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L’appello per il restauro Abbazia Chiaravalle, ecco il nuovo progetto di Fondazione Grana Padana e comunità monastica

L'appello per il restauro Abbazia Chiaravalle, ecco il nuovo progetto di Fondazione Grana Padana e comunità monastica

Un appello per il restauro dell'Abbazia di Chiaravalle grazie all'art bonus. E' quello che proviene dalla Sala Brigida di Palazzo Marino dove oggi è stato presentato un nuovo progetto promosso dalla Fondazione Grana Padana Ats e dalla comunità monastica. Si chiama Intrecci e attraverso il fundraising intende dar vita a un gruppo di sostenitori privati con lo scopo di conservare e salvaguardare l'Abbazia di Chiaravalle e finanziare i più urgenti interventi di restauro. Obiettivo: il recupero della copertura della chiesa abbaziale che necessita di interventi, resi ancora più impellenti dalle recenti violente precipitazioni che hanno accentuato le infiltrazioni e rischiano di interessare le strutture portanti e l'intero apparato decorativo. Per i lavori più urgenti servono 550mila euro e lo strumento dell'Art bonus permette a imprese, individui ed enti non commerciali di beneficiare di un importante credito d'imposta, pari al 65% dell'importo donato. Tutti i contributi saranno direttamente raccolti dalla comunità monastica e interamente destinati al progetto.

I contributi saranno gestiti dalla comunità monastica

Tutti i contributi ricevuti saranno direttamente raccolti dalla Comunità monastica e interamente destinati al progetto di ristrutturazione. La Fondazione Grana Padano supporterà la comunità sulle modalità di utilizzo e di rendicontazione dei fondi anche nei confronti dei donatori privati, attraverso momenti pubblici, visite guidate ed iniziative di coinvolgimento e valorizzazione.

Nell'Abbazia Grana Padano trovò la sua antica ricetta, Chiaravalle rappresenta lavoro e spiritualità

Renato Zaghini, presidente del Consorzio tutela Grana Padano, sottolinea: "Abbiamo scelto di investire nel recupero di alcune porzioni dell'Abbazia di Chiaravalle non solo per lo speciale legame che da oltre nove secoli unisce questo luogo alla storia del formaggio Grana che proprio qui trova la sua antica ricetta, ma per tutto quello che oggi Chiaravalle rappresenta: arte, fede, spiritualità, lavoro, rapporto con la natura". Come Consorzio Tutela Grana Padano, sottolinea, "siamo stati i primi investitori e oggi desideriamo essere ancora di più ambasciatori di questo patrimonio, certi che la risposta e il contributo di tutti permetteranno di portare a termine questa sfida per ripristinare, custodire e tramandare le bellezze di Chiaravalle".

Un progetto aperto a chi cerca nell'Abbazia le proprie radici

Giuseppe Saetta, presidente della Fondazione Grana Padano Ets, sottolinea che "l'impegno per valorizzare e far conoscere l'Abbazia di Chiaravalle, la sua storia millenaria, i suoi rapporti e la sua influenza sulla storia del nostro territorio è uno dei principali obiettivi". Il ruolo della Fondazione, evidenzia, "vuole essere quello di sensibilizzare e coinvolgere privati che si affianchino alla Comunità monastica e alla Fondazione Grana Padano per creare una partnership duratura e restituire alla città di Milano e non solo un bene di tutti". Intrecci, continua, "sarà un progetto aperto a tutti coloro che si sentono vicini a questo luogo e qui ritrovano le proprie radici. Desideriamo inoltre - sottolinea - che questo progetto diventi l'occasione non solo per supportare l'Abbazia ma, anche per le imprese che vi aderiranno, di partecipare alla sua vita, conoscerla e farla conoscere a dipendenti e collaboratori, con un impegno concreto per il raggiungimento dei propri obiettivi Esg e di corporate social responsability".

La storia dell'Abbazia

L'Abbazia di Chiaravalle Milanese, fondata da San Bernardo di Clairvaux nel 1135, è uno tra i più importanti complessi monastici italiani. Luogo di considerevole valore spirituale e polo di rilievo dal punto di vista storico, artistico e culturale, è ancora oggi guidato dalla comunità monastica cistercense. Organizzata secondo i principi della Regola di San Benedetto da Norcia, la comunità monastica ha svolto nei secoli un ruolo fondamentale per la bonifica e la riorganizzazione del territorio a sud di Milano, ponendo le basi per quella fioritura economica ed agricola che tutt'oggi fa della campagna milanese una delle più ricche d'Europa.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

Cronaca

Senza nazionalità e senza cittadinanza, a 32 anni...

