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Persona Disabile In Carrozzina

Si celebra oggi, 3 dicembre, la Giornata internazionale per i diritti delle persone con disabilità, un momento di riflessione istituito nel 1981 dalle Nazioni Unite e riconosciuto in Europa dal 1993, che mette al centro i diritti, il benessere e l’inclusione delle persone con disabilità, temi che rimangono critici nonostante i progressi legislativi e culturali. A quasi vent’anni dall’adozione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità nel 2006, i principi di uguaglianza e partecipazione continuano a essere sfidati da barriere materiali e culturali. L’articolo 9 della Convenzione, dedicato all’accessibilità, sottolinea l’importanza di creare condizioni che garantiscano l’indipendenza e la piena partecipazione in tutti gli ambiti della vita. Tuttavia, l’Italia e molti altri Paesi europei si trovano ancora lontani da questi obiettivi.

La celebrazione di questa giornata è accompagnata da un tema scelto dalle Nazioni Unite per il 2024: “Amplificare la leadership delle persone con disabilità per un futuro inclusivo e sostenibile.” Un messaggio che pone l’accento sulla necessità di superare le disuguaglianze strutturali per costruire una società equa, dove ogni individuo possa contribuire attivamente.

Un’Italia che si “boccia” sull’inclusione

Gli italiani sono severi giudici di sé stessi sul tema della disabilità e si ‘bocciano’ senza riserve: “non siamo un popolo inclusivo”. Questo emerge chiaramente dal quarto rapporto dell’Osservatorio Cittadini e Disabilità, promosso in occasione del Premio Bomprezzi-Capulli a Roma. L’indagine, condotta da Swg, rileva che sette italiani su dieci considerano l’inclusione delle persone con disabilità in Italia stagnante, imputando responsabilità sia ai cittadini sia alle istituzioni. La percezione è che né lo Stato (71%) né i cittadini (68%) facciano abbastanza per garantire una partecipazione equa e paritaria.

A distanza di tre anni dal primo Osservatorio, il quadro sembra peggiorare. È aumentata la quota di chi ritiene che si faccia “nulla” per l’inclusione, un passaggio emblematico rispetto al 2021. Se da un lato alcune voci come lavoro, trasporti e barriere architettoniche mostrano lievi miglioramenti, dall’altro la legislazione e le politiche governative restano al centro delle critiche. La legge quadro sulla disabilità (n. 227/2021) e i relativi decreti attuativi non sono sufficientemente conosciuti, e solo il 30% degli italiani valuta positivamente il lavoro del Governo sul tema. Un giudizio che, secondo Simone Fanti, vicepresidente del Premio, dovrebbe essere un campanello d’allarme per il Presidente del Consiglio Meloni: “Va potenziato il Ministero della Disabilità e stanziate nuove risorse per affrontare le esigenze quotidiane di chi vive con disabilità”.

L’indagine tocca anche aspetti sociali più profondi. Mentre la sensibilità verso il tema sembra crescere, restano ancora forti pregiudizi (62%), indifferenza (61%) e discriminazione (40%). Inoltre, aumenta la percezione di impreparazione della società nell’affrontare la disabilità, salita dal 53% al 56%. I risultati dipingono una realtà in cui le famiglie con persone con disabilità sono sempre più isolate, schiacciate da barriere relazionali, istituzionali e contestuali.

Tra i pochi settori a registrare un giudizio più positivo emerge lo sport, che con il 47% di opinioni favorevoli guida il cambiamento, grazie anche alla visibilità offerta dalle Paralimpiadi 2024. Seguono l’ambito scolastico (43%) e quello dell’assistenza sanitaria e sociale (38%), che però rimangono lontani da livelli soddisfacenti. Al contrario, temi cruciali come la vita indipendente e il “dopo di noi” sono considerati prioritari solo da una minoranza.

