Da un lato, c’è il congedo di paternità, un diritto che sta trovando sempre più spazio nella cultura del nostro paese. Dall’altro, il congedo parentale, ancora visto da molti papà come una sorta di terreno inesplorato. Mentre il 73% dei padri italiani fa uso del congedo di paternità, solo il 20,4% opta per il congedo parentale, ovvero quella possibilità di prendersi una pausa dal lavoro per occuparsi dei figli al di là dei primi giorni di vita. Perché questa grande differenza? E soprattutto, cosa pensano realmente i genitori italiani delle attuali misure a loro disposizione?
Secondo lo studio 4e-parent (Early-Equal-Engaged-Empathetic), un progetto europeo coordinato dall’Istituto superiore di sanità (Iss), la maggior parte dei genitori sente che le politiche attuali non sono sufficienti. E c’è una consapevolezza crescente che un congedo di paternità più lungo e più retribuito sarebbe un passo importante per rendere la genitorialità davvero condivisa tra madri e padri. Per non parlare della necessità di estendere il congedo materno, che molte mamme considerano troppo breve, specialmente per continuare l’allattamento.
“Le famiglie, le madri e i padri hanno grande necessità di misure che consentano la condivisione del ruolo di cura e della gestione domestica”, afferma Angela Giusti, prima ricercatrice dell’Istituto Superiore di Sanità e coordinatrice del progetto 4e-parent. Eppure, nonostante questa consapevolezza, l’Italia resta indietro rispetto ad altri paesi europei che hanno già allungato i congedi parentali, anche a favore dei padri, rendendo il congedo un diritto condiviso più equamente tra genitori. Un cambiamento che non riguarderebbe solo la genitorialità, ma l’intero assetto sociale, promuovendo una maggiore parità tra uomini e donne, sia nella sfera privata che professionale.
Congedo di paternità vs. congedo parentale
Il congedo di paternità e il congedo parentale sono due misure distinte, ma entrambe giocano un ruolo fondamentale nel supportare i padri nella gestione della genitorialità, sebbene con caratteristiche diverse.
Il congedo di paternità obbligatorio è un diritto riconosciuto ai padri lavoratori, che prevede un periodo di 10 giorni di astensione dal lavoro, da fruire tra due mesi prima e cinque mesi dopo la data presunta del parto. In caso di nascite multiple, il periodo viene esteso a 20 giorni. Durante questo congedo, il padre riceve un’indennità pari al 100% della sua retribuzione. Si applica sia ai lavoratori dipendenti, sia nel caso di adozioni o affidamenti, ma le condizioni possono variare per i liberi professionisti o i lavoratori autonomi, che possono usufruirne solo in casi particolari (come il decesso della madre o l’affidamento esclusivo al padre).
Il congedo parentale, invece, è un periodo di astensione facoltativa dal lavoro che i genitori possono scegliere di utilizzare per occuparsi dei figli fino a 12 anni di età. Se usato dal padre, prende il nome di congedo di paternità facoltativo. La durata di questo congedo può arrivare fino a dieci mesi, con la possibilità di estenderlo a undici mesi in particolari circostanze. Il padre ha diritto a tre mesi non trasferibili alla madre e a un ulteriore periodo di tre mesi, che possono essere utilizzati alternativamente con la madre. A livello economico, durante il congedo parentale l’indennità è pari al 30% della retribuzione media giornaliera, ma esistono incentivi che prevedono un aumento dell’indennità al 80% per i primi due mesi di congedo, fruibili entro il sesto anno di vita del bambino.
La paternità accudente
Il concetto di paternità accudente è uno degli aspetti fondamentali del progetto 4e-parent. Si tratta di un’idea che mira a rendere il padre protagonista nella cura quotidiana dei figli, un ruolo che per troppo tempo è stato esclusivo delle madri. La questione fondamentale riguarda la percezione di “spazio” che il congedo parentale offre. Il padre è spinto a tornare presto al lavoro, non tanto per necessità economiche, ma per un retaggio culturale che lo considera meno coinvolto nella cura dei figli rispetto alla madre. Qui entrano in gioco i numeri: il 69% delle madri e il 72% dei padri ritengono che il congedo di paternità dovrebbe essere più lungo, mentre la maggior parte di entrambi i genitori (91% delle madri e 89% dei padri) considera insufficiente la durata del congedo attuale.
