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Il linguista Antonelli: “La grammatica è glamour, insegnanti giochino con le parole”

Intervistato dall'AdnKronos lo studioso presenta il suo ultimo libro 'Il Mago delle parole" in cui suggerisce un metodo fuori dagli schemi per rendere materie, apparentemente polverose, affascinanti come una caccia al tesoro

Il linguista Antonelli:

Un modo di insegnare giocoso, fantasioso, brillante. Fuori dagli schemi ma legato alla realtà in cui vivono i nativi digitali. Moderno e inedito. Un saggio narrativo che indica una via nuova per rendere materie, solo apparentemente polverose, affascinanti come una caccia al tesoro. Un viaggio alla scoperta dell'origine delle parole di tutti i giorni e delle regole grammaticali che stabiliscono il funzionamento della nostra lingua. Ma, allo stesso tempo, un suggerimento a tutti gli insegnanti per rendere le ore in aula più piacevoli e produttive: la scuola dovrebbe "spiazzare" gli allievi facendoli incuriosire. Giuseppe Antonelli, ordinario di storia della lingua italiana all'Università di Pavia, affida questi propositi al suo ultimo libro 'Il mago delle parole' pubblicato da Einaudi.

Qual è la sua ricetta e il consiglio che si sente di dare agli insegnanti che leggeranno il suo libro? "Cercare di fare leva su un elemento di divertimento, di ironia, di gioco, di passione, di sfida sparigliando le carte. Lo scopo è semplice: far capire che la grammatica non è noiosa ma, al contrario, è una grande figata, è glamour. Il libro è uno dei tanti modi per raccontare la storia della lingua italiana e alcuni aspetti della storia delle parole. Ci sono dei capitoli sulle strutture grammaticali, sugli accenti. E' uno dei tanti modi per affrontare l'ora di italiano. E' chiaro che quello riportato nel libro è un modo favolistico di insegnare. Però mi piacerebbe che, a leggere questo testo oltre ai ragazzi e alle ragazze e per certi versi prima di loro, fossero gli insegnanti. Mi piacerebbe che il libro permettesse alle persone che insegnano a scuola e che fanno un lavoro durissimo, sottopagato, socialmente sottostimato, di tornare in aula con uno spirito nuovo".

Nelle sue pagine ha tratteggiato la figura di un maestro davvero particolare che riesce ad attirare l'attenzione dei suoi allievi. A chi si è ispirato? "Volevo raccontare lo stupore e la magia di incontrare un maestro inteso come una figura che, a un certo punto della tua vita, monopolizza la tua attenzione e ti indica una strada". Per realizzare questo progetto, avevo bisogno di mettermi dalla parte degli studenti. Non potevo scrivere un saggio perché non avrebbe reso l'emozione che volevo trasmettere. Ho pensato a uno studente timido, impacciato, insicuro come sono gli allievi tra l'ultimo anno delle medie e i primi anni delle superiori. La mia proiezione è la voce narrante. Il professore che descrivo è quello che avrei sempre voluto avere: è l'insieme del professor Keating dell''Attimo Fuggente' o del mio allenatore di atletica. C'è sicuramente qualcosa di Luca Serianni, che è il mago delle parole che ha cambiato la mia vita. Il suo carisma era basato su una straordinaria misura e su uno straordinario understatement. Era una persona fuori dal comune, un grandissimo maestro, un didatta che trasmetteva tantissimo attraverso l'insegnamento. Tutto il resto è frutto della fantasia. E' un professore che compie anche scelte radicali: non mette mai i voti ma, alla fine dell'anno, scrive dei giudizi in forma di sonetti legati a una forma di incoraggiamento. La fantasia è legata a un atteggiamento che a me piacerebbe ci fosse sempre in chi insegna: la volontà di spiazzare. Credo che sparigliare sia un ottimo modo per attirare l'attenzione di ragazze e ragazzi che sono sempre più distratti e distratte".