Lavoro e istruzione: due pilastri ancora fragili

In Italia, la disabilità rappresenta una lente attraverso cui osservare profonde disparità sociali e culturali, nonostante gli sforzi per promuovere l’inclusione. I dati occupazionali dipingono un quadro allarmante: solo il 32,5% delle persone con disabilità in età lavorativa ha un impiego, contro una media nazionale del 58,9%. Questa disparità si accentua ulteriormente con un tasso di disoccupazione per i disabili al 20%, quasi il doppio rispetto all’11,3% della popolazione generale. La discriminazione diretta e indiretta si riflette in barriere sistemiche, come la mancanza di accessibilità, e in prassi aziendali che, aggirando il sistema delle quote tramite sanzioni economiche, non promuovono realmente l’inclusione.

In contrasto, esempi virtuosi si trovano altrove in Europa: in Francia e Germania, le percentuali obbligatorie di assunzione di lavoratori con disabilità offrono modelli che potrebbero ispirare un ripensamento delle politiche italiane. Tuttavia, uno spiraglio positivo emerge dalle piccole aziende italiane, dove il 56% rispetta le esigenze dei dipendenti con disabilità, un dato superiore rispetto al 33% delle grandi imprese. Anche geograficamente si registrano disparità: nel Nord Italia sei aziende su dieci si dimostrano più sensibili, mentre al Centro-Sud il numero scende a quattro.

L’aspetto di genere aggiunge un ulteriore strato di vulnerabilità: le donne con disabilità affrontano discriminazioni più marcate, con un tasso di occupazione retribuita al 49% e una predominanza femminile tra gli inattivi (70%). Il rischio di violenza fisica o psicologica colpisce il 36% di loro, evidenziando una sovrapposizione tra marginalizzazione economica e vulnerabilità personale.

Anche la scuola, che dovrebbe essere un baluardo di inclusione, riflette molte delle difficoltà strutturali presenti nel mondo del lavoro. Un report condotto su oltre seimila studenti tra i 14 e i 19 anni rivela che il 58% trova la propria classe poco inclusiva, nonostante il 55% dichiari di essere individualmente “abbastanza accogliente” verso i compagni con disabilità. Le strutture scolastiche, poi, risultano carenti: mentre il 53,8% degli studenti le giudica adeguate per le esigenze fisiche, solo il 26,8% e il 16,2% le ritiene idonee rispettivamente per le disabilità psichiche e sensoriali. Gli studenti chiedono più formazione per i docenti (52,9%), investimenti in edilizia scolastica (30,4%), e maggiori risorse per psicologi scolastici (26,5%).

Al di fuori dell’ambiente scolastico, la partecipazione sociale dei giovani con disabilità resta limitata. Solo il 12% degli studenti frequenta spesso coetanei con disabilità, mentre la maggioranza (57,8%) identifica contesti più inclusivi della scuola, come associazioni sportive (28,7%) e di volontariato (23%).

Famiglia e società: il peso dell’assistenza

Il tema dell’autonomia e dell’assistenza familiare assume un’importanza crescente nel contesto della disabilità, un fenomeno che si fa via via più rilevante con l’avanzare dell’età. Secondo i dati più recenti della sorveglianza Passi d’Argento dell’Istituto Superiore di Sanità, 14 over 65 su 100 non sono autonomi in attività quotidiane come mangiare, vestirsi, lavarsi, e spostarsi da una stanza all’altra. Quando si passa oltre gli 85 anni, la percentuale sale a ben 4 su 10, un dato che non solo segnala un aumento della disabilità con l’età, ma evidenzia anche un pesante carico di cura e assistenza che gravita principalmente sulle famiglie, piuttosto che su Asl e Comuni. In un contesto in cui la disabilità è fortemente legata alla polipatologia, con il picco tra chi soffre di due o più patologie croniche, il sostegno ai familiari diventa centrale, ma non sempre è sufficiente a fronteggiare l’intensificarsi dei bisogni. La disabilità, infatti, è più frequente nelle donne, con il 17% rispetto al 10% degli uomini, ed è anche fortemente legata a fattori socio-economici, come la bassa istruzione o le difficoltà economiche, rendendo le persone più vulnerabili a questa condizione.