La consapevolezza è quindi chiara: per rendere la genitorialità equamente condivisa, è necessario cambiare le politiche attuali, non solo allungando i congedi, ma anche migliorandone la retribuzione. Se il padre non si sentisse sufficientemente supportato economicamente, potrebbe decidere di rinunciare alla possibilità di rimanere a casa per prendersi cura dei figli, portando con sé il senso di “dovere” di tornare al lavoro per motivi legati al reddito. Un passo importante, quindi, sarebbe proprio quello di aumentare la retribuzione dei congedi di paternità per invogliare un numero maggiore di padri a prendersi tempo per crescere i figli, invece di lasciare questo compito principalmente alle madri.
Nel privato solo il 45% dei padri usa il congedo di paternità
Il tema della conciliazione famiglia-lavoro è strettamente legato a quello del congedo di paternità e parentale. Secondo un altro studio del progetto 4e-parent, realizzato su 1023 dipendenti di aziende private del Nord Italia, solo il 45% dei padri ha usufruito del congedo di paternità. Il 53% dei padri che non lo ha fatto ha dichiarato che la presenza della partner a casa è stata un motivo per non approfittare del congedo, mentre il 33% non sapeva nemmeno di poterlo utilizzare e il 14% temeva di avere problemi sul posto di lavoro. In altre parole, il contesto lavorativo gioca un ruolo cruciale nella decisione di usufruire o meno dei congedi.
Le aziende e i datori di lavoro hanno una grande responsabilità nel promuovere una cultura che favorisca la conciliazione tra vita familiare e lavorativa. Da un lato, le politiche aziendali più flessibili, come orari di lavoro ridotti o smart working, potrebbero incoraggiare i padri a prendersi più tempo con i figli. Dall’altro, la percezione di dover mettere il lavoro sempre al primo posto, che ancora persiste in molte realtà aziendali, penalizza in particolare le madri, che nel 49,8% dei casi dichiarano che le loro prestazioni lavorative sono influenzate negativamente dalla necessità di occuparsi dei figli. La stessa difficoltà, sebbene in misura minore, viene riscontrata anche dai padri, ma la frustrazione è generalmente maggiore per le madri, che spesso si trovano a dover fare i conti con aspettative lavorative che non si conciliano facilmente con le necessità familiari.
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È morto l’uomo più anziano del mondo all’età di 112 anni....
112 anni e 91 giorni: tanto è durata la vita di John Alfred Tinniswood, che per nove mesi è stato l’uomo più anziano del mondo prima di spirare lunedì scorso, “circondato dalla musica e dall’amore”, come hanno dichiarato i familiari.
Tinniswood è venuto a mancare in una casa di cura a Southport, a nord di Liverpool, dove era nato il 26 agosto 1912. Chi sarà ora il suo successore?
Il record di Tinniswood
Tinniswood è stato certificato dal Guinness dei primati come l’uomo più anziano del mondo a 111 anni nell’aprile 2024, quando è succeduto a Juan Vicente Pérez, del Venezuela, morto all’età di 114 anni.
John Alfred Tinniswood è nato pochi mesi dopo il tragico naufragio del Titanic (14 aprile 1912), ha vissuto le due guerra mondiali, prestando servizio nell’esercito britannico durante la Seconda guerra, ha visto lo sbarco sulla luna e ha resistito da centenario alla pandemia da Covid-19. A partire dal secolo di vita, l’uomo aveva ricevuto ad ogni compleanno un biglietto di auguri dalla Regina Elisabetta, nata 14 anni dopo di lui. Ora, questa tradizione veniva proseguita da Re Carlo III, che ha inviato l’ultima lettera lo scorso 26 agosto.
Nel 1942 Tinniswood aveva sposato Blodwen. Un amore durato 44 anni, fino alla morte di lei nel 1986, da cui è nata Susan. Oltre alla figlia, l’uomo lascia quattro nipoti e tre pronipoti.
Chi è l’uomo più anziano del mondo
Con la morte di John Alfred Tinniswood, quarto inglese più anziano della storia, l’uomo vivente più anziano del mondo diventa il brasiliano João Marinho Neto, nato il 5 ottobre 1912. La persona vivente più anziana al mondo resta la donna giapponese Tomiko Itooka di 116 anni.
È donna anche la persona più longeva di tutti i tempi di cui si ha traccia storica, la ultra centenaria francese Jeanne Calment, morta nel 1997 a 122 anni e 164 giorni. D’altronde, è risaputo che le donne vivono di più, anche se spesso vivono peggio.
