanere per tutta la vita. Sicuramente - conferma la specialista - negli anni più recenti abbiamo assistito a un cambiamento rispetto allo scenario delle sequele della prematurità: il numero di bambini che crescono senza disabilità gravi è aumentato perché sono diminuite le lesioni cerebrali più gravi, ma una significativa percentuale di soggetti con età gestazionale più bassa è ancora ad alto rischio di uno sviluppo neuropsichico non del tutto ottimale".

"La protezione dello sviluppo cerebrale nei neonati pretermine, intesa come possibilità di prevenire o mitigare gli eventi dismaturativi nell’arco dei primi mesi di vita - rimarca la past president della Sinpia Antonella Costantino, direttore Uonpia Fondazione Irccs Policlinico di Milano - è fondamentale perché il cervello in questa precoce fase evolutiva ha una caratteristica determinante che è la sua plasticità. Il cervello è in grado quindi di modificare la propria struttura e funzione in base all'esperienza attraverso meccanismi 'epigenetici', influenze ambientali che possono agire sul nostro Dna 'accendendo' o 'spegnendo' determinati geni capaci di influenzare lo sviluppo". In altre parole, "l'ambiente agisce come un 'farmaco' sul cervello del pretermine, tracciando in qualche modo le basi dello sviluppo futuro".

"Proprio questa neuroplasticità - conclude Fazzi - fa sì che le caratteristiche delle esperienze e delle relazioni precoci siano fondamentali per lo sviluppo cerebrale del neonato pretermine, così come la qualità delle cure neonatali e l'intervento precoce, mediato dalla relazione con i genitori e con la famiglia, primo e fisiologico ambiente in cui un neonato cresce".

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Salute e Benessere

Allarme Norovirus Kawasaki: tutto quello che dobbiamo...

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Ultimamente, il Norovirus Kawasaki sta diventando una vera e propria preoccupazione in Europa. Cioè, fino a qualche mese fa chi ne aveva mai sentito parlare? Nessuno, diciamolo. E adesso è ovunque. Se ne parla tanto, soprattutto nel Regno Unito, dove le infezioni stanno letteralmente esplodendo. Una cosa impressionante. Ma che cos’è esattamente questo Norovirus Kawasaki e perché ci riguarda tutti? Proviamo a fare un po’ di chiarezza.

Un virus che arriva da lontano: il Norovirus Kawasaki

Tutto è iniziato a Kawasaki, città del Giappone da cui il virus prende il nome. Allora, scoperto nel 2014, il Norovirus Kawasaki è una sorta di versione ancora più tosta del norovirus che già conosciamo. Insomma, come gli altri norovirus, va a colpire soprattutto l’apparato gastrointestinale ma questo è un po’ una “bestia diversa”. Sì, perché la sua contagiosità è proprio fuori dal comune. Rispetto ai norovirus più comuni, questo ceppo è molto più aggressivo, capace di adattarsi rapidamente e di persistere a lungo nell’ambiente, rendendone il contenimento una sfida.

Sintomi intensi e rapidità di contagio

È difficile ignorare il Norovirus Kawasaki, specialmente per chi ha avuto la sfortuna di esserne contagiato. I sintomi? Arrivano in meno di 12 ore, veloci e furiosi. Quando ti colpisce, lo fa senza mezzi termini. Prima nausea e vomito improvvisi e poi, se non bastasse, arriva la diarrea acquosa, crampi addominali che ti piegano in due e un malessere generale che ti svuota. Ti lascia esausto e a volte questa sensazione rimane per giorni. Nei casi peggiori, compare pure un po’ di febbre ma il vero pericolo è la disidratazione, specie per i bambini e gli anziani.

Questo ceppo è più complicato dei norovirus “classici”. I sintomi sono più intensi e spesso serve l’aiuto di un medico per evitare che le cose peggiorino. Certo, in genere dopo 24-72 ore passa tutto ma il corpo ne esce distrutto e la stanchezza può durare parecchio.

Come si diffonde il Norovirus Kawasaki?

Parliamo chiaro: questo virus è un maestro della sopravvivenza. Contatto diretto con persone infette, superfici contaminate, alimenti e acqua contaminati sono tutte vie di trasmissione del Norovirus Kawasaki. Non serve molto: basta un minimo contatto con particelle virali per essere infettati. E il virus è decisamente resistente. Può sopravvivere per giorni su superfici come maniglie, telefoni, tavoli, anche se apparentemente puliti.

Non dimentichiamo poi che è molto abile anche nell’infettare tramite alimenti. Cibi preparati senza la giusta attenzione igienica possono diventare un veicolo perfetto per il virus, rendendolo estremamente difficile da tenere sotto controllo.

Il Regno Unito è in allarme… e l’Italia?