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Nata e cresciuta in Italia da genitori di origine serba, Suada Hadzovic, non riesce ad avere un passaporto

Passaporto

L'immigrazione, questa volta, c'entra poco o nulla. E' nata in Italia, ad Albano laziale, da due genitori di nazionalità serba entrambi nati in Italia. E' cresciuta in due diverse case famiglia, dopo la morte del padre. Oggi, a 32 anni, ha un compagno e un figlio italiani ma è rimasta senza nazionalità e senza cittadinanza, 'prigioniera' in Italia perché non ha documenti con cui poter uscire dai nostri confini. E' la storia dai contorni surreali di Suada Hadzovic. L'Adnkronos la racconta ricostruendo, attraverso i documenti in suo possesso, le tappe di un percorso di vita reso ancora più difficile dal cortocircuito di una burocrazia che non riesce a sanare un evidente paradosso.

Suada Hadzovic nasce ad Albano laziale il 21 ottobre 1992, da due genitori stranieri di origini slave ma anche loro nati in Italia. Il padre, nato il 10 ottobre 1975 sempre ad Albano laziale e di nazionalità serba, muore il 16 ottobre del 2000, quando Suada ha 8 anni. La madre, sempre di nazionalità serba e nata a Torino il 29 luglio del 1975, decide alla morte del padre di affidare Suada a una casa famiglia, la Comunita 21 marzo di Terracina. Da questo momento, entra in gioco come tutrice legale un'assistente sociale. Quando ha 14 anni, Suada viene trasferita in un altra casa famiglia, la Comunità Domus Bernadette, a Roma.

Al compimento del diciottesimo anno di età, in base alla legge 91 del 5 febbraio del 92, Suada avrebbe avuto il diritto di diventare cittadina italiana presentando una semplice dichiarazione di volontà all'Ufficio di Stato Civile del comune di Roma. Il problema è che il Comune di Roma non manda la relativa comunicazione nei sei mesi precedenti, come avrebbe dovuto fare in base all'art. 33 della legge 98/2013, e la tutrice legale non informa Suada di questa possibilità. La conseguenza è che al compimento del diciannovesimo anno di età la ragazza perde il diritto alla cittadinanza.

Nel 2010 Suada ottiene il suo primo permesso di soggiorno in cui viene erroneamente indicata la cittadinanza serba, deducendola evidentemente dalle origini dei genitori. E qui c'è l'altro snodo chiave della vicenda. Perché la Serbia, come risulta dalla comunicazione ufficiale dell'Ambasciata serba in Italia, dichiara esplicitamente che Suada Hadzovic non è cittadina serba. Del resto, non ha mai messo piede in Serbia ed è vissuta in Italia fin dalla sua nascita.

Suada, quindi, non è cittadina italiana e non è cittadina serba. E si trova a 32 anni nell'incredibile posizione di chi non si può muovere dall'Italia, perché priva di passaporto e con una carta d'identità che continua a recitare la dicitura 'non valida per l'espatrio'.

Nel corso degli anni, Suada e i legali ai quali si è rivolta tentano diverse strade, incluse la richiesta di cittadinanza per residenza e la richiesta dello status di apolide. Ma tutte le istanze si infrangono su sentenze di Tribunale che non indicano mai una soluzione al problema. "Fatto sta che mi ritrovo a 32 anni prigioniera di un Paese, in cui sono nata e in cui vivo da sempre, che non mi riconosce come cittadina e che sostiene io sia cittadina di un altro Stato in cui non ho mai messo piede", sintetizza con amarezza, in attesa di rivolgersi al prossimo legale e di fare l'ennesimo tentativo per uscire dalla sua condizione di ostaggio. (Di Fabio Insenga)

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Cronaca

Scacchi e ballo, le attività anti-demenza per il cervello

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Neurologa Perani: "La riserva cerebrale va stimolata nell'arco di una vita"

Giocatore di scacchi (Fotogramma/Ipa)

Essere bilingui, avere un istruzione superiore e un lavoro di un certo livello di complessità, ballare ("più che fare le flessioni"), giocare a scacchi. Sembrano attività che non hanno molto in comune, ma un filo rosso le lega. Una missione condivisa che ha a che fare con un tesoro nel nostro cervello. Una 'riserva aurea' che si alimenta tutta la vita e per non dissiparla serve un impegno costante, soprattutto quando l'età avanza. La posta in gioco? A livello ideale il sogno dell'eterna giovinezza, ma più concretamente questo tesoretto che si costruisce con esperienze e stimoli cognitivi aiuta il cervello a compensare i danni neurodegenerativi, a spingerli più in là nel tempo, ritardando il momento in cui si faranno sentire. Una forma di prevenzione delle demenze. E come mettere questo patrimonio al sicuro in banca lo spiega una scienziata che ha studiato per decenni proprio questo.