I pochi consigli di Tinniswood per la longevità
Nonostante i 112 anni, John Alfred Tinniswood ha dato pochi consigli per la longevità, che dipende anche da cause genetiche. La sua esistenza, però, ci offre più spunti di quanto lui stesso pensasse.
“Se debbo proprio svelarvi un segreto, la moderazione è la chiave per una vita sana”, aveva dichiarato l’uomo più anziano del mondo, che non ha mai fumato e raramente ha bevuto alcool. Alla Bbc, Tinniswood ha dichiarato di aver avuto una vita “molto attiva” da giovane, arricchita da “molte passeggiate”. Dietro il suo record nessuna dieta particolare. Anzi, l’unico appuntamento fisso era mangiare fish and chips ogni venerdì, come da tradizione inglese.
L’uomo era convinto che non ci fosse nessun segreto particolare dietro il suo record, ribadendo di non essere diverso da qualsiasi altra persona. Tinniswood sosteneva che la sua longevità fosse “pura fortuna”: “O si vive a lungo o si vive per un breve periodo, non si può fare molto a riguardo. Prendo la mia età con filosofia, come qualsiasi altra cosa”, diceva.
Forse, proprio il suo modo di vivere, compresa la sua “pensione attiva”, è stato un elemento importante per arrivare a 112 anni e 91 giorni di vita.
Una persona grata e “calma di fronte a ogni crisi”
John Alfred Tinniswood, grande tifoso del Liverpool, ha vissuto la sua vita con passione. Era “intelligente, deciso, coraggioso, calmo di fronte a ogni crisi, talentuoso in matematica”, come ricordano i familiari. “A John piaceva sempre ringraziare” si legge ancora nel comunicato dei familiari che a nome suo ringraziano tutti coloro che si sono presi cura di lui nel corso degli anni “compresi gli operatori della casa di riposo Hollies, i suoi medici di base, gli infermieri, tutto il personale del servizio nazionale sanitario”.
Anche se l’uomo ha attribuito alla dea bendata la causa della sua longevità, ci sono altri elementi interessanti della sua esistenza, che potrebbero essere collegati alla longevità.
Il ruolo di una “pensione attiva”
L’uomo ha lavorato come contabile per le due società energetiche Shell e Bp prima di andare in pensione nel 1972, a 60 anni (un sogno per i lavoratori di oggi). Ricorda ancora la famiglia: “Ha avuto una pensione attiva”, dato che Tinniswood svolgeva attività di volontariato alla chiesa Blundellsands United Reform Church a Crosby.
Dall’altra parte del mondo, anche gli anziani dell’isola di Okinawa (dove si vive mediamente 13 anni in più rispetto al resto del mondo) vivono il periodo dell’anzianità in maniera attiva, rendendosi utili alla società.
L’esempio dell’isola giapponese ricorda quello di Tinniswood anche per l’attività fisica, che diversi studi correlano alla longevità: gli abitanti di Okinawa non lasciano passare un solo giorno senza fare una camminata nella natura o per le vie dei loro paesi. L’obbiettivo non è fare grandi sforzi fisici, bensì mantenere un’attività lenta ma costante, anche lavorando nei campi come fa gran parte degli ultraottantenni sull’isola. A differenza dell’(ex) uomo più anziano del mondo, gli abitanti di Okinawa seguono una dieta specifica, ricca di nutrienti e povera di carboidrati.
Per approfondire: L’elisir di Okinawa, dove si vive 13 anni in più e gli anziani sono una risorsa
Gioia, gratitudine, lunghe passeggiate, niente fumo, poco alcool e una vecchiaia attiva. Forse, alla base della longevità di John Alfred Tinniswood c’è stato qualcosa di più della semplice fortuna.
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“Bambini farfalla”, dall’Ospedale Bambino Gesù una nuova...
L’epidermolisi bollosa (Eb) è una malattia genetica rara che colpisce prevalentemente i bambini fin dai primi giorni di vita. Nota come la condizione dei “bambini farfalla” per la fragilità estrema della loro pelle, simile alle ali di una farfalla, questa patologia ha un’incidenza globale di circa 1 caso ogni 17.000 neonati, coinvolgendo complessivamente 500.000 persone nel mondo. In Italia, secondo le stime, ne soffrono circa 1.500 persone, con un’incidenza di 1 caso ogni 82.000 nati.
May El Hachem, responsabile della Dermatologia all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, descrive la portata del problema: “L’epidermolisi bollosa è una malattia che condiziona profondamente la vita dei pazienti. Mentre la gestione multidisciplinare resta un’arma fondamentale, oggi la ricerca sta aprendo nuove strade di cura”.