Allora, in UK la situazione è davvero preoccupante. Parliamo di un aumento del 41% rispetto all’anno scorso, con più di 2.400 persone colpite. La variante GII.17 sta facendo discutere, visto che ormai è responsabile del 70% dei casi. Le autorità sanitarie britanniche hanno già lanciato l’allarme e stanno dicendo a tutti di stare attenti: niente contatti ravvicinati con chi è malato e, se senti i primi sintomi, meglio restare a casa per evitare di contagiare gli altri.

E qui in Italia? Per ora la situazione non è così grave ma meglio non abbassare la guardia. Il Ministero della Salute sta tenendo d’occhio la situazione, soprattutto in posti come scuole e ospedali, dove il rischio di contagio è più alto. Sì, i numeri sono ancora bassi ma la prudenza non è mai troppa.

Prevenzione: un’arma fondamentale

Sì, lo sappiamo, lavarsi le mani è uno di quei consigli che si sentono sempre, fino allo sfinimento. Ma davvero, in questo caso fa tutta la differenza del mondo. Lavarsi le mani, insomma, è fondamentale per evitare di beccarsi il Norovirus Kawasaki: acqua e sapone, lavaggi fatti bene, spesso, soprattutto dopo essere stati in bagno o prima di mangiare qualcosa. Non è da prendere alla leggera, fidatevi.

E poi, diciamocelo, disinfettare le superfici è altrettanto importante. Non è che basta passare uno straccio umido e via, tutto a posto. No, servono disinfettanti specifici, perché questo virus resiste ai soliti prodotti da supermercato. Anche in cucina bisogna stare attenti: lavare bene frutta e verdura, cuocere tutto alla giusta temperatura e mantenere puliti utensili e superfici. Sono piccoli dettagli ma fanno davvero la differenza.

Ma se ci si ammala, che si fa? Isolarsi, isolarsi e ancora isolarsi, niente contatti con altri per almeno 48 ore dopo che i sintomi sono spariti, altrimenti si rischia di contagiare tutti. Poi, bere tanto è fondamentale, soprattutto per i bambini e gli anziani. Non serve esagerare, meglio piccoli sorsi ma frequenti e se proprio serve, si possono usare quegli integratori reidratanti. Insomma, bisogna fare molta attenzione.

Non esistono cure specifiche ma possiamo gestire i sintomi

Al momento, non ci sono antivirali specifici contro il Norovirus Kawasaki. La gestione è prettamente sintomatica: prevenire la disidratazione è la priorità. Soluzioni reidratanti orali o, nei casi più gravi, intravenose possono fare la differenza. Per febbre e dolori addominali si possono utilizzare antipiretici e antispastici ma attenzione: i farmaci antidiarroici sono sconsigliati, perché rischiano di prolungare l’infezione.

Perché la sensibilizzazione è fondamentale?

Quello che rende il Norovirus Kawasaki davvero pericoloso non è solo che si diffonde facilmente ma è anche che in tanti non sono consapevoli del rischio. Molti focolai si verificano per comportamenti distratti, come lavarsi male le mani o non fare attenzione quando si preparano gli alimenti. Ecco, è per questo che è così importante che tutti sappiano come fare a prevenirlo. Bisogna parlarne, informarci, fare in modo che queste informazioni arrivino a più persone possibile.

Le campagne informative devono arrivare dappertutto ma proprio ovunque: scuole, uffici, posti di lavoro, parchi… insomma, ovunque ci siano persone. Non basta che medici e infermieri sappiano cosa fare, anche noi, tutti noi, dobbiamo essere informati, consapevoli, attenti. Perché alla fine, siamo noi che possiamo fare davvero la differenza. Solo così, con tutti che fanno la propria parte, possiamo provare a contenere questa minaccia.

L’importanza della collaborazione

Il Norovirus Kawasaki non è solo un virus gastrointestinale, è molto di più. È una sfida complicata, c’è poco da fare e serve l’aiuto di tutti: istituzioni sanitarie, noi cittadini e anche i media. La prevenzione è l’arma più potente che abbiamo, davvero. Sì, lo sappiamo, lavarsi le mani, pulire bene le superfici, stare attenti a come si maneggia il cibo… sembrano cose banali ma fanno tutta la differenza del mondo.

Non possiamo permetterci di prenderla alla leggera, non ora. Questo virus si diffonde in fretta, troppo in fretta e sta mettendo sotto pressione i sistemi sanitari come non mai. Dobbiamo agire e dobbiamo farlo adesso, con testa, con responsabilità. È l’unico modo per limitare i danni e tenere sotto controllo questa emergenza. Facciamolo, ognuno di noi deve fare la propria parte. Solo così possiamo superare anche questa sfida, tutti insieme.

