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Trump ha reintrodotto la pena di morte a livello federale, cosa succede ora?

Trump beffardo

Donald Trump ha reintrodotto la pena di morte a livello federale negli Stati Uniti. Lo ha fatto con uno dei cento ordini esecutivi firmati il 20 gennaio 2025 subito dopo il suo secondo insediamento da presidente degli Usa. Una decisione storica che cancella con un colpo di spugna la moratoria decretata dall’amministrazione Biden nel 2021 e riaccende il dibattito su un tema altamente divisivo dal punto di vista legale, sociale ed etico.

L’ordine esecutivo stabilisce in modo chiaro i casi in cui la pena capitale potrà essere applicata, provocando reazioni contrastanti a livello nazionale e internazionale anche perché appare evidente la discriminazione nei confronti degli immigrati illegali.

Pena di morte, cosa prevede l’ordine di Trump?

La reintroduzione della pena di morte a livello federale si concentra su specifici crimini considerati estremamente gravi. Il provvedimento prevede che la pena capitale possa essere richiesta in specifici casi, tra cui:

  • Omicidio di agenti federali o pubblici ufficiali durante l’esercizio delle loro funzioni;
  • Reati capitali commessi da immigrati irregolari presenti sul territorio degli Stati Uniti;
  • Terrorismo federale e reati legati alla sicurezza nazionale, se provocano la morte di una o più persone;
  • Omicidi seriali e altri casi di particolare efferatezza riconosciuti dalla giurisdizione federale.

L’ordine stabilisce che le esecuzioni avverranno attraverso iniezione letale, rispettando i protocolli federali, e chiede una priorità per casi che coinvolgono minoranze, donne e agenti pubblici come vittime, per rafforzare il concetto di una punizione severa ma giusta. Il presidente americano ha anche al procuratore generale di richiedere la pena capitale “indipendentemente da altri fattori” quando il caso riguarda l’uccisione di un agente o reati capitali “commessi da uno straniero illegalmente presente” nel Paese, e di “intraprendere tutte le azioni necessarie e legali” per garantire che gli Stati abbiano abbastanza farmaci per l’iniezione letale.

Dove è ammessa la pena di morte

Negli Stati Uniti, la pena di morte è una questione mista di diritto statale e federale. In base al sistema federale, i singoli Stati possono decidere autonomamente se adottare, abolire o limitare l’applicazione della pena capitale. Ad oggi:

  • 24 stati prevedono l’uso della pena di morte, incluse Florida, Texas e Arizona;
  • 23 stati l’hanno abolita completamente, come New York e Illinois;
  • Altri stati – Oregon, California e Pennsylvania – hanno introdotto moratorie che sospendono le esecuzioni pur mantenendo la legge in vigore.

L’ordine esecutivo di Trump ha effetto solo per i crimini perseguiti a livello federale, reintroducendo la pena capitale indipendentemente dalle normative dei singoli Stati.

Brevi cenni sulla pena di morte negli Usa

La pena di morte è stata presente nella giustizia statunitense fin dall’epoca coloniale, ma la sua applicazione è cambiata nel tempo. Nel 1972, la Corte Suprema sospese temporaneamente le esecuzioni con la sentenza Furman v. Georgia, dichiarando che la pena capitale veniva applicata in modo “arbitrario e capriccioso”. Tuttavia, con il caso Gregg v. Georgia nel 1976, la Corte autorizzò nuovamente l’applicazione della pena di morte, purché fosse regolata da criteri rigidi.

Negli anni 2000, un movimento crescente ha portato alla riduzione delle esecuzioni e alla sospensione in alcuni Stati americani. La moratoria federale introdotta da Joe Biden nel 2021 – durante la quale le condanne a morte furono sospese o commutate in ergastolo – segnò un punto cruciale, ora annullato dalla recente decisione di Trump.

La pena di morte nel resto del mondo

Nel 2025, il panorama globale sulla pena di morte rimane eterogeneo:

  • La maggior parte dei Paesi ha abolito completamente la pena capitale;
  • Circa 55 Paesi, tra cui Cina, Iran e Arabia Saudita, prevedono ancora la pena di morte;
  • Alcuni Paesi non hanno abolito la pena di morte, ma applicano da anni delle moratorie (come quella concessa da Biden) che sospendono l’esecuzione della pena capitale.

