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Fuga da Piazza Affari, l’esperto: ‘Si parla di 28 miliardi in uscita, vi spiego perché il delisting’
"Pesano costi di quotazione elevati, la storica dipendenza dal credito bancario e una mentalità di breve termine che scoraggia gli investitori"
Un miliardo in entrata, ventotto in uscita. È il bilancio di un mercato dei capitali che perde pezzi, colpendo soprattutto le piccole e medie imprese. Se un tempo la Borsa era un traguardo, oggi il delisting per molti è una scelta strategica. A pesare sono costi di quotazione elevati, la storica dipendenza dal credito bancario e una mentalità di breve termine che scoraggia gli investitori. A tracciare lo scenario all'Adnkronos è l'analista Pietro Calì. "Si parla di 28 miliardi in uscita rispetto a 1 miliardo in entrata: queste le conseguenze dei delisting", sottolinea. "Al di là delle big come Cnh soprattutto il mercato mid e small è stato colpito. Sulle società a piccola capitalizzazione il delisting è conseguenza della scarsa liquidità sul mercato, pochi pochissimi scambi, fa riflettere il fatto che fino a qualche anno fa la quotazione era un traguardo, un obiettivo. Adesso tutt'altro, e il Delisting non è considerato un fallimento. Negli ultimi 4 anni 100 società hanno lasciato Piazza Affari", prosegue Calì. Ma quali sono i fattori che pesano?
Costi di quotazione elevati... 6/7% del capitale
I costi di quotazione sono alti. "Per costi di quotazione - sottolinea Calì - intendiamo i costi diretti e indiretti, nell'iter di quotazione ci sono diverse figure necessarie come società di revisione, studi legali, società di comunicazione, advisor e global cordinator. Il costo si aggira intorno al 6/7% del capitale raccolto. L'iter di quotazione è tendenzialmente molto complesso. I costi inoltre non sono una tantum, ma alcuni sono ricorrenti. Come è giusto che sia la quotazione pretende grande trasparenza. E la trasparenza per le aziende ha un costo", sottolinea.
E la cultura del ... debito.. guadate a Mps
La cultura finanziaria italiana si basa ancora sul finanziamento bancario, sul debito. "Proprio per questo - evidenzia l'analista - la cultura delle azioni è molto meno radicata rispetto al mondo anglosassone (le azioni per gli italiani sono poco presenti in percentuale rispetto al mercato americano). È una questione di cultura e fiducia", sottolinea. Il problema, prosegue, "è che se il finanziamento non è regolato del mercato si possono creare distorsioni in riferimento al merito creditizio". Ciò che è successo a banche come Mps, chiosa, ''è la conseguenza del sistema non meritocratico dei finanziamenti il direttore di banca che concede finanziamenti non realmente coperti. Questa cultura forse è l'aspetto più grave e impattante in un sistema che, per essere competitivo, deve cambiare", evidenzia.
E quel vizio di non guardare lontano..
Le aziende quotate in Borsa hanno spesso manager la cui abilità è valutata sul breve termine. "Se io sono Ad di una società spesso tendo a essere misurato su obiettivi di breve termine", sottolinea Calì. "Chi porta ottimi numeri nel breve termine spesso sul lungo si sbaglia", dice. "Ma questo è un paradigma generale sul business. La sostenibilità di una azienda può essere penalizzata dalla redditività di breve termine, come conseguenza ci possiamo trovare aziende e dunque titoli che nel lungo termine si ritrovano in difficoltà. Deludendo le aspettative degli azionisti. Nelle non quotate, rimarca l'analista, "il management, avendo meno trasparenza, può avere più spazio e tempo per manovre di ampio respiro e lungo termine".
