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Aids, infettivologo Antinori: “Stigma allontana persone da test hiv e luoghi cura”

‘Checkpoint strutture importanti, possono offrire test e anche Prep’

Aids, infettivologo Antinori:

“Lo stigma nei confronti delle persone con Hiv è tutt’oggi la prima barriera ad ostacolare molte delle azioni di sanità pubblica: esiste, non solo nella società e negli ambienti di lavoro, ma anche nelle strutture sanitarie, come dimostrato purtroppo da un’indagine dell’European Ecdc da poco pubblicata. In molti Paesi europei infatti persiste uno stigma da parte degli operatori sanitari e di coloro che assistono le persone con Hiv, operatori dunque che, evidentemente, hanno pregiudizi e idee non conformi a quella che dovrebbe essere l’idea di un professionista che è, in primo luogo, un portatore di salute. Credo che questa sia una grande battaglia perché lo stigma allontana le persone dal test e dai luoghi di cura, capovolgendo i paradigmi e impedendoci di lavorare”. Con queste parole Andrea Antinori, direttore del dipartimento clinico dell’Istituto nazionale per le Malattie infettive, Spallanzani Irccs di Roma, è intervenuto oggi all’evento ‘Hiv. Dalle parole alle azioni. Insieme per porre fine all’epidemia’ promosso da Gilead Sciences, a Roma.

L’evento che rientra nella campagna ‘Hiv. Ne parliamo?’ ha visto la partecipazione dei rappresentanti della Comunità scientifica, delle associazioni, del terzo settore, delle Istituzioni nazionali e regionali. Durante l’evento è stato presentato il libro bianco ‘Hiv. Le parole per tornare a parlarne’. Allontanare le persone dai luoghi di cura “impedisce - sottolinea lo specialista - alle persone con Hiv di avere una vita regolare, sana e felice e, alle persone a rischio, di avvicinarsi a tutto quello che può servire per evitare che si infettino. I checkpoint sono quindi fondamentali - prosegue - collaboriamo infatti con i due checkpoint di Roma e ci rechiamo lì settimanalmente a fare il nostro lavoro insieme a loro. Sono strutture importanti, perché possono offrire il test ma anche la Prep”, la prevenzione pre esposizione “che si può portare fuori dall’ospedale. Noi lo stiamo facendo, la consegniamo anche fisicamente con questo rapporto di collaborazione con i checkpoint, che sono dei luoghi neutri, più friendly e non medicalizzati, a cui le persone si possono avvicinare. Lo dico pensando sopratutto a chi ha bisogno di prevenzione, che non è malato ma una persona sana, che guarda all’ospedale anche con un certo timore, con paura o con reticenza. I checkpoint possono avvicinare questa popolazione e rendere tutto molto più semplice, libero e naturale”.

La qualità della vita delle persone con Hiv e in terapia “è migliorata per effetto dei farmaci, però esistono ancora molti problemi irrisolti nell’età più avanzata, in cui aumentano le morbidità e le altre patologie - aggiunge Antinori - I nostri pazienti sono dei cronici e la cronicità è un problema a tutti i livelli, non solo per l’Hiv. La qualità della vita può quindi ulteriormente migliorare ma servono interventi molto capillari, servono team multispecialistici che si facciano carico di queste persone perché non serve solo l’infettivologo, ma servono anche assistenti sociali, sanitari e psicologici, per gestire una malattia complessa che non riguarda solo il virus ma riguarda una persona, un’entità molto più alta e complicata”.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

Cronaca

Test medicina, Bernini ai Rettori: “Gestiamo gli...

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Il ministro da Trieste, "con riforma addio a inaccettabile lancio della monetina su domande come 'chi era Sandra Milo?'"