Secondo il Death Policy Information Center, dieci dei quindici Paesi che hanno abolito la pena di morte per tutti i crimini dal 2015 a oggi si trovano in Africa: Burkina Faso, Repubblica del Congo, Ciad, Guinea, Sierra Leone, Benin, Zambia, Madagascar, Guinea Equatoriale e Repubblica Centrafricana. A questi vanno aggiunti il Kenya e il Ghana che l’hanno abolita per alcuni crimini. Sul fronte opposto si trova la Repubblica democratica del Congo che nel 2023 ha cancellato la moratoria durata circa vent’anni.

Prima del secondo mandato di Trump, la moratoria di Biden aveva evitato la pena di morte a 37 condannati, convertendola in ergastolo.

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Medico, ingegnere o psicologo? Il ‘lavoro dei sogni’ degli...

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Professioni Mestieri Giovane

Medico, ingegnere, insegnante, psicologo, avvocato e giornalista: sono queste le professioni che popolano l’immaginario dei tredicenni italiani. Nonostante le campagne che promuovono carriere innovative legate alla tecnologia e alla transizione digitale le nuove professioni fanno capolino solo timidamente, lasciando spazio a un mix di ambizioni radicate nella tradizione. Ben 6 ragazzi su 10 hanno un sogno professionale ben definito già in terza media, secondo una ricerca condotta da Skuola.net e Unioncamere. Un dato che si spiega con la consapevolezza crescente: l’80% degli intervistati sa che le scelte di oggi plasmeranno il domani.

Sembrerebbero troppo giovani per sapere cosa fare da grandi, ma, del resto, il sistema scolastico non aspetta: a soli 13 anni bisogna scegliere la scuola superiore, una decisione che può influenzare il futuro più di quanto si immagini. E gli studenti di oggi sembrano affrontare questa sfida con una maturità sorprendente. La stabilità di questi sogni si intreccia con un maggiore impegno nell’orientamento scolastico, segno che le nuove generazioni stanno affrontando le loro scelte con occhi ben aperti e una pianificazione più accurata rispetto al passato.

Le idee chiare dei tredicenni

Mai come oggi, quindi, gli studenti di terza media arrivano all’appuntamento con le iscrizioni scolastiche mostrando una sorprendente chiarezza di intenti. A pochi giorni dall’inizio delle iscrizioni, quasi 8 studenti su 10 (il 77%) avevano già scelto l’indirizzo di studi. Può sembrare banale, ma qualche anno fa gli indecisi erano quasi il doppio. Un dato che segna un significativo passo avanti rispetto al passato e che testimonia l’efficacia delle attività di orientamento scolastico. Secondo l’Osservatorio sull’Orientamento Scolastico, nell’ultimo anno il 77% degli studenti ha partecipato ad attività dedicate organizzate dal proprio istituto, con un 35% che ha iniziato il processo di orientamento già dalla seconda media.

Tra gli strumenti più apprezzati dagli studenti nella fase di scelta ci sono gli open day. Nell’ultimo anno, il 72% dei ragazzi ha partecipato ad almeno un evento organizzato dalle scuole superiori, registrando un incremento rispetto al passato. Inoltre, il consiglio orientativo – un documento che offre suggerimenti mirati in base al profilo dell’alunno – è stato ricevuto dal 79% degli studenti, un dato che riflette una crescita importante rispetto a dieci anni fa, quando questa pratica era ancora poco diffusa.

I genitori continuano a giocare un ruolo chiave, seppur spesso dietro le quinte. Quasi il 90% degli studenti sceglie un percorso approvato dai genitori, anche se solo il 15% ammette di aver subito una vera e propria pressione familiare. La situazione cambia se in casa c’è almeno un genitore laureato: in questo caso, l’influenza sale al 20%, e la partecipazione agli open day diventa praticamente obbligatoria (80%). Non sorprende, dunque, che l’indecisione si riduca drasticamente al 10% in queste famiglie.