I dati mostrano che il 95% delle persone con disabilità riceve aiuto dai propri familiari per le attività quotidiane in cui non sono autonomi. Un altro 37% si avvale di badanti e il 10% di conoscenti. Tuttavia, solo l’11% riceve aiuto a domicilio da operatori socio-sanitari e una percentuale minima, pari al 2%, beneficia di assistenza presso centri diurni, un sistema che rimane marginale e insufficiente a garantire una qualità di vita adeguata per chi ne ha bisogno. In aggiunta, solo una persona su quattro con disabilità riceve un contributo economico, come l’assegno di accompagnamento, a evidenziare un’altra importante lacuna nel supporto istituzionale. Un altro elemento da considerare è il gradiente geografico tra il Nord e il Sud Italia, con il 17% delle persone con disabilità che riceve un aiuto economico al Sud, contro il 10% al Nord, segno di una disparità nell’offerta e nell’accesso ai servizi.

Nel contesto della fragilità, che colpisce circa il 17% della popolazione sopra i 65 anni, la mancanza di autonomia si manifesta non solo nelle attività quotidiane, ma anche in compiti complessi come la gestione della casa, l’assunzione dei farmaci o la gestione economica. Anche in questo caso, la maggior parte delle persone fragili (98%) riceve assistenza, ma la forma di aiuto è quasi sempre familiare: il 95% proviene da familiari diretti, con un supporto del 21% di badanti e il 14% di conoscenti. L’intervento degli operatori socio-sanitari, sia da parte delle Asl che dei Comuni, rimane residuale, coinvolgendo meno del 3% delle persone fragili. In un sistema che fatica a rispondere adeguatamente a queste necessità, la figura del familiare diventa l’unico punto di riferimento per chi vive con disabilità o fragilità, ma a un prezzo elevato in termini di stress, sacrificio e carico emotivo.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Bullismo etnico in aumento, il Moige lancia ‘net.com’ per...

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Stop bullismo etnico

L’8% dei ragazzi usa foto o video per prendere in giro qualcuno, e il 45% ha dichiarato di essere stato vittima di prepotenze, nel 34% dei casi di violenza verbale. Non solo: il 49% dei minori naviga senza alcun filtro anti-porno (49%) e c’è una scarsissima comunicazione con le famiglie riguardo a strumenti di protezione su internet. I dati, allarmanti e in costante aumento, emergono da uno studio condotto dal Moige (Movimento Italiano Genitori) in collaborazione con l’Istituto Piepoli nel 2023.

Per contrastare i fenomeni di bullismo e discriminazione, che spesso sono anche una questione di integrazione culturale e sociale, Moige, col sostegno del Ministero degli Interni e il co-finanziamento dall’Unione Europea, lancia ‘net.com’, una rete territoriale di professionisti formati e un vademecum per affrontare in modo diretto e mirato il bullismo etnico, che colpisce in particolare i bambini e i ragazzi provenienti da famiglie migranti.

Net.com, una rete di professionisti e un vademecum contro il bullismo etnico

Sono 877mila gli studenti stranieri nelle scuole italiane, come riportato dal MIUR, dunque l’intervento risulta urgente e necessario, sottolinea il Moige in una nota, per garantire a tutti i giovani, indipendentemente dal loro background culturale, una scuola libera da pregiudizi e discriminazioni.

A questo scopo, verranno creati gruppi di coordinamento locali che opereranno in collaborazione con i servizi sociosanitari, le forze dell’ordine e i mediatori culturali, per garantire un supporto tempestivo e adeguato ai minori di diversa nazionalità. E per costruire una società più inclusiva e rispettosa.