Test medicina, Bernini ai Rettori:

"Chiedo a tutti di collaborare: la mia preoccupazione non è quella di avere aule troppo piene ma troppo vuote, come sta succedendo adesso. Agli amici Rettori dico 'non lamentiamoci di non avere abbastanza studenti e poi quando si apre il numero chiuso diciamo sono troppi', cerchiamo di gestirli. Per il loro bene, per il bene del nostro sistema paese e per il bene del sistema sanitario nazionale". Così il ministro dell'Università e della Ricerca Anna Maria Bernini a margine del 2° Forum Scientifico Italia-Serbia a Trieste.

Per quanto riguarda i test di ammissione a medicina, "da ora non ci sarà più quel terribile test a crocette - prosegue il ministro - che faceva solo spendere soldi agli studenti e alle famiglie per prepararli su domande come 'chi era Sandra Milo?' Cose sinceramente inaccettabili. Ora tutte le studentesse e gli studenti si prepareranno durante un semestre in cui studieranno materie caratterizzanti, materie propedeutiche e potranno accedere ad una graduatoria. Noi stiamo allargando in maniera progressiva, programmata e sostenibile il numero chiuso senza creare una rottura del sistema ma rendendo possibile valorizzare il talento, il merito e i sogni delle studentesse e degli studenti che legavano il loro destino al lancio della monetina. Perché questo era il test a crocette. Adesso non esiste più". Una riforma che servirà, secondo il ministro, a ridurre la mancanza di medici nel nostro Paese: "Dovremmo aspettare otto anni perché questi medici siano in grado di operare in corsia. Ma è altrettanto vero che se non si comincia mai non si producono mai nuovi medici".

"So che è una strada complicata perché non sono tutti favorevoli: ci sono posizioni ormai radicate che si fa fatica a convincere a cambiare. Però il mio obiettivo sono le studentesse, gli studenti, il loro futuro e il benessere del servizio sanitario nazionale. Soprattutto, bisogna evitare che i nostri studenti siano costretti ad un esilio forzato all'estero, per andare a studiare medicina in luoghi che non sono l'Italia per poi ritornare, dopo aver speso tanti soldi, e non essersi giovati della grande qualità dell'offerta formativa italiana".

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Cronaca

Anpi, polemica con gaffe contro il francobollo per Sergio...

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Pagliarulo: "Scelta politica ricordare lui e non Piazza della Loggia e Italicus". Ma in realtà il francobollo per le due stragi è stato emesso nel 2024. La famiglia: "Fascismo non c'entra, è elogio alla normalità di una vita che purtroppo è andata sprecata"

Anpi, polemica con gaffe contro il francobollo per Sergio Ramelli

Dall'Anpi polemica con gaffe sul francobollo annunciato per il 2025 in occasione del cinquantenario dell'omicidio di Sergio Ramelli, lo studente di destra aggredito a colpi di chiave inglese da un gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare a Milano nel 1975 e morto dopo 47 giorni di agonia.

La gaffe dell'Anpi

"Per le stragi del 1974 di Piazza della Loggia o del treno Italicus, non è stato fatto alcun francobollo", contesta il presidente dell'Anpi Gianfranco Pagliarulo. Un'affermazione che in realtà non corrisponde al vero perché per le due stragi sono stati emessi francobolli commemorativi nel 2024, appunto in occasione del 50esimo anniversario. "Lo ignoravo", si limita a replicare Pagliarulo, che non rinuncia però a parlare di strumentalizzazione. "Non è mai stato fatto alcun francobollo per le centinaia di ragazze e di ragazzi uccisi dai fascisti in quel decennio. E nel momento in cui si sceglie una sola persona, per di più di quella parte, si fa una palese scelta politica - dice all'Adnkronos - Qui non è in discussione la gravità dell'evento, cioè l'assassinio efferato di Ramelli. È in discussione la strumentalizzazione di quella morte, un tentativo di ridisegnare gli anni Settanta in un modo che non corrisponde alla realtà". 