Iscrizioni al via

Dal 20 gennaio 2025, le iscrizioni per le scuole primarie, secondarie di primo e secondo grado, e per i Centri di Formazione Professionale sono ufficialmente aperte, con la scadenza fissata al 10 febbraio 2025. Quest’anno, le novità non mancano: tra le proposte più innovative spiccano i percorsi tecnologico-professionali 4+2 e il nuovo Liceo del Made in Italy, progettati per coniugare l’innovazione alle radici della tradizione, rispondendo così alle esigenze di un mercato del lavoro in continua evoluzione e puntando a valorizzare l’eccellenza italiana. Le iscrizioni online, obbligatorie per le scuole statali e facoltative per quelle paritarie, sono disponibili sulla piattaforma ufficiale del Ministero dell’Istruzione e del Merito.

Unioncamere, l’Unione italiana delle Camere di commercio, sta facendo la sua parte per guidare studenti, genitori e insegnanti verso scelte consapevoli, mettendo a disposizione strumenti come Excelsiorienta, un’applicazione di orientamento che si ispira al mondo del gaming, e il Sistema Informativo Excelsior, che offre preziose informazioni sulle prospettive lavorative. Il progetto “Che ci faccio col diploma?”, frutto della collaborazione con Skuola.net, continua a sensibilizzare i ragazzi sull’importanza di un percorso di studi che li prepari davvero al mondo del lavoro.

Intanto, le statistiche più recenti svelano un quadro interessante delle scelte scolastiche degli studenti italiani. Per l’anno scolastico 2024/2025, il 52,5% degli studenti opta per i licei, mentre un buon 30% preferisce l’indirizzo tecnico. Tra i licei, il più scelto è il liceo scientifico (24,7%), seguito da quello linguistico (14,2%) e da scienze umane (12,5%). Tra i tecnici, invece, le preferenze vanno principalmente verso l’economico (28,9%), l’informatica e telecomunicazioni (18,1%), e la meccanica (9,2%). Piccole percentuali, ma comunque significative, si concentrano su indirizzi emergenti come il liceo del Made in Italy, con una percentuale dello 0,2%, a conferma di come la scuola si stia adattando alle nuove esigenze del mercato del lavoro e alla valorizzazione delle nostre eccellenze.

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Due stipendi ma nessun figlio, aumentano le famiglie Dink....

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Famiglia Dink

C’era un tempo in cui la famiglia italiana tipo aveva due figli e uno stipendio, più raramente due. Ora, sono sempre di più le famiglie Dink, ovvero quelle che di stipendi ne hanno due e di figli nessuno.

La questione è cruciale per il futuro del Paese, la domanda atavica: non avere figli è solo una scelta egoistica o rivela qualcosa di più profondo?

Cosa significa famiglie Dink

Si parta dall’acronimo: Dink sta per Double Income No Kids, ovvero due stipendi, nessun figlio. L’origine anglosassone del termine rivela che non si tratta di un trend solo italiano. Secondo il Current Population Survey, nel 2022, il 40% delle coppie americane sposate e senza figli aveva due stipendi. Considerando la fascia di età 35-44 anni (già al limite per la fertilità), nel 2021 le famiglie americane tra i 35-44 di età senza figli erano il 44%, contro il 37% del 2018.

Un sondaggio condotto da YouGov sulla stessa fascia di età rivela che, in Inghilterra e in Galles, nel 2020, il 51% dei 35-44enni non aveva figli, né programmava di averne.

La situazione in Europa

Una situazione analoga si ritrova anche in Europa, dove l’Italia detiene la maglia nera della denatalità. Come rivelato da un’indagine Eurostat, nel 2022, solo una famiglia europea su quattro aveva bambini. (24,3% delle quasi 200 milioni di famiglie totali). Più nel dettaglio:

– Famiglie con 1 figlio: 12,1%;

– Famiglie con 2 figli: 9,3%;

– Famiglie con 3 o più figli: 3%

Tra le famiglie con figli, praticamente la metà delle famiglie ne aveva 1 (49,5%), mentre il 38,1% aveva 2 figli e il 12,4% ne aveva 3 o più.