“Il nostro progetto nasce da un’esigenza sociale imprescindibile”, dichiara Antonio Affinita, Direttore Generale del Moige. “La società italiana sta diventando sempre più multietnica e multiculturale. Occorre valorizzare le differenze, comprendere le diverse necessità e gli ostacoli nel percorso di integrazione, soprattutto per i minori stranieri. ‘Net.com’ significa ascolto, osservazione e, soprattutto, azioni concrete a supporto dei minori“.

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Pornografia precoce e violenza, l’allarme del ministro...

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Eugenia Roccella Ministra Famiglia Fotogramma

L’idea di una “generazione perduta” fa sempre più capolino nelle narrazioni mediatiche, complici i dati allarmanti su bullismo, violenza giovanile e disagio psicosociale. Ma è davvero così? Durante la presentazione dei risultati della Commissione bicamerale sui minori, il ministro per la Famiglia, Eugenia Roccella, ha delineato un quadro più complesso, fatto di sfide ma anche di opportunità. Un affresco che intreccia l’emergenza educativa, l’alleanza scuola-famiglia e il bisogno di riscoprire i valori relazionali.

Allarme pornografia precoce

“L’esposizione precoce alla pornografia, che avviene a sei-sette anni, crea problemi non solo sull’idea delle relazioni uomo-donna, ma stimola atteggiamenti aggressivi e di violenza”, ha dichiarato Roccella, sottolineando come le famiglie e le scuole debbano stringere un’alleanza educativa. Il parental control, spesso sottovalutato o ignorato, emerge come uno strumento imprescindibile per arginare un fenomeno che si diffonde sempre più rapidamente.

Non si tratta solo di proteggere i più piccoli da contenuti inappropriati, ma di formare una coscienza critica capace di affrontare un mondo digitale ricco di insidie. Gli studi citati dimostrano come l’esposizione precoce a contenuti espliciti possa lasciare cicatrici profonde, alterando il modo di percepire le relazioni interpersonali e incrementando comportamenti aggressivi.

Solitudine e denatalità

Un’altra questione cruciale, secondo Roccella, riguarda la solitudine giovanile, fenomeno in crescita nei paesi del benessere, dove la denatalità riduce sempre più la presenza di fratelli e sorelle. “La quantità di figli unici crea il fenomeno della solitudine giovanile, non è più qualcosa che si sviluppa con il tempo: siamo figli unici”, ha spiegato il ministro.

La mancanza di una rete familiare ampia priva i giovani di un primo “laboratorio” di socializzazione, lasciandoli spesso soli davanti alle difficoltà. Tuttavia, questa solitudine non è solo materiale, ma anche emotiva, figlia di un benessere che, paradossalmente, ha impoverito le relazioni.

La speranza come antidoto al disagio

Nonostante il quadro apparentemente cupo, Roccella invita a non cadere nella trappola del pessimismo. “Sui giornali prevalgono i dati di cronaca, è normale, ma raccontiamo un’adolescenza come fosse una generazione perduta, e non è così”, ha affermato. Citando iniziative come il concorso di video contro la violenza promosso con il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, Roccella ha messo in luce l’enorme potenziale creativo e valoriale delle nuove generazioni. Tra i lavori premiati, alcuni affrontavano temi complessi come il perdono e l’amicizia, dimostrando che, al di là dei fenomeni di disagio, esiste una generazione capace di sperare e di costruire.

La chiave per invertire la rotta, secondo il ministro, è nel ricostruire una rete educativa solida che coinvolga famiglia, scuola e istituzioni. Servono strumenti concreti, come il parental control, ma anche un dialogo aperto e inclusivo. L’educazione non può più essere delegata a singoli attori: è necessario un approccio corale, capace di abbracciare la complessità del mondo contemporaneo.

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La corsa ai like, perché condividiamo troppo sui social?