Insomma, secondo l'Anpi, "non ha senso fare un francobollo su Sergio Ramelli, su cui è stato istituito una sorta di culto neofascista, in mancanza di iniziativa 'di memoria postale' rispetto ad altri eventi gravissimi che sono avvenuti in quella fase storica come per esempio le grandi stragi che oggi sono rimosse, a cominciare da piazza Fontana fino a Bologna, con in mezzo Brescia, l'Italicus e tante altre".

La famiglia di Ramelli: "Fascismo non c'entra, è elogio a normalità di una vita andata sprecata"

Di tutt'altro avviso la famiglia di Ramelli. "Sergio era un ragazzo normalissimo che ha manifestato alcune idee che per quella età erano 'abbozzate'. Il destino ha voluto che diventasse un martire, ma nel ricordare la sua morte si celebra non un ragazzo che ha manifestato idee fasciste ma un ragazzo che avrebbe potuto diventare quello che voleva ma e che invece per la sventura, per la delinquenza, per il clima di quei tempi, è diventato un martire", dice all'Adnkronos Massimo Turci, parlando a nome della sorella di Ramelli. "Quello in memoria di Sergio potrebbe essere un francobollo in elogio alla normalità di una vita che è invece andata sprecata", sottolinea, bocciando la polemica sollevata dall'Anpi come "priva di senso".

D'altronde, aggiunge poi, non senza amarezza nella voce, "la famiglia di Sergio, relativamente al francobollo, è indifferente: non è che per la sorella, unica rimasta, possa essere considerato un voto in più sul registro: ormai la vita quello che doveva fare ha fatto, la famiglia tutta ne ha risentito. Certo non le dà fastidio l'emissione, ma sicuramente non aggiunge nulla alla sua vita né leva nulla al suo dolore". (di Silvia Mancinelli)

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Cronaca

Caos al Corvetto. Tommy Kuti: “Da noi solo per gravi...

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Caos al Corvetto. Tommy Kuti:

"Da noi solo per gravi fatti di cronaca. Ascoltateci e stop al gioco dei politici''. Tommy Kuti, rapper afroitaliano non ha dubbi nel prendere una posizione dopo i fatti accaduti nel quartiere Corvetto di Milano negli scorsi giorni, protagonista di disordini e vandalismi in seguito alla morte del 19enne di origine egiziana Ramy Elgaml. Secondo il cantante troppo spesso “si finisce a parlare di ragazzi di seconda generazione dopo situazioni o fatti di cronaca estremi e i – dice all’Adnkronos Tommy Kuti, il rapper afroitaliano, qui da quando aveva 2 anni– oltre a essere un problema, è un sintomo dell’arretratezza dell’Italia su questi temi”. Per i ragazzi e le ragazze figli di immigrati è difficile sentirsi italiani al 100%, “ci vuole un grande sforzo”.

Tommy ha passato l’infanzia sulle sponde del lago di Garda, in provincia di Brescia, in una comunità di persone nigeriane cresciute in Italia. Il suo quotidiano è differente da quello degli altri: “Il 98% dei miei amici se ne sono andati dall’Italia perché non si sono mai sentiti integrati”. Una conseguenza dettata dal clima di diffidenza verso ciò che non si conosce. “Quando un italiano incontra un nero – spiega – viene quasi naturale pensare cose negative. È così che si crea quella tensione che porta poi alla perdita di persone, come i miei amici”. Mentre si parla di sbarchi, maranza e criminalità giovanile “diventiamo miopi e ignoriamo quello che questi ragazzi possono realmente offrire”.

Secondo Tommy c'è un problema: il Paese è spesso abituato a interagire con gli italiani di seconda e terza generazione solo quando si tratta di problemi da risolvere, mentre “non c’è una narrazione che tratti storia di normalità o quotidianità”. Quello che serve fare, per il rapper, è “confrontarsi e cambiare la narrativa così che anche i parlamentari di destra smetterebbero di dire che è sempre colpa dell’immigrazione”.

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