"Cos'è la riserva cerebrale? La caratteristica fondamentale del cervello è che è plastico, cioè si adatta alle situazioni esterne e interne per ottenere una risposta migliore, si modifica in accordo a stimoli sensoriali cognitivi rilevanti, all'esperienza, per modularsi a breve e lungo termine", illustra all'Adnkronos Salute Daniela Perani, neurologa e neuroradiologa, professore emerito di Neuroscienze all'università Vita-Salute San Raffaele di Milano, che approfondirà l'argomento domani, sabato 16 novembre, aprendo l'appuntamento con la proiezione di 'Remember' di Atom Egoyan nell'ambito del festival 'Cervello & Cinema' (in corso fino al 17 novembre all'Anteo Palazzo del Cinema). Quest'anno il festival esplorerà la longevità con il titolo 'Forever Young?', presentando 7 film cult che fanno riflettere sulle sfide dell'allungamento della vita.

"Il cervello è capace di cambiare nel giro di pochi secondi - assicura Perani -. Andando a studiare i topolini con la microscopia ottica si vedono le spine dendritiche che immediatamente dopo una stimolazione elettrica cominciano a formarsi, il neurone butta fuori questi bottoni che sono poi la base delle modifiche sinaptiche. La plasticità è questo: modifiche sinaptiche. Perché noi non moltiplichiamo i neuroni, per ora almeno non c'è evidenza di questo se non probabilmente nell'ippocampo, ma è una struttura unica quella. In ogni caso, la nostra corteccia si modifica per alcuni precisi motivi: si modificano la quantità dei dendriti, i punti in cui si toccano i neuroni, aumenta la vascolarizzazione cerebrale, possono anche ingrossarsi i neuroni", elenca. "La cosa importante di questa capacità plastica del cervello è che è possibile in tutto l'arco della vita. Quindi in tutto l'arco della vita possiamo creare la riserva cerebrale, che è questo nuovo assetto del nostro sistema nervoso centrale che ci permette di funzionare meglio da un punto di vista cognitivo, sensorimotorio, comportamentale, e per tante delle sue componenti".

Si chiama riserva, prosegue l'esperta, "perché oggi si sa che è legata a degli stimoli". E' come un tesoretto, appunto, perché "lo costruiamo tutta la vita e dietro c'è la plasticità. La riserva è tutte queste modifiche che oggi sappiamo però essere correlate ad alcune esperienze in particolare. Due su tutte: l'educazione e i livelli di occupazione. Se una persona fa l'Università, ha un bagaglio di esperienze e un modo di far funzionare il cervello che è diversissimo da un'altra persona che si è fermata alle elementari. L'Università, poi, genera occupazione di tipo diverso, almeno percentualmente nella storia. Certo, oggi la società sta cambiando, ma questo è quanto è stato misurato finora in persone anziane. Quindi l'occupazione della vita, se è di un livello elevato, fa sì che ci sia una quantità maggiore, anche misurabile con le tecniche di imaging, di spessore corticale, di forza della connettività dei sistemi neurali. Anche qualsiasi tipo di lavoro cognitivamente è uno stimolo. Questa è la riserva cognitiva che stimola per tutta la vita una riserva cerebrale, il cosiddetto tesoretto".

L'elenco di esperienze che consentono di custodire questo tesoro in realtà non è breve: "Sapere più lingue, ad esempio - dice Perani - un aspetto su cui ho fatto diverse ricerche. Ovviamente parlarle, non imparare solo 5-10 parole. Sono lo sforzo e l'esperienza di un certo livello che incidono". Ancora: "Giocare a scacchi è impressionante come crei plasticità e quindi contribuisca alla riserva. Pure l'attività motoria è fondamentale per il cervello, perché ad esempio aumenta il fattore neurotrofico Bdnf (Brain Derived Neurotrophic Factor). Per alzare l'asticella ci vuole tanto e costante". E infatti l'attività che ha più sorpreso la specialista per l'impatto sulla riserva cognitiva è "sicuramente quella che dura tutta la vita, quindi l'educazione e l'occupazione, e abbiamo evidenze fortissime su questo. Ci sono più studi epidemiologici. Per esempio uno canadese su 6.800 soggetti seguiti per anni e per tutte le demenze - vascolare, Alzheimer, frontotemporale - mostra che più sale la scolarità più si abbatte l'incidenza di queste patologie. La riserva non ti toglie la demenza, però la rallenta".