Ma non tutto va male.. oggi in Italia sono quotate 420 società da 837 mld
Barbara Lunghi, responsabile dei mercati primari azionari di Borsa Italiana, traccia il quadro: "Oggi in Italia sono quotate oltre 420 società con una capitalizzazione complessiva di 837 miliardi di euro", sottolinea. "Sono società di tutte le dimensioni, dalle piccole e piccolissime a società di maggiori dimensioni e appartengono a tutti i settori dell'economia italiana", afferma. "Le società italiane quotate - spiega - attraggono già oggi molti investitori internazionali, per un totale di 9.000 fondi e oltre 2 mila case di investimento". I primi investitori, sottolinea, sono americani, il 34%, seguiti dagli investitori istituzionali europei al 32 per cento. Di questi, la quota italiana è piuttosto limitata e pari all'8 per cento. Seguono gli investitori del Regno Unito al 19% e dall'Asia, il 2%".
C'è chi lavora per facilitare l'ingresso in Borsa
Fabrizio Testa, amministratore delegato di Borsa italiana, ribadisce che negli ultimi anni sono state portate alla quotazione molte più società di quelle delistate. "Quello che noi cerchiamo di fare - evidenzia - è facilitare l'ingresso in Borsa e lo facciamo su vari tavoli di lavoro, ad esempio con la task force del Tesoro abbiamo partecipato al draft della legge capitali e poi con un manifesto abbiamo supportato anche l'attivazione di un fondo di fondi che poi Cdp ha attivato. Ci sono altre altre iniziative, quindi l'intento è veramente di far sì che la Borsa porti risorse alternative di finanziamento alle società". Quello del delisting, rimarca Testa, non è solo un fenomeno italiano, è un fenomeno internazionale. Sono fasi abbastanza cicliche. Il delisting, spiega Testa, ha varie nature, spesso la maggior parte sono consolidamento e quindi Opa volte poi a far entrare delle eccellenze. (di Andrea Persili)
Finanza
DeepSeek, esperta: “Regolamentazione non basta, ecco...
La strategia funzionale a colmare il gap competitivo con le imprese straniere e garantire lo sviluppo di sistemi di IA con massicci interventi economici
L'intelligenza artificiale è ormai terreno di competizione globale tra Stati Uniti e Cina, che investono miliardi puntando su modelli open source e politiche di deregolamentazione. In Europa, l'approccio equilibrato e garantista del Regolamento sull’IA rischia di non bastare per colmare il divario tecnologico. Come evidenziato dal Rapporto Draghi, è necessario un massiccio intervento economico per sviluppare tecnologie rispettose dei diritti fondamentali e mantenere la competitività delle imprese europee. Lo sostiene in un'intervista all'Adnkronos Giulia Mariuz, partner di Hogan Lovells commentando l’attenzione mediatica sollevata in questi giorni dal fenomeno DeepSeek.
Un fenomeno che non ha solo una ricaduta tecnologica..
"Esattamente, siamo nel mezzo di una vera e propria corsa globale all’IA, che si gioca in prima battuta sul piano tecnologico, ma che ha inevitabilmente delle ripercussioni formidabili a livello geopolitico, sociale ed industriale. In questo panorama, è evidente la volontà degli Stati Uniti, con l’insediamento di Trump e il suo Stargate AI project da un lato, e della Cina, con l’impegno del suo governo in materia di IA e il successo del modello open source di DeepSeek, di aggiudicarsi il primato e posizionarsi come potenze dell’Ia.
Direi la tempesta perfetta..
"E' così e questo spinge inevitabilmente a una riflessione giuridica in merito alla regolamentazione di tali tecnologie e al futuro ruolo dell’Europa".
Cioè?
"L’Unione Europea con il Regolamento sull’Ia ha scelto un approccio equilibrato, seppur garantista, che ha come perno la tutela dei diritti fondamentali e, seguendo un approccio risk-based, si propone di normare in maniera dettagliata solo gli aspetti maggiormente impattanti, mantenendo una posizione meno dogmatica sul resto".
Una scelta rischiosa, soprattutto dal punto di vista economico...