Una situazione diffusa in maniera uniforme, dato che, tra le famiglie con bambini, quelle con un solo figlio erano più comuni in 26 dei 27 Paesi membri. Unica eccezione i Paesi Bassi, dove le famiglie più frequenti erano quelle con 2 figli.

Più della metà delle famiglie con bambini aveva un figlio in Portogallo, Bulgaria, Romania, Malta, Lituania, Lettonia, Italia, Spagna e Ungheria.

Le quote più elevate di famiglie con bambini sono state registrate in Slovacchia (33,9%), Irlanda (32,2%) e Cipro (30,6%), mentre le quote più basse sono state registrate in Finlandia (18,4%), Germania (20,1%) e Paesi Bassi (21,8%).

La situazione in Italia

In Italia, nel 2023 sono nati 392.598 bambini rispetto ai 393.310 nati del 2022 (dati Istat). Un calo leggero ma costante da ormai un decennio che consolida la crisi demografica del Paese. In pratica, ogni mille residenti sono nati sei bambini. I dati provvisori relativi al primo semestre 2024 confermano il trend: 4.600 nati in meno rispetto allo stesso periodo del 2023 e tasso di fertilità sceso a 1,21 contro l’1,24 del 2022. Numeri ben lontani dalla cosiddetta soglia di sostituzione, pari a 2,1 figli per donna. Uno degli aspetti più critici del calo demografico riguarda la difficoltà, per molte coppie, di avere un secondo figlio. Il tasso di fecondità di 1,20 figli per donna evidenzia come molte famiglie si fermino al primo figlio, e questo fenomeno non accenna a diminuire. Nel 2023, i secondi figli sono diminuiti del 4,5%, e quelli di ordine successivo sono scesi dell’1,7%.

Come il lavoro influisce sulla crisi demografica

Tra le ragioni di questo stallo c’è l’allungarsi dei tempi per raggiungere una stabilità economica, un lavoro sicuro e un’abitazione adeguata, fattori che spesso portano le coppie a rinviare o addirittura a rinunciare a un ulteriore figlio.

Già oggi, l’Italia perde 150.000 posti di lavoro soprattutto a causa della crisi demografica. Trovare la causa di questa denatalità è difficile, ma necessario, per evitare che l’effetto domino si allarghi. Un primo punto è capire che non esiste una “causa” della denatalità, ma tante “cause” che si influenzano a vicenda. Tra queste, il lavoro è la principale.

I salari bassi

Il lavoro influenza la scelta di avere figli in due modi: i salari e il work-life balance.

Sotto il primo profilo, si noti che l’Italia è l’unico Paese dell’area Ocse con i salari reali fermi al secolo scorso. Come evidenziato dall’Inapp (rapporto di dicembre 2023), tra il 1991 e il 2022 i salari reali nel Belpaese sono rimasti cresciuti dell’1% a fronte del 32,5% in media registrato nell’area Ocse. La forte ondata inflattiva seguita agli incentivi durante la pandemia e alla guerra in Ucraina ha peggiorato la situazione. Nel 2023 gli italiani hanno speso 8.755 euro per le cosiddette spese obbligate su un totale di circa 21mila euro pro capite di consumi. Nel frattempo, gli stipendi sono rimasti al palo. Uno studio condotto dall’Istituto Sindacale Europeo (ETUI) ha evidenziato la correlazione tra bassi salari e carenza di manodopera in Europa. L’analisi (pubblicata nel 2023) ha coinvolto 22 dei 27 Paesi europei rivelando che i settori con maggiori difficoltà nel reclutamento offrono retribuzioni inferiori del 9% rispetto a quelli meno colpiti dalla carenza di personale.

Alla base dei salari bassi c’è anche un problema di produttività, ma alla base di questa scarsa produttività c’è anche l’invecchiamento della popolazione. Dalla seconda metà degli anni Novanta la crescita della produttività è stata di gran lunga inferiore rispetto ai Paesi del G7, con un gap del 25,5% nel 2021.