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Giovane Donna Sorridente Telefono Smartphone Social

Negli ultimi anni, i social media hanno trasformato il modo in cui viviamo e ci relazioniamo con il mondo. Il fenomeno dell’oversharing, cioè l’abitudine di condividere ogni dettaglio della propria vita, è una delle espressioni più emblematiche di questa trasformazione. Ma cosa ci spinge a raccontare così tanto di noi stessi online? Perché sentiamo il bisogno di essere protagonisti della nostra esistenza anche davanti a un pubblico virtuale? Il professor Marco Cacioppo, ordinario di Psicologia Dinamica presso l’Università Lumsa di Roma, ha approfondito queste tematiche, spiegando come l’oversharing rifletta non solo una tendenza culturale, ma anche bisogni psicologici profondi.

Secondo Cacioppo, è fondamentale distinguere tra un uso problematico dei social media e una vera e propria dipendenza psicopatologica. “L’oversharing”, spiega, “è parte di una dinamica complessa ed estremamente rapida nel suo sviluppo con la quale non è sempre comodo stare al passo”. L’impulso a condividere è radicato nel desiderio di essere visti e accettati. La necessità di approvazione è diventata parte integrante delle esperienze quotidiane, rendendo i social una piattaforma per validare la propria identità. Questo bisogno di visibilità è strettamente legato al funzionamento delle dinamiche relazionali moderne: sentirsi “riconosciuti” attraverso un like o un commento trasforma il modo in cui percepiamo noi stessi e le nostre esperienze.

Cacioppo sottolinea inoltre come la tecnologia abbia ampliato il contesto relazionale, modificando radicalmente le nostre abitudini. “Dieci anni fa parlavamo di prossimità a distanza; oggi questo è un dato di fatto, soprattutto per i giovani. Con uno smartphone possiamo raccontare la nostra vita a una platea infinita, ma ciò comporta anche il rischio che un momento della nostra esistenza valga di più solo se condiviso”. In questa dinamica si intrecciano opportunità e criticità: la rivoluzione tecnologica offre connessione e visibilità, ma ridefinisce anche il valore delle esperienze personali.

I giovani e l’oversharing: una questione generazionale?

Se l’oversharing è un fenomeno trasversale, è nei giovani che assume caratteristiche peculiari. “I nativi digitali”, osserva Cacioppo, “sono abituati sin dall’infanzia ad essere esposti alla possibilità che la loro vita sia vissuta nel momento presente e, contemporaneamente, raccontata anche a chi non è presente in una relazione vis-à-vis attraverso la condivisione sui social da parte dei caregivers”. Questa esposizione precoce alla visibilità digitale ha normalizzato l’idea che la vita privata sia anche pubblica. Tuttavia, ciò non implica necessariamente una patologia: “Non parlerei di epidemia, ma di una diffusione culturale che riflette il contesto in cui gli adolescenti e i giovani adulti sono nati e cresciuti”.

Il bisogno di condividere è particolarmente marcato nelle fasi di sviluppo della propria identità. Gli adolescenti, in cerca di conferme, si affidano ai social media per misurare il proprio valore. “Un tempo”, sottolinea Cacioppo, “questa validazione arrivava dallo sguardo dell’altro o da una parola di approvazione. Oggi, invece, è rappresentata da un like o da una visualizzazione“. Questa dipendenza da conferme digitali può portare a conseguenze emotive significative, come insicurezze e sentimenti di inadeguatezza.

Le reazioni mancanti, ad esempio, possono essere percepite come un rifiuto. “Negli adolescenti, la mancata risposta a un contenuto postato viene letto come un’assenza di valore”, aggiunge Cacioppo. Questo genera un circolo vizioso di insicurezza e frustrazione, che può amplificare il bisogno di condividere sempre di più per ottenere conferme che non arrivano mai in modo definitivo.

I social come rifugio o trappola emotiva?