Il suo professore adotta delle strategie specifiche? "Una delle tecniche che usa è quella del maestro 'zen'. Un insegnante che pone ai suoi allievi un quesito che sembra assurdo. Una domanda che crea negli studenti un meccanismo di riattivazione. Mi piacerebbe che questo fosse un libro che potesse riattivare dei contenuti che, presentati in forma saggistica, rischiavano di rimanere statici. Ho voluto costruire anche una relazione fondata sul dialogo e sul confronto tra il professore e gli studenti. Un elemento che manca molto nel metodo di insegnamento al quale siamo abituati in Italia è la capacità di dialogare con i ragazzi. Nel libro, invece, c'è sempre un controcanto dialogico rappresentato, peraltro, in un italiano vero. Questo perché l'unico italiano vero che tutti noi parliamo in una situazione di spontaneità è venato di elementi regionali. Per dare credibilità al confronto ho scelto l'italiano di Roma".

Valutando lo stato di salute della lingua, c'è qualcosa che la preoccupa? "Molti italiani non sono in grado di comprendere il senso di un editoriale. Si tratta dell'analfabetismo funzionale. Continuano ad arrivarci dati Ocse in cui si dice grosso modo che un terzo della popolazione, formata non solo dai giovani ma anche purtroppo dagli adulti, fatica fino in fondo a capire cosa c'è scritto in un articolo di giornale. Gli strumenti che utilizziamo per comunicare, compresi i social, stanno creando una frantumazione del testo. Ci stiamo disabituando quindi - non solo noi che veniamo da una testualità scritta tradizionale ma anche chi è nato in questo mondo, cioè i cosiddetti nativi digitali - a un testo che abbia una struttura composta". (di Carlo Roma)

Un team di giornalisti altamente specializzati che eleva il nostro quotidiano a nuovi livelli di eccellenza, fornendo analisi penetranti e notizie d’urgenza da ogni angolo del globo. Con una vasta gamma di competenze che spaziano dalla politica internazionale all’innovazione tecnologica, il loro contributo è fondamentale per mantenere i nostri lettori informati, impegnati e sempre un passo avanti.

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Cultura

La Tabarrata nazionale arriva a Lucca

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Ingresso gratuito alla mostra “Giacomo Puccini Manifesto” per chi indossa un Tabarro

La Tabarrata nazionale arriva a Lucca

Sabato 1 febbraio la Tabarrata nazionale arriva a Lucca. Ingresso gratuito alla mostra “Giacomo Puccini Manifesto” per chi indossa un Tabarro

Si terrà a Lucca sabato 1 febbraio la Tabarrata Nazionale, il più grande raduno di amanti del Tabarro, il mantello a ruota che ha lontanissime origini ed è legato in modo indissolubile alla tradizione dell’intero territorio italiano e non solo. Si tratta dell’ottava Tabarrata Nazionale, un evento annuale che, edizione dopo edizione (Parma, Casalmaggiore, Vicenza, Oleggio, Cittadella, Bassano del Grappa, Chioggia), ha raccolto sempre più consensi e partecipanti. Organizzata dall’associazione Civiltà del Tabarro con l’aiuto e il patrocinio del Comune di Lucca, la Tabarrata Nazionale 2025 renderà omaggio a Giacomo Puccini, compositore lucchese dell’opera “Il Tabarro”.

Il programma della Tabarrata Nazionale 2025 prevede il ritrovo dei tabarristi alle 15:00 presso piazza Cittadella, dinanzi alla statua di Giacomo Puccini e alla sua casa natale. Alle 15:30 vi sarà la visita alla mostra “Giacomo Puccini Manifesto. Pubblicità e illustrazione oltre l’opera lirica”, insieme al curatore Simone Pellico. La mostra espone infatti oltre cento manifesti pubblicitari originali, tra cui i cartelloni relativi proprio all’opera ‘Il Tabarro’: quello storico del 1918, prestato dal Museo nazionale Collezione Salce, e la rivisitazione contemporanea di Riccardo Guasco per il Teatro comunale di Bologna”. In occasione della Tabarrata, per tutta la giornata l’ingresso alla mostra sarà gratuito per coloro che indosseranno il mantello.

Seguirà alle ore 17:30 un concerto sulle arie pucciniane e la conferenza “Sentimenti della Civiltà del Tabarro”, con Sandro Zara maestro del Tabarro e Roberto Dal Bosco e Corrado Beldì, presidente e segretario della Civiltà del Tabarro. Infine, la tradizionale premiazione dei tabarristi dell’anno.

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Attualità

La Farfalla Impazzita: Giulia Spizzichino, dal trauma della...