Il rapporto Inapp evidenzia l’effetto domino della crisi demografica. Mentre nel 2002 ogni 1.000 persone con età compresa tra 19 e 39 anni ce n’erano poco più di 900 nella fascia 40-64 anni, nel 2023 quest’ultimo valore ha superato le 1.400 unità: 1.900 lavoratori adulti-anziani ogni 1.000 lavoratori di 19-39 anni.

Scarsa produttività e scarsa remunerazione del lavoro vivono in osmosi: salari troppo bassi non stimolano i lavoratori e la scarsa produttività ostacola l’aumento salariale. Una dinamica lineare, così come è intuitivo il fatto che se aumenta l’età media dei lavoratori, diminuisce necessariamente la produttività.

L’allarme era scattato già con i dati relativi a novembre 2023, quando l’Istat aveva certificato il record occupazionale, poi superato a dicembre: 23 milioni e 743 mila lavoratori, tra permanenti e a termine. Nota negativa: dei 520 mila occupati in più registrati a novembre 2023 rispetto a novembre 2022, ben 477 mila erano over 50.

Il work life balance e la discriminazione di genere

Nella società moderna i ritmi produttivi sono più elevati del passato e, soprattutto a causa di un importante gap tecnologico, i lavoratori italiani devono sudare più dei coetanei europei per raggiungere lo stesso output. Inoltre, sono ancora poche le aziende italiane che danno spazio al work-life balance. A parte qualche media o grande impresa, concedere maggiore elasticità ai lavoratori è ancora visto come un ostacolo al profitto aziendale. Non a caso, L’Italia è quart’ultima in Europa per equilibrio tra vita privata e lavoro (analisi European Life-Work Balance Index di Remote).

Cosa significa questo? Che molte donne sono costrette a scegliere tra famiglia e lavoro. E in una società sempre più competitiva e incerta, sempre più donne scelgono il lavoro. Una situazione analoga si registra in Giappone e in Corea del Sud dove gli individui vengono inseriti in un contesto estremamente competitivo sin dai primi anni di età. Il governo di Tokyo ha inserito la settimana corta per i dipendenti pubblici con l’obiettivo di rilanciare la natalità, anche se gli effetti, nella migliore delle ipotesi, non saranno visibili a breve termine.

Tornando all’Italia i dati sono eloquenti. A due anni dal congedo di maternità una lavoratrice guadagna dal 10% al 35% in meno di quanto avrebbe guadagnato se non avesse avuto figli. Tra le lavoratrici intervistate molte dichiarano di voler lasciare il lavoro e di queste l’80,8% ha un impiego full time e il 19,2% part time come emerso dall’indagine ‘Non sostenibilità del lavoro femminile in Italia’ del Centro Studi Nodus pubblicata nel 2023. Nello stesso anno, la relazione annuale sulle convalide delle dimissioni delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, presentate entro i primi tre anni dalla nascita dei figli, ha dimostrato quanto sia difficile essere una madre lavoratrice in Italia: il 72,8% delle dimissioni convalidate riguardava le neomamme. Tenere insieme i due impegni, è una fatica per il 63% delle mamme lavoratrici contro il del 7,1% dei papà che hanno dato la stessa motivazione come causa delle dimissioni.

Anche gli uomini ne sono sempre più consapevoli e chiedono di avere più tempo per i propri figli. Ancora oggi, per i neopapà il congedo obbligatorio è di appena dieci giorni, segno incontrovertibile di un’arretratezza che è sì economica, ma anche culturale. Per questo, il presidente dell’Inps Gabriele Fava ha proposto di innalzare dal 30% all’80% della retribuzione l’indennità per il terzo mese di congedo parentale, ma solo per i papà. L’attuale disciplina del congedo parentale concede a ciascun genitore dipendente la possibilità di prendersi fino a dieci mesi di congedo retribuito (con l’indennità all’80% limitata a una mensilità), da fruire nei primi 12 anni di vita del figlio.

Tuttavia, nonostante le disposizioni legislative che incentivano l’uso condiviso del congedo, sono soprattutto le madri a richiedere il congedo e a usufruirne per periodi più estesi. Una circostanza che cozza persino con l’obiettivo del congedo parentale, come ha spiegato il direttore centrale Studi e Ricerche dell’Inps Gianfranco Santoro: “Se il fine del congedo parentale è quello di favorire l’occupazione femminile, lo si riservi al padre”.