Le diverse forme della epidermolisi bollosa
L’epidermolisi bollosa si manifesta in quattro varianti principali:
- Simplex, responsabile di oltre il 50% dei casi, con forme generalmente più lievi ma a volte complicate da problemi muscolari o cardiaci;
- Giunzionale, meno frequente (circa il 10% dei casi), con sottotipi che possono essere letali già nei primi mesi di vita;
- Distrofica, che causa cicatrici profonde, ulcere e limitazioni funzionali severe;
- Kindler, la forma più rara, associata a fotosensibilità e complicanze extracutanee.
Tra queste, la forma distrofica recessiva (Ebdr) è la più severa e invalidante. È causata dalla mutazione del gene COL7A1, responsabile della produzione del collagene VII, una proteina essenziale per la coesione tra derma ed epidermide. La malattia porta a lesioni dolorose, ulcere croniche e cicatrici che limitano gravemente la qualità e l’aspettativa di vita. La principale causa di morte per questi pazienti è rappresentata da tumori della pelle, come i carcinomi squamocellulari.
Nuove frontiere della ricerca al Bambino Gesù
Grazie a un finanziamento del Pnrr, l’Ospedale Bambino Gesù di Roma ha avviato una sperimentazione per sviluppare una terapia genica rivoluzionaria. “Il nostro modello di cura non si limita al trattamento delle lesioni, ma mira a migliorare la qualità della vita di bambini e adolescenti con epidermolisi bollosa”, sottolinea El Hachem. La sperimentazione, guidata da Franco Locatelli, responsabile di Oncoematologia e Terapie Geniche, mira a correggere il difetto genetico attraverso l’uso di cellule della pelle dei pazienti stessi.
La procedura prevede tre fasi principali, ovvero il prelievo di campioni di pelle dai pazienti; la modifica genetica delle cellule mediante l’utilizzo di vettori virali per correggere il gene COL7A1 e il trapianto del tessuto geneticamente corretto sui pazienti.
In questa fase iniziale, il Bambino Gesù sta selezionando circa 25 pazienti sulla base di criteri stringenti, tra cui l’assenza di tumori della pelle, autoanticorpi contro il collagene VII e la presenza di cellule staminali epidermiche.
Terapie già disponibili
In attesa di risultati dalla terapia genica, altre opzioni stanno già migliorando la gestione della malattia:
- Gel a base di corteccia di betulla, approvato dall’Aifa, accelera la guarigione delle ferite nei pazienti con Ebdr;
- Terapia genica topica, un gel contenente copie sane del gene COL7A1, già approvato dalla FDA e in corso di approvazione dall’EMA e dall’Aifa;
- Terapia cellulare con cellule mesenchimali ABCB5+, che ha dimostrato di ridurre l’infiammazione e migliorare la guarigione delle lesioni nei trial clinici di fase 1 e 2.
Un modello di assistenza integrato
Il Bambino Gesù è il centro di riferimento italiano con la casistica più ampia di pazienti affetti da epidermolisi bollosa (oltre 150). L’ospedale adotta un approccio multidisciplinare, coinvolgendo dermatologi, genetisti, nutrizionisti, chirurghi e psicologi per fornire una presa in carico globale. “Grazie ai progressi della ricerca scientifica, siamo in grado di mettere a disposizione nuove speranze di cura,” afferma El Hachem.
L’Unità di Dermatologia collabora con associazioni come Debra Italia e fa parte del network europeo Ern-Skin per le malattie rare della pelle. Inoltre, grazie al contributo di Debra, è stata allestita una stanza speciale per accogliere bambini e adolescenti con epidermolisi bollosa in un ambiente confortevole e tecnologicamente avanzato.
Una speranza per il futuro
Le innovazioni in corso al Bambino Gesù rappresentano una luce di speranza per i “bambini farfalla” e le loro famiglie. Con un mix di trattamenti innovativi, assistenza personalizzata e avanzamenti scientifici, il sogno di una vita più serena per i pazienti con epidermolisi bollosa sembra sempre più vicino.
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‘Ugly Privilege’, essere brutti è un vantaggio? Per...