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La storia, a volte, si mostra come un paesaggio sfocato: racconti troppo lontani nel tempo per riaccendere sentimenti veri. Eppure ci sono momenti in cui tutto si fa vivido e tremendo, come un lampo che squarcia il cielo. È quello che succede guardando La farfalla impazzita, il film che la Rai ha trasmesso in prima serata il 29 gennaio e che ora si può trovare su RaiPlay. Non stiamo parlando di un semplice racconto di guerra o di un documento per i posteri: qui c’è la vita stessa di Giulia Spizzichino, una donna che, a costo di sanguinare ancora, ha deciso di donare la propria testimonianza su alcuni fra i capitoli più atroci del Novecento.

Sì, perché Giulia non era soltanto una sopravvissuta all’eccidio delle Fosse Ardeatine, dove in un colpo solo perse 26 familiari. Era anche colei che, decenni più tardi, avrebbe avuto il coraggio di guardare in faccia l’ex ufficiale nazista Erich Priebke e sfidarlo in tribunale. Questa sua storia di dolore e determinazione è l’anima del film diretto da Kiko Rosati, tratto dall’omonimo libro che Giulia scrisse insieme a Roberto Riccardi, pubblicato per la prima volta nel 2013.

Un’anziana signora ebrea romana, una ferita mai rimarginata, la voglia di ottenere giustizia: ecco, in sintesi, i cardini attorno ai quali ruota La farfalla impazzita. Eppure, forse, la definizione di “cardini” è troppo rigida. Qui nulla rimane fermo; c’è, piuttosto, un tremolio incessante – proprio come le ali di una farfalla che non riesce a posarsi. Ecco perché Giulia si è definita così, “farfalla impazzita”: sempre in movimento, sempre in fuga dal passato o in corsa verso un brandello di verità.

Un salto indietro: dal rastrellamento di Roma al dolore che non guarisce

Torniamo per un attimo al 1944, quando l’Italia piangeva lacrime indescrivibili sotto il tallone nazista. Giulia, poco più che adolescente, vide andare in frantumi la propria famiglia. Chi finì deportato, chi venne giustiziato senza un briciolo di pietà. Il film, così come le pagine del libro, ricostruisce quell’orrore con immagini che bruciano ancora oggi. C’è una sequenza, nel racconto di Giulia, che lascia il fiato sospeso: la madre intenta a riconoscere le salme dei suoi cari attraverso pezzetti di stoffa sopravvissuti ai massacri. Basti questo a dare la misura della tragedia.

Molti penserebbero che, finita la guerra, iniziasse una nuova vita. Ma per Giulia non è stato così semplice. Impossibile dimenticare il piccolo cuginetto di appena cinque anni. Impossibile perdonare chi ha strappato in modo tanto crudele le sue zie, i nonni, gli zii, lasciandole soltanto un vuoto urlante al posto di un futuro sereno. Dentro di lei, un’angoscia silenziosa che l’ha resa “aspra e dura”, come dice Elena Sofia Ricci, l’attrice che ne interpreta il ruolo nella pellicola.

L’incontro con il passato che riapre la voragine

Nel film, la storia parte dal 1994, con Giulia che si ritrova a guardare uno spezzone televisivo su Rai 1, dove riconosce, quasi senza volerci credere, il volto di sua madre in un vecchio filmato. È un momento straziante: rivedere quella donna che tocca i resti dei propri cari e capisce che non c’è più nulla da fare.

Da quel punto in poi, Giulia viene risucchiata in una spirale di ricordi. Accetta a fatica di intervenire in quello stesso studio televisivo, esponendosi così a tutto il peso delle sue memorie. Vorrebbe scappare, se potesse. Ma non si può fuggire all’infinito. Se la chiamiamo “farfalla impazzita” è proprio perché nessun rifugio sembra abbastanza sicuro per lei.

Poi, a un certo punto, arriva la richiesta della Comunità ebraica di Roma. Vogliono coinvolgerla per ottenere l’estradizione di Erich Priebke dall’Argentina, dove il criminale nazista conduceva una vita tranquilla a Bariloche, un posto ai confini del mondo, incastonato fra le montagne. È un colpo allo stomaco: significa tornare a guardare in faccia il carnefice, rischiare di spalancare ferite che forse non si erano mai nemmeno chiuse. Giulia non se la sente, sulle prime. Poi, quasi con la stessa disperazione di chi ha perso tutto, accetta di diventare testimone, sperando di fare giustizia non solo per sé, ma per i tanti morti che le urlano ancora dentro.