La paura per il futuro

Quando si parla di famiglie Dink si parla di coppie che hanno scelto di non avere figli nonostante l’agiatezza economica. Anzi, proprio per non abbassare il proprio tenore di vita fatto di cene fuori, vacanze e vari sfizi nella vita di tutti i giorni.

C’è anche un fattore culturale dietro questo fenomeno, una narrazione che ha progressivamente tolto importanza alla famiglia per spostarla sulla carriera. Una società più individualista fa meno figli, a prescindere dal reddito.

Sul piano culturale non è tutto.

Molti giovani decidono di non avere figli perché hanno paura di lasciarli in un mondo pieno di insidie, a partire da quelle ambientali. Per loro l’atto davvero egoistico sarebbe quello di mettere al mondo degli individui senza poterli proteggere da un cambiamento che è troppo più veloce di qualsiasi essere umano. L’l’indagine promossa da Merck ‘Salute emotiva della Generazione Zeta e dei Millenials: cosa muove i giovani europei?’ (2023) ha rivelato che il 76% dei giovani intervistati (7.500 in tutto) vuole avere figli ma in una società completamente diversa da quella attuale. L’indagine ha coinvolto cittadini europei di 19-26 anni (Generazione Zeta) e 26-36 anni (Millenials). La percentuale rilevata in Italia sulla possibilità di diventare genitore è di 5 punti superiore rispetto alla media del campione, pari al 71%.

All’orizzonte però non si vedono grossi miglioramenti né sotto il profilo retributivo, né sotto il profilo ambientale. Intanto, le famiglie Dink aumentano, perché per avere i figli non basta avere i soldi.

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Giovani, donne e precari: il divario salariale non lascia...

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Gender Gap Investimenti

Nel panorama del mercato del lavoro italiano, le disparità retributive tra uomini e donne, giovani e anziani, continuano a segnare un divario che si estende in modo imprevisto. Nel 2022, l’Italia ha visto un ampliarsi delle disuguaglianze nel panorama retributivo, con una spaccatura che separa uomini e donne, giovani e meno giovani, lavoratori con contratti temporanei e quelli con contratti a tempo indeterminato. Questo quadro, che emerge dalle analisi dell’Istat, rivela non solo le disuguaglianze salariali di genere, ma anche come la generazione di appartenenza e la tipologia contrattuale influenzino profondamente il reddito. Nonostante i segnali di ripresa dell’occupazione, il divario tra salari e produttività alimenta un paradosso che continua a crescere, e che mostra un’Italia dove chi lavora, talvolta, guadagna meno e produce di più.

Il Gender Pay Gap

Ogni anno l’Istat ci fornisce un report che è come un termometro del nostro mercato del lavoro. E se c’è una cosa che emerge chiaramente è che la parità salariale tra uomini e donne è ancora un obiettivo lontano. Nel 2022, la retribuzione media oraria tra le donne si è fermata a 15,9 euro, ben 0,5 euro in meno rispetto alla media generale, che si attesta a 16,4 euro. E gli uomini? Loro si fermano a 16,8 euro, guadagnando circa 0,4 euro in più. Ma il divario non si ferma qui: i laureati vedono un gap che tocca il 16,6%, e tra i dirigenti il divario è addirittura del 30,8%. Non è un caso che le professioni più alte siano quelle con la più bassa presenza femminile.

C’è da chiedersi: perché? La risposta, seppur semplice, è complessa. Le donne continuano a essere concentrate in settori con retribuzioni più basse e in posizioni decisionali meno influenti. Dall’istruzione all’assistenza sociale, passando per il settore sanitario, molte delle professioni più femminilizzate non sono certo quelle che pagano meglio. La disparità non riguarda solo l’importo finale della busta paga, ma anche la distribuzione dei ruoli ai vertici aziendali, dove la presenza maschile resta predominante.