Chi bella vuole apparire un poco deve soffrire, dicevano le nostre nonne, dando per scontato – e tramandando l’idea – che la bellezza sia un valore talmente importante da meritare sudore, fatica e in definitiva anche dolore. E che per le donne, in fondo, sia un imperativo cui inevitabilmente sottostare. Arrivati all’oggi, però ci sono anche delle voci contrarie, che emergono in particolare su TikTok, teatro dei trend più strani ma anche specchio delle tendenze della società, secondo le quali il vero privilegio è essere brutti. La novità si chiama infatti ‘Ugly privilege’, e in sostanza sostiene che se sei brutta gli uomini non ti guardano, quindi ti lasciano in pace e quindi puoi vivere molto più serenamente.
I pregiudizi che colpiscono i ‘belli’
Inoltre chi è bello soffre del pregiudizio secondo cui come minimo è una persona superficiale, e molto probabilmente anche poco intelligente, col risultato che spesso viene oggettificato sessualmente, scatena invidie e cattiverie, le sue virtù interiori vengono del tutto ignorate e in generale deve faticare per far vedere che ‘oltre le gambe c’è di più’.
Partendo da questi presupposti, la rivoluzione dell’ugly privilege riscuote consensi sul social cinese e potrebbe fare presa su molte donne (e uomini). E così, in un mondo dove migliaia di euro, tempo, fatica e serenità mentale vengono sacrificati sull’altare dei canoni di bellezza imposti dalla società e dalla cultura, viene rivendicato non solo il diritto ad essere brutti, ma addirittura il vantaggio di esserlo.
‘Ugly privilege’: essere brutta non ti salverà
Ma se reclamare il diritto a non essere ‘conformi’ a certi standard può essere una rivoluzione copernicana dei nostri tempi, che salva le donne da imperativi plurisecolari e gli uomini da diktat più recenti ma in cui stanno cascando con tutti i piedi, affermare che essere brutti, insignificanti e ignorati dall’altro sesso sia un privilegio sembra più un paradosso, un dire – come la volpe della favola – che ‘l’uva non è matura’, e alla fin fine un tirarsi la zappa sui piedi.
Questo per vari motivi. Intanto sostenere che essere brutti sia meglio significa non riconoscere che le persone belle godono di effettivi vantaggi, ingiusti ma certificati dalla scienza: ognuno di noi è meglio predisposto verso chi ha un aspetto gradevole, tanto che per chi rientra nella categoria è più facile trovare lavoro, ad esempio, così come è avvantaggiato a livello sociale. È il cosiddetto ‘pretty privilege’.
Poi significa anche ridurre la questione delle attenzioni indesiderate che si possono ricevere (tipicamente dagli uomini verso le donne) a un fattore estetico, quando la realtà dei fatti e le statistiche ci dicono che molestie, stalking, stupri e violenze capitano a donne belle o brutte, giovani e meno giovani. E questo per il semplice fatto che la violenza di genere deriva da una dinamica di potere e di controllo, non certamente dall’avvenenza di chi la subisce.
Inoltre, molte donne hanno commentato video TikTok relativi al ‘privilegio della bruttezza’ affermando che proprio perché gli uomini non le trovano attraenti e le lasciano in pace si sentono al sicuro ad esempio tornando a casa la sera, e che questo per loro è molto positivo. Uno sfasamento visivo che non tiene conto che la violenza non guarda in faccia a nessuno e che potrebbe indurre le persone ad essere meno prudenti, pensando di godere di un salvacondotto che nei fatti non esiste.
La bellezza è anche un privilegio economico e sociale
Un altro aspetto problematico dell’ugly privilege è che sminuisce e fa passare per qualcosa di positivo quella che è di fatto una marginalizzazione sociale o lavorativa che si basa solo sull’estetica. Un problema aggravato dal fatto che la bellezza può essere un dono di Madre Natura ma spesso può esserci lo zampino del chirurgo o della chirurga, o di tutta una serie di pratiche – mangiare bene, avere tempo per sé, poter fare sport o trattamenti specifici – che dipendono dalle situazioni di vita e dalla disponibilità di soldi di cui si gode. Il pretty privilege insomma è allo stesso tempo un discorso di possibilità, e si associa a ben altri tipi di privilegi: economici, sociali e culturali.
Infine c’è un altro aspetto, alla base dell’ugly come anche del pretty privilege. Per quanto tutte e due queste ‘problematiche’ possano riguardare entrambi i sessi, le donne sotto decisamente molto più sotto pressione, in un senso o in un altro, e per lo stesso motivo: lo sguardo degli uomini. Che sia perché le molestano più o meno pesantemente, sia che le ignorino, in questo modo sono sempre loro a dettare come una donna si debba sentire.