Il bilinguismo

L'impatto del bilinguismo è emerso invece "studiando gli indiani: livello scolastico basso, spesso contadini, ma parlano 5 o 6 dialetti, o non potrebbero commerciare e sopravvivere. Quello di cui i neurologi si sono accorti esaminando queste popolazioni è che la demenza insorge da 6 a 7 anni dopo" nei bilingui, "quindi questo gruppo ha un'età di insorgenza che è molto più anziana. Noi abbiamo poi fatto degli esperimenti che mostrano che c'è una riserva: il cervello dei bilingui anziani e con demenza è diverso da quello dei" corrispettivi "monolingui, perché hanno network rafforzati, connettività migliore, e così via. Così come ci sono gli effetti della musica, ma sono meno misurabili rispetto a qualcosa che dura tutta la vita".

Quali sono dunque i consigli per coltivare la propria riserva cognitiva? "Negli anziani vanno considerati alcuni fattori negativi - avverte la scienziata - smettere il lavoro ha un effetto deleterio, magari si associa anche a un po' di depressione reattiva, l'anziano si chiude in se stesso. Questo va combattuto. Si deve stimolare la persona a continuare a mangiare bene, ad avere una vita sociale, a trovare svaghi e divertimenti stimolanti. Non è male imparare uno strumento, una lingua, ascoltare la musica, anche con un certo approfondimento culturale, e fare moto. Quando si diventa anziani si perde massa muscolare, ma i fisiologi hanno studiato i motoneuroni della corteccia e del midollo spinale e questi si riducono, riducono le spine, la mielina degli assoni. Quindi bisogna fare moto per stimolarli".

Il movimento fisico

Quale tipo di movimento fisico è migliore? "Gli studi hanno anche dimostrato che l'attività motoria monotona fa bene alle fibre muscolari, certamente, ma parlando di cellule nervose si è scoperto che per esempio il ballo è la cosa migliore: ti muovi tanto, però i movimenti sono vari e devi mantenere l'equilibrio. Quindi per mantenere le cellule nervose, per quanto riguarda il sistema motorio, è meglio il ballo, che fare i piegamenti", sorride Perani. A che età cominciare? Dal giorno zero di vita, sembra essere il suggerimento. "Va detto che per esempio i bambini che sanno suonare gli strumenti sono molto bravi nel linguaggio, sulle capacità matematiche, esecutive e così via. E' tutto l'arco della vita che conta, perché il cervello si modifica. Però non bisogna mollare invecchiando, o dopo la pensione. Oggi si può vivere fino a 90-100 anni e ritardare la malattia di 6-7 anni è anche un risparmio" per il sistema sociosanitario "che vale miliardi".

'Cibo' per neuroni

I neuroni vanno anche nutriti bene. "La saggezza è la cosa migliore - conclude l'esperta - fa molto male l'eccesso di cibo pieno di grassi, che è dannoso per il cuore, il sistema vascolare e quindi anche per il cervello. La carenza di vitamine è dimostrato essere un problema, e infatti la prima cosa che si fa quando arrivano dei pazienti con disturbi cognitivi è misurare la vitamina B12 per vedere se è bassa. Il cervello ha bisogno di vari meccanismi metabolici. Incide negativamente la disidratazione, la carenza di vitamine, sono fondamentali anche le proteine perdendo massa muscolare. E oggi si scopre sempre di più che magari mangiare a intervalli regolari e soprattutto lasciare lunghi periodi di digiuno sembra faccia bene, perché le cellule del corpo, per dirlo in maniera semplice, sono più in grado di organizzare le scorie, di buttarle fuori meglio, quindi di non ammalarsi e morire".

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Cronaca

Progetto Giovani debutta in Tv con la sitcom ‘Ho...

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L'Istituto nazionale tumori di Milano diventa un set. Dal 18 novembre su Mediaset una serie scritta e recitata dagli adolescenti che combattono il cancro

Il team di Progetto Giovani

C'è il latin lover di natura, chi è già influencer, c'è il musicista in erba e chi incarna debolezze, vizi e virtù: l'agofobico, la viziata, la problem solver. Scene di adolescenza che la malattia non può cambiare, nemmeno il cancro. Le racconta 'Ho preso un granchio', sitcom scritta e recitata dai ragazzi del Progetto Giovani dell'Istituto nazionale tumori (Int) di Milano. Avviato nel 2011 con l'obiettivo di creare e promuovere un modello di assistenza su misura per chi affronta una patologia oncologica nell'età più difficile, il 18 novembre il progetto debutterà in Tv su Mediaset con la serie realizzata in collaborazione con Mediafriends e con il supporto della Fondazione Bianca Garavaglia Ets. Sette episodi di 7 minuti l'uno, girati in un set speciale: l'Ambulatorio di oncologia pediatrica dell'Int, dove tutto è nato.