Bariloche e l’incontro con le Madri di Plaza de Mayo

Al centro di questo viaggio c’è un cambio di prospettiva che forse neanche Giulia si aspettava. Lei, ebrea romana, tormentata dall’eccidio delle Fosse Ardeatine, attraversa l’oceano per incontrare donne che hanno sofferto in un altro contesto, un altro tempo, un’altra dittatura. Le Madri di Plaza de Mayo, simbolo di un’Argentina che non ha mai dimenticato i propri figli scomparsi, incrociano il cammino di Giulia. E succede qualcosa di enorme: il dolore si specchia nel dolore, la rabbia si intreccia alla rabbia, e nasce uno slancio di solidarietà potentissimo.

È in quelle strade argentine, dove gli “scomparsi” non hanno volti ma bandane bianche, che Giulia capisce di non essere sola. Non lo è quando, con voce tremante, si ritrova a parlare davanti a un pubblico che l’ascolta con rispetto. Non lo è quando racconta dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, della necessità che Priebke venga estradato, processato, costretto a rispondere dei suoi crimini. Non lo è neppure quando scopre quanto la sofferenza di chi ha perso figli e nipoti, pur con radici diverse, abbia la stessa intensità bruciante.

L’estradizione di Erich Priebke: una battaglia di civiltà

Ciò che accade dopo è storia: la lotta di Giulia finisce sui tavoli della giustizia internazionale. Con il sostegno dell’avvocato Restelli, la voce di questa donna coraggiosa si fa sentire forte e chiara. L’Argentina tenta di resistere, di trattenere Priebke. Ma la pressione mediatica e morale si fa intollerabile. Alla fine, Priebke viene estradato in Italia per affrontare il processo. E lì, nell’aula di tribunale, avviene l’atto finale del dramma: Giulia testimonia contro di lui, faccia a faccia con l’uomo che, ordinando e gestendo gli omicidi delle Fosse Ardeatine, ha distrutto il suo mondo per sempre.

Non è una sfida epica, con luci di scena e applausi. È un momento cupo, intriso di un’angoscia tremenda. Ma Giulia, in quell’istante, sceglie di riaprire la ferita e di mostrarla a tutti. Per lei è l’unico modo per tentare di avere un pizzico di giustizia, sebbene la vendetta non le appartenga. Vuole soltanto che la Storia prenda atto dei responsabili e che i fatti non vengano seppelliti da un pericoloso silenzio. Forse proprio in quell’aula inizia un processo di liberazione che, pur essendo parziale e mai definitivo, la aiuta a sopportare il peso di ricordi insostenibili.

Un passato che ci riguarda sempre: la dimensione universale di Giulia

La farfalla impazzita non è solo un film che riguarda l’Olocausto o la comunità ebraica italiana. È un’opera che mette al centro un tema universale: chi subisce violenze, chi perde i propri cari, chi sopporta l’orrore, non può restare in silenzio. Le vittime sono vittime, i carnefici sono carnefici, qualunque sia la lingua che parlano o il contesto storico in cui si muovono. Giulia ce lo mostra con la sua testimonianza e Kiko Rosati ce lo sbatte in faccia con la regia di questa pellicola.

Se ci si sofferma a pensare, si vedono echi di quella sofferenza in mille altre situazioni del mondo. In Argentina, le Madri di Plaza de Mayo combattono contro i fantasmi di una dittatura spietata, mentre Giulia combatte contro i fantasmi del nazismo. E se ci guardiamo attorno, scopriamo che in tanti Paesi si vivono ancora guerre, persecuzioni e dittature, spesso dimenticate o ignorate. Forse è qui che risiede la grande lezione del film: non si tratta di risolvere il passato, ma di tenere gli occhi aperti sul presente.

Il coraggio di Elena Sofia Ricci e la forza del cast

Nel dare vita a Giulia, Elena Sofia Ricci compie un lavoro straordinario. Non è facile interpretare una donna dura, disincantata, che ha sepolto sotto strati di cinismo la propria parte più intima. Eppure, attraverso sguardi, silenzi e improvvisi scatti di commozione, Ricci rende palpabile la sofferenza di Giulia. Al suo fianco c’è Fulvio Pepe nel ruolo dell’avvocato Restelli, risoluto e comprensivo, quasi un contrappeso alla durezza di lei. E poi c’è la presenza simbolica di figure come le Madri di Plaza de Mayo, rappresentate sullo schermo con un’intensità che raramente si vede.