Per fortuna, in alcuni settori, la disparità salariale è meno marcata. Nel comparto pubblico, ad esempio, il differenziale scende al 5,2%, con le donne che, in molti casi, raggiungono retribuzioni orarie più alte rispetto alle colleghe del settore privato. Ma se passiamo all’altro lato della medaglia, quello delle professioni altamente specializzate, la situazione si fa meno rosea. Tra i dirigenti, per esempio, le donne guadagnano circa 15 euro in meno ogni ora, con una distanza che si fa più profonda man mano che si sale nella gerarchia. Non si può fare a meno di pensare a quanto questa realtà tradisca il principio di meritocrazia tanto caro alle politiche aziendali.

Generazioni a confronto

Passando dalla divisione di genere a quella generazionale, scopriamo che il giovane lavoratore italiano è un’altra vittima di una struttura salariale che premia l’esperienza, ma forse troppo. La retribuzione oraria media degli under 30 è infatti inferiore del 36,4% rispetto a quella degli over 50, con un gap che raggiunge il 38,5% per gli uomini e il 33,3% per le donne. A meno di non essere un genio del coding o una mente creativa nell’ambito del marketing, essere giovani in Italia sembra sinonimo di salari bassi e contratti precari.

A parità di condizioni, i giovani non solo guadagnano meno, ma hanno anche maggiori difficoltà a entrare nel mercato del lavoro in modo stabile. Contratti a tempo determinato, stage non retribuiti e lavori sottopagati sono all’ordine del giorno. Eppure, la crescita occupazionale in Italia è ai massimi storici, come racconta l’Istat. Si parla di un tasso di disoccupazione al minimo storico (5,7%), ma questo non corrisponde a una crescita della produttività, che ha subito una flessione del 2,5% nell’ultimo anno. È come se l’occupazione fosse cresciuta “a vuoto”, senza un vero incremento della produzione.

Molti giovani, infatti, si trovano costretti ad accettare condizioni lavorative che non rispecchiano il loro potenziale, spingendo la produttività del lavoro a livelli molto bassi. La “perdita” in termini di salario per i giovani italiani è evidente, e la loro produttività non migliora se non in relazione ad un aumento effettivo dei salari. In altre parole, avere un lavoro oggi non è più un privilegio che ti permette di crescere: è una necessità che ti spinge a fare di più, ma senza un ritorno equo.

Un mercato che punisce il contratto a tempo determinato

Un altro dato che emerge dal report dell’Istat e che merita attenzione è quello che riguarda il tipo di contratto. I lavoratori con un contratto a tempo determinato guadagnano mediamente il 24,6% in meno rispetto a quelli a tempo indeterminato. Un dato che fa riflettere, soprattutto se consideriamo che i contratti precari colpiscono in modo più intenso le donne, le quali percepiscono, in media, una retribuzione inferiore del 15,6% rispetto ai colleghi uomini con un contratto stabile.

Tuttavia, anche in questo caso, ci sono delle variabili che complicano ulteriormente la situazione. Se il lavoratore con un contratto a tempo determinato si trova a operare in settori ad alta intensità di lavoro, come la ristorazione o l’ospitalità, il gap salariale diventa ancora più ampio. Mentre le retribuzioni più alte si registrano nelle attività finanziarie e assicurative (ben 25,9 euro l’ora), quelle più basse sono legate ai settori con una forte presenza di contratti precari, dove la retribuzione media è di 10,9 euro l’ora.

Il risultato? La creazione di un sistema di disuguaglianza che penalizza chi è già in una posizione vulnerabile. I lavoratori precari, di solito i più giovani e le donne, sono costretti a operare in settori meno redditizi e con maggiore incertezza, con salari che non solo sono inferiori, ma che non consentono neanche una vita dignitosa. Come se la crescente precarietà non fosse sufficiente, il settore pubblico si salva, paradossalmente, grazie a un sistema che offre maggiore stabilità economica, ma che, a lungo andare, non cambia molto per chi, appunto, non è ancora entrato in questo mercato.

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L'associazione: "'Casta discografica' che si ripercuote su qualità della musica e danneggia altri artisti, verificare possibili anomalie" Dopo la pubblicazione...