Negli ultimi anni, i social media sono stati definiti da alcuni come il “grande divano psicologico”, un luogo dove esprimere le proprie emozioni e fragilità. Tuttavia, Cacioppo invita a un’analisi più attenta di questa metafora. “Il crescente interesse per la psicologia e la salute mentale è sicuramente positivo”, afferma, “ma l’idea che l’oversharing possa essere una forma di autoterapia è discutibile”. Spesso, la condivisione eccessiva è un tentativo di regolare emozioni difficili o di compensare fragilità nell’autostima, ma raramente risulta essere una strategia efficace.

Il problema non è internet in sé, ma l’uso che ne facciamo. “Condividere troppo”, osserva Cacioppo, “può esporre le nostre vulnerabilità senza aiutarci realmente a elaborarle”. La ricerca di approvazione attraverso i social media può portare a dipendere sempre più da un sistema di validazione esterno, rendendo difficile un’autoregolazione emotiva autentica e autonoma. Questo meccanismo crea una sorta di cortocircuito tra il bisogno di essere visti e l’incapacità di costruire un’immagine stabile di sé.

Nonostante ciò, il lato positivo della crescente attenzione verso la salute mentale è il progressivo superamento di alcuni stigmi sociali. Parlare di emozioni sui social ha reso più accettabile il confronto con il disagio psicologico, anche se, secondo Cacioppo, non bisogna confondere questo con una reale comprensione o gestione del proprio benessere emotivo.

Confini e rischi dell’oversharing

Il limite tra condivisione sana e patologica è labile, e l’oversharing può diventare un problema quando compromette le relazioni interpersonali. “Se condividere online diventa più importante delle interazioni fatte in presenza”, spiega Cacioppo, “c’è un problema da affrontare”. Un esempio emblematico è il fenomeno del phubbing, ovvero ignorare chi ci sta vicino per concentrarsi sullo smartphone. “È paradossale”, riflette Cacioppo, “ma ignoriamo chi c’è per rivolgerci a chi non c’è”.

Secondo studi condotti dall’Università Lumsa, il phubbing si collega a retaggi familiari e relazionali poco coinvolgenti, che spingono gli individui a cercare connessioni emotive altrove. Questo comportamento si intreccia con l’oversharing, evidenziando come la ricerca di popolarità online spesso si sostituisca al bisogno di relazioni autentiche. “Condividere di più non significa avere una maggiore capacità di connessione emotiva, empatica, reciproca e profonda con gli altri”, avverte Cacioppo. Al contrario, può indicare una difficoltà nel costruire legami profondi e reciproci.

Il futuro digitale e l’intimità perduta

Cosa ci riserva il futuro? Secondo Cacioppo, è difficile fare previsioni, ma la speranza è che l’oversharing rimanga solo una delle tante modalità di utilizzo dei social media. In un’epoca in cui tutto sembra ruotare attorno ai like, il desiderio è che le interazioni “live” continuino a prevalere su quelle virtuali. “Un sorriso o una battuta di un amico”, conclude Cacioppo, “devono restare più desiderabili di un like per una foto postata sull’ultimo locale frequentato”. La vera sfida, quindi, è mantenere un equilibrio tra il mondo digitale e quello reale, senza perdere di vista ciò che rende unica la nostra umanità.

E per chi si rende conto di esagerare con la condivisione? Cacioppo suggerisce un esercizio di introspezione: “È importante prendere atto che non c’è più piacere nel condividere, ma forse più una pressione a farlo. Poi, se la persona non riesce a regolare in modo ottimale la propria compulsività è bene accendere una riflessione su quale bisogno esistenziale colma l’oversharing. Si sente sola? Si sente inesistente?”. Rispondere con sincerità a queste domande può essere il primo passo verso un uso più consapevole dei social. E se la difficoltà persiste, il professore non esita a consigliare di rivolgersi a uno specialista.

L’oversharing, conclude Cacioppo, è uno specchio della nostra società e delle sue contraddizioni. Saperlo gestire, senza demonizzarlo, può essere una chiave per una convivenza serena con le tecnologie che ci circondano. E, forse, per riconquistare un po’ della nostra intimità perduta.

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