Perché “farfalla impazzita”?

Il titolo è un dettaglio fondamentale che svela la vera natura di Giulia. Nel libro che lei e Roberto Riccardi hanno scritto, La farfalla impazzita, si racconta di come Giulia, dopo quella retata del 16 ottobre 1943 e dopo aver passato un’infanzia inseguita dall’orrore, non sia mai riuscita a fermarsi. Perché fermarsi significava risprofondare negli incubi, restare immobile tra i resti di un massacro. Meglio agitarsi, sbattere le ali in mille direzioni, sperare di sfuggire a un destino di silenzio.

Invece di tacere, ha parlato. Invece di fingere che la ferita fosse rimarginata, l’ha mostrata a tutta l’Argentina e poi, in tribunale, alla giustizia italiana. E così, la farfalla impazzita ha finito per regalare a tutti noi un pezzetto di memoria viva, di consapevolezza di ciò che è accaduto.

Un appello alle nuove generazioni: “Fate la rivoluzione”

C’è un momento in cui Elena Sofia Ricci, presentando il film, si rivolge ai più giovani. E lo fa riprendendo un appello di Giulia: qui si parla di rivoluzione, ma non quella delle armi; piuttosto una rivoluzione culturale. Un cambiamento che passa dalla sete di conoscenza, dall’amore per i libri, dallo studio della storia e dalla voglia di comprendere fino in fondo le sue lezioni.

In effetti, come spiega la stessa Ricci, non si è mai fatto abbastanza per evitare il ripetersi di certi crimini. Viviamo in un presente in cui ancora si erigono muri, si calpestano diritti, si assiste inermi a violenze di ogni sorta. La memoria, si direbbe, a volte ci scivola via dalle mani. E allora è essenziale che le nuove generazioni si muovano, si indignino, si impegnino a non accettare passivamente gli orrori e le ingiustizie.

Una storia che continua a pulsare: il senso di questo film

Se la Rai ha deciso di trasmettere La farfalla impazzita in un giorno tanto simbolico come quello dedicato alla Shoah, non è soltanto per commemorare. Lo ha fatto per ricordarci che la conoscenza di fatti – come la strage delle Fosse Ardeatine e la persecuzione degli ebrei – non è un vuoto esercizio scolastico, ma un dovere morale.

Siamo davanti a un’opera che tocca il cuore, ma al tempo stesso scuote la mente. Non è un film che si guarda per intrattenimento, anzi, a tratti può risultare duro e opprimente. Ma proprio in questa asprezza risiede la sua verità. C’è la speranza di Giulia che, raccontando la sua vita, possa impedire il ripetersi di simili tragedie. C’è lo sguardo delle Madri di Plaza de Mayo, che ci fa capire come un’incompiuta richiesta di giustizia possa attraversare l’oceano. C’è la determinazione del regista Kiko Rosati, che sceglie di mostrarci immagini capaci di ferire la coscienza, pur di darci un messaggio chiaro: non dobbiamo mai restare indifferenti.

Dalle parole alle immagini: un invito alla riflessione

È vero, tanti film hanno affrontato il tema dell’Olocausto, alcuni in modo magistrale, altri in maniera più didascalica. La farfalla impazzita arriva a iscriversi in questa lista aggiungendo una prospettiva personale, quasi intima, sul trauma. Non è una pellicola che si limita a narrare l’orrore su scala mondiale, ma si concentra su una singola voce, quella di Giulia e sul suo viaggio. E così facendo, ci permette di cogliere la dimensione umana, privata, dietro a una strage che spesso ci appare come un evento storico lontano.

Attraverso lo sguardo di Giulia, diventiamo testimoni delle conseguenze che durano una vita, delle cicatrici che restano nella mente e nel cuore di chi è sopravvissuto, e ci rendiamo conto che la guerra, la persecuzione, lo sterminio non cessano di tormentare le vittime neanche dopo la firma di un trattato di pace.

La forza di un’eredità che non svanisce

Oggi, abbiamo tante possibilità per documentarci. Possiamo leggere libri, guardarci centinaia di documentari, scorrere siti dedicati alla memoria storica. Ma a volte occorre incontrare un volto, una voce, una mano che scrive e dice: “Io c’ero, io ho visto.” La farfalla impazzita ci offre esattamente questo.