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Salute e Benessere

La proposta del pediatra: “Fare a scuola lo screening...

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Farnetani: "Per garantire una piena applicazione, il programma diagnostico introdotto per legge dovrebbe approdare nelle aule"

La proposta del pediatra:

"La diagnosi precoce è una grande risorsa della medicina e lo sarà ancora di più con l'estensione che potrà avere con l'intelligenza artificiale. Pensiamo al valore che può avere per il diabete, ad esempio. La recente legge 130/2023 dispone l'avvio di un programma diagnostico su base nazionale nella popolazione pediatrica per l'individuazione del diabete di tipo 1 e della celiachia. Come far sì che questo programma abbia una piena applicazione? Per avere la certezza di poter fare uno screening efficace che valuti la totalità delle persone da esaminare per l'infanzia e l'adolescenza è necessario effettuare questi esami a scuola". E' la proposta lanciata dal pediatra Italo Farnetani, da sempre convinto del 'potere dei banchi' nel campo della prevenzione, a pochi giorni dalla Giornata mondiale del diabete che si celebra giovedì 14 novembre.

Per l'esperto, in attesa che l'Ai esprima tutto il suo potenziale su questo fronte, proporre iniziative di salute attraverso le scuole è una chiave di successo per arrivare a raggiungere il maggior numero possibile di famiglie. Tanto che il camice bianco aveva lanciato un appello in questo senso anche per la vaccinazione anti-Covid ai tempi della pandemia, ricordando alcuni esempi precedenti: su tutti la vaccinazione anti-rosolia, che fino alla metà degli anni Ottanta si faceva a scuola e "si arrivava così a una risposta superiore al 90%". Mentre quando i genitori devono attivarsi, prenotare, spostarsi "non si arriva al 40%". Lo stesso effetto 'boost' si potrebbe avere sullo screening per il diabete facendolo approdare nelle scuole, assicura all'Adnkronos Salute.

Farnetani affronterà il tema della diagnosi precoce del diabete mellito di tipo 1 nell'ambito di un convegno organizzato in Sicilia dal Rotary Club di Mazara del Vallo, dall'azienda sanitaria provinciale di Trapani e dall'Associazione volontari ospedalieri di Mazara del Vallo, in occasione della Giornata del diabete. "Se mi fosse chiesto di fare il gioco della torre, la diagnosi precoce sarebbe l'ultimo elemento che butterei - ribadisce l'esperto - E' fondamentale. Però per rendere efficace il riconoscimento tempestivo del diabete di tipo 1 è necessaria l'alleanza fra minore, genitori, insegnanti, pediatra, diabetologo", elenca.

"Rispetto alla possibilità di effettuare lo screening dal pediatra o dal medico di famiglia, va ricordato che in certe aree geografiche si raggiunge anche una quota del 10% della popolazione pediatrica che il pediatra non lo vede mai. Potrebbero quindi rimanere delle lacune nel bacino di pazienti da sottoporre allo screening", riflette Farnetani, che è professore ordinario di pediatria dell'università Ludes-United Campus of Malta.

Un appello l'esperto lo lancia anche ai genitori e agli adulti che vivono intorno a bambini e adolescenti: "Cercate di individuare eventuali 'spie' - suggerisce - sintomi che possono far pensare al diabete di tipo 1, segni premonitori. Per esempio se un bambino o un adolescente in poco tempo inizia a mangiare molto più del solito e a perdere peso, o a fare più spesso la pipì e a ricominciare a bagnare il letto di notte, se inizia a essere svogliato, stanco, ad avere sonnolenza durante il giorno. In presenza di questi sintomi è opportuno che i genitori consultino in modo tempestivo il pediatra, il medico curante. Dopo questa visita potrebbe essere necessario consultare un diabetologo". Allo stesso modo è importante per Farnetani "il ruolo della scuola e la collaborazione con gli insegnanti: anche loro possono notare comportamenti diversi rispetto ai mesi precedenti - se lo studente è stanco o chiede spesso di andare in bagno, beve spesso durante le lezioni oppure al momento dello spuntino di metà mattinata mangia con voracità. Segnali che vanno riferiti ai genitori".

"La ricerca della presenza degli anticorpi del diabete di tipo 1 nel sangue come screening di massa è davvero strategica. Prima si fa la diagnosi prima si può dare l'insulina garantendo all'organismo un apporto sempre sufficiente. E' importante e opportuno fare una diagnosi precoce" per questa malattia "anche perché in una quota fino al 40% dei casi si scopre che il bambino o l'adolescente, ma in alcuni casi anche l'adulto, presenta il diabete mellito di tipo 1 quando viene una crisi di chetoacidosi diabetica che richiede un ricovero urgente in ospedale e che mette in pericolo la vita".

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