"E' una scelta condivisibile, ma non è sufficiente, da sola, a garantire che l’Unione Europea diventi un leader globale a livello di IA, in particolare a fronte degli investimenti miliardari da parte di Stati Uniti e Cina, associati alla volontà di questi Paesi di applicare una politica di deregolamentazione.
Che fare?
"Vale la pena richiamare il Rapporto di Mario Draghi, il quale sottolinea la necessità di un massiccio intervento economico dell’Europa in relazione alle nuove tecnologie e all’IA, funzionale a colmare il gap competitivo con le imprese straniere e garantire lo sviluppo di sistemi di IA rispettosi dei principi del Regolamento sull’IA". (di Andrea Persili)
Finanza
Mediobanca contro l’offerta Mps, “distrugge...
Nella storia più o meno recente della finanza italiana si è sempre ragionato in termini di sufficiente o insufficiente creazione di valore: i precedenti
Le parole hanno un peso, sempre. Quelle usate dal cda di Mediobanca per respingere al mittente l'offerta di Mps sono particolarmente dure, anche guardando ai precedenti di cui è piena la storia recente, e meno recente, della finanza italiana. Quasi sempre i consigli di amministrazione delle prede si schierano contro l'offerta pianificata dal predatore. Anche solo in una prospettiva negoziale e per tutelare i consiglieri con le garanzie legali del caso. La prima parte della nota del cda di Piazzetta Cuccia va in questa direzione: "L’offerta non è stata concordata ed è da ritenersi ostile e contraria agli interessi di Mediobanca...". Poi però c'è il passaggio che, con dovizia di particolari, definisce l'operazione "fortemente distruttiva di valore", perché priva di senso industriale e finanziario. E qui si marca una differenza evidente in termini di comunicazione, che diventa in questi casi un elemento sostanziale e non formale, con le formule utilizzate da altri cda.
Ripercorrendo a ritroso le operazioni più recenti, e restando al 'valore' che generano, basta citare la nota del cda di Banco Bpm sull'offerta di Unicredit, "non riflette in alcun modo la redditività e l’ulteriore potenziale di creazione di valore per gli azionisti di Banco Bpm", o anche le parole di Jens Weidmann, presidente del consiglio di sorveglianza di Commerzbank, che parlando dell'acquisto di quote della banca tedesca da parte di Unicredit dice di dubitare che "le acquisizioni ostili nel settore bancario possano creare valore in modo duraturo". Da segnalare che in questo caso non si tratta della valutazione formale del Consiglio di Sorveglianza, perché non c'è ancora un'offerta da parte di Unicredit.
Andare un po' più a ritroso nella storia aiuta a contestualizzare l'aria che tira a Piazzetta Cuccia rispetto alla mossa a sorpresa di Mps. Nel luglio 2020 il cda di Ubi Banca respingeva l'offerta di Intesa Sanpaolo, poi andata in porto, definendola "non concordata con l'emittente e non conveniente per gli azionisti di Ubi Banca". A febbraio 2017, la stessa Intesa Sanpaolo parlava di mancata creazione di valore per spiegare le ragioni del passo indietro rispetto all'offerta pensata per prendere il controllo di Generali: "Il management di Intesa Sanpaolo ha completato le valutazioni di ipotesi riguardanti possibili combinazioni industriali con Assicurazioni Generali e, alla luce delle analisi condotte in base alle informazioni allo stato pubblicamente disponibili sul gruppo assicurativo, non ha individuato opportunità rispondenti ai criteri di creazione e distribuzione di valore per i propri azionisti, in coerenza con l’obiettivo di mantenimento della leadership di adeguatezza patrimoniale con cui valuta regolarmente le opzioni di crescita endogena ed esogena per il Gruppo".
Dieci anni prima, a maggio 2007, a valle dell'acquisizione di Capitalia da parte di Unicredit, l'allora amministratore delegato della banca romana Matteo Arpe presentava le sue dimissioni scrivendo in una lettera inviata a consiglio di amministrazione e collegio sindacale di aver dato la "disponibilità a rassegnare le dimissioni al fine di rendere possibile un’aggregazione che può sicuramente rappresentare per la banca e il sistema finanziario italiano ed europeo un’ipotesi di straordinario valore".
Che si tratti di formule di rito o di prese d'atto di circostanza, la 'creazione di valore' è un fattore che la finanza ha sempre considerato più o meno rilevante per valutare operazioni e scelte. Mettere nero su bianco, nei termini scelti dal cda di Mediobanca, la 'distruzione del valore' vuol dire enfatizzare quella che si ritiene una scelta evidentemente velleitaria da parte di Mps e degli azionisti che la sostengono: Tesoro, Caltagirone e Delfin. (Di Fabio Insenga)
Finanza
Mps su Mediobanca, ecco cosa può succedere adesso: lo...
Il fronte guidato da Luigi Lovaglio, con il supporto di Francesco Milleri (Delfin) e Francesco Gaetano Caltagirone, potrebbe non essere disposto a mollare la presa
Non è passata inosservata negli ambienti finanziari la durezza con cui Mediobanca ha respinto l'Ops di Mps, definendola "fortemente distruttiva di valore". Un'affermazione che non solo segna un chiaro rifiuto dell'offerta, ma potrebbe anticipare l'inizio di una vera e propria partita a risiko nel settore bancario, già in pieno risiko. Se fino a ieri sembrava un'ipotesi remota, oggi – soprattutto con i richiami agli intrecci azionari che coinvolgono Delfin e Caltagirone che non sono sfuggiti agli osservatori – il quadro rischia di evolvere rapidamente, con esiti incerti, compresa la possibilità di una "conta" tra azionisti.
Il fronte guidato da Luigi Lovaglio, con il supporto di Francesco Milleri (Delfin) e Francesco Gaetano Caltagirone, potrebbe non essere disposto a mollare la presa, come suggeriscono diverse voci in ambienti finanziari. Gli analisti prospettano una possibile strategia in tre mosse per rispondere al no secco di Mediobanca: la prima è il dialogo diretto con gli azionisti, in particolare quelli istituzionali che detengono circa il 35% delle azioni di Mediobanca, con BlackRock che possiede una quota superiore al 4%. Mps cercherebbe di convincerli a sostenere l'operazione, puntando sul ritorno economico maggiore.
Il secondo passo sarebbe quello di migliorare l'offerta, rendendola più allettante per il mercato e aumentando le probabilità di successo. Infine, se il dialogo e il miglioramento dell’offerta non dovessero portare ai risultati sperati, la mossa finale potrebbe essere quella di convocare un’assemblea straordinaria per ottenere un voto diretto dagli azionisti, bypassando il veto del management. "Si tratta di una mossa ‘nucleare’, andare sopra il management: determinare i soci a favore dell’acquisizione e i soci contro, in una conta finale che ha un po’ il sapore dei vecchi film western", sottolinea l'analista finanziario Giorgio Vintani.
Secondo chi guarda favorevolmente all’Ops, l'operazione ha una sua logica strategica. Un'integrazione con Mediobanca potrebbe essere vantaggiosa sia per Montepaschi sia per Mediobanca stessa, che soffre di una carenza strutturale di funding diretto. Mps, grazie ai suoi depositi, potrebbe colmare questa lacuna. Fabio Caldato, Portfolio Manager di AcomeA SGR, osserva all'Adnkronos che l’operazione è ancora nella fase iniziale e che l’offerente dovrà fare concessioni e chiarire la governance del gruppo risultante. "Non parliamo di un takeover, ma di un merger tra strutture complementari con una governance centralizzata", spiega Caldato, aggiungendo che il controllo sarebbe esteso tramite deleghe forti a manager competenti per area. Il futuro della trattativa è incerto e dipenderà dalle prossime mosse. La partita è aperta, ma la tensione cresce, con l'intero panorama bancario italiano a guardare. (di Andrea Persili)