Forse, al termine di un film del genere, la risposta non può che essere un richiamo deciso a non voltare le spalle al passato, a non archiviare i ricordi in un cassetto, e soprattutto a non rassegnarci davanti alle ingiustizie contemporanee. Perché le parole di Giulia Spizzichino, “Le vittime sono sempre vittime, i carnefici sono sempre carnefici”, ci ricordano che il confine fra dignità umana e brutalità può essere valicato in fretta, se non rimaniamo vigili.

Ecco, questa è l’eredità più potente che La farfalla impazzita ci lascia. Un invito, sì, ma al tempo stesso una sfida: rialzarci quando l’angoscia sembra volerci togliere ogni speranza, ascoltare le storie di chi ha perso tanto, fare gruppo, studiare, reagire. Non c’è nulla di più importante che comprendere perché certe tragedie sono successe e soprattutto, impedire che possano accadere di nuovo. Giulia, dal suo canto, ci ha insegnato che anche un cuore sfinito può trovare la forza di lottare, se c’è in gioco il futuro di tutti. E noi, nel nostro piccolo, non possiamo che far tesoro di questa sua straordinaria lezione.

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Cultura

Un’accusa di ‘amichettismo’ rivolta anche...

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Tra passato e presente, in un articolo pubblicato su Treccani.it la vicenda del Sommo Poeta accusato di avere favorito il rientro anzitempo dall'esilio dell'amico Guido Cavalcanti

Un'accusa di 'amichettismo' rivolta anche a Dante

Nel 2024 la parola 'amichettismo', coniata e lanciata dallo scrittore Fulvio Abbate, ha tenuto banco ed è entrata nei neologismi Treccani come sinonimo di 'familismo' e 'nepotismo', soprattutto in politica: se la Storia la fanno solo i leader che, per definizione, camminano sempre soli, quelli invece che pretendono di muoversi in gruppo sarebbero amichettisti, familisti, nepotisti, dispensatori di privilegi e prebende.

Ma già nel XIV secolo possiamo parlare di una accusa eclatante di 'amichettismo' rivolta a Dante Alighieri, per avere favorito il rientro anzitempo dall'esilio dell'amico poeta Guido Cavalcanti a Firenze nell'agosto del 1300, come racconta la storica Chiara Mercuri, docente di Esegesi delle fonti medievali all'Istituto Teologico di Assisi e alla Pontificia Università Lateranense, in un articolo pubblicato su Treccani.it ("L'amichettismo di Dante"). Un'accusa da cui Dante si lasciò fortemente intimidire, come risulta dalla lettera oggi perduta, indirizzata ai Fiorentini, "Popule mee, quid feci tibi?", che il segretario della Repubblica fiorentina Leonardo Bruni nel Quattrocento ebbe ancora tra le mani. In essa, spiega la professoressa Mercuri, Dante tiene a discolparsi collocando il provvedimento nella seconda metà dell'agosto del 1300, quando lui non era più priore, e precisando che i priori allora in carica assunsero tale decisione non per favorire gli amici - come si sosteneva nella propaganda dei Neri - ma in ragione delle gravi condizioni di salute di Guido Cavalcanti; il quale, in esilio a Sarzana, aveva contratto la malaria, di cui sarebbe morto pochi giorni dopo il rientro in patria, il 29 agosto del 1300, come pure attesta la sua sepoltura in Santa Reparata.

Attenzione però a non esagerare con le accuse di 'amichettismo', sottolinea la Treccani, ricordando che il suo coniatore, Fulvio Abbate, ha utilizzato il termine in senso diverso da come è oggi impiegato nel linguaggio politico, riferendosi originariamente ad un clima di conformismo culturale generato da un'acritica difesa degli amici e delle amiche non nel merito di ciò che essi fanno, ma per ciò che essi rappresentano per noi, i nostri amici appunto. Si potrebbe arrivare altrimenti al paradosso di definire 'amichettista' Carlo Rosselli, che fece pubblicare sul suo giornale, "Non mollare", i suoi amici, tutti di fede antifascista, o il movimento letterario d'avanguardia Gruppo 63, che rischierebbe di essere ricordato come una casta 'amichettista' d'intellettuali che si sosteneva a vicenda per dare voce a un'idea di mondo e di cultura precisa. E persino Gesù