Ai teenager colpiti da un cancro - 'apolidi' troppo grandi per essere curati come bambini, non abbastanza per essere trattati come adulti - Progetto Giovani vuole dare una casa, una 'terra di mezzo' tra l'oncologia pediatrica e l'oncologia tout court, offrendo spazi di espressione creativa che permettono di elaborare e condividere le emozioni complesse legate al percorso di cura. Tante le iniziative artistiche firmate in questi anni dai ragazzi di Andrea Ferrari, l'oncologo pediatra coordinatore di Progetto Giovani: canzoni diventate 'hit', incursioni nel mondo della moda, esperienze di scrittura e fotografia. Adesso anche la televisione, nuova avventura, stessa filosofia: parlare di paure e speranze con sincerità e ironia.

"La qualità della vita è una componente essenziale - sottolinea Ferrari - tanto quanto la qualità della cura. Per questo abbiamo riservato ai nostri pazienti adolescenti spazi esclusivi dove possono partecipare a progetti che utilizzano percorsi artistici e creativi per permettere loro di raccontarsi, di esprimere paure, speranze e sogni. Questi progetti, che richiedono diversi mesi di realizzazione, offrono ai ragazzi un obiettivo verso cui tendere, una prospettiva di futuro". E intanto "servono a porre l'attenzione sulle peculiarità mediche dei pazienti adolescenti, che hanno meno probabilità dei bambini di essere curati nei centri di eccellenza e nei protocolli clinici - evidenzia Maura Massimino, direttore della Divisione di Oncologia pediatrica dell'Int - e per diverse neoplasie hanno meno problemi di guarire dei pazienti più piccoli".

La nuova sitcom "è stato un progetto meraviglioso - testimonia Ferrari - I ragazzi sono stati sceneggiatori e attori. E' stato divertente, impegnativo e, soprattutto, un momento di unione e condivisione". Supervisionati da un team multidisciplinare, i ragazzi sono stati protagonisti di ogni fase creativa del progetto. Ogni episodio affronta un aspetto della vita in ospedale, dalle difficoltà di chi arriva in reparto odiandolo per poi scoprire una seconda famiglia, alla festa a base di sushi organizzata alle spalle dei medici. "Forse sorprenderanno i temi che abbiamo scelto di raccontare - dicono Edoardo e Marta - ma in realtà sono proprio quelli che per un ragazzo della nostra età contano sul serio: come ti vedi allo specchio, come ti sai o non ti sai relazionare ai tuoi amici, alle ragazze con cui vorresti provarci, ma non hai il coraggio di farlo". Partire da storie vere e "renderle comunicabili agli altri, ridendoci sopra", aggiunge Marco. "La sitcom - spiega - ci ha permesso di affrontare tematiche che, per noi, leggere e ironiche purtroppo non sono. Non è facile raccontare la propria storia di malattia, gli ostacoli che ogni giorno abbiamo affrontato o che ancora dobbiamo affrontare. Possiamo dire, in questo senso, che è stato davvero terapeutico".

'Ho preso un Granchio' debutterà lunedì in seconda serata su La 5, il canale 30 del digitale terrestre, con un episodio della serie arricchito dalla partecipazione straordinaria di Aldo, Giovanni e Giacomo, che verrà riproposto il giorno successivo alle 17 su Cine34, spiega una nota.

Tutte e 7 le storie, che vedono protagonisti 25 ragazzi tra i 15 e i 24 anni, saranno invece visibili su Mediaset Infinity. Una campagna di sensibilizzazione sul tema dei giovani oncologici che durerà un anno e che sarà disponibile per tutto questo arco di tempo, gratuitamente, su Mediaset Infinity, in una sezione arricchita da contenuti extra, realizzati sempre dai protagonisti.

Anche il programma di Italia 1 'Le Iene', attraverso i propri canali social, sarà parte attiva nel sostenere il Progetto Giovani dell'Int, che rappresenta un modello di eccellenza nell'oncologia adolescenziale, considerando la cura come un percorso che va oltre il trattamento clinico e includendo strumenti innovativi per migliorare la qualità della vita e favorire la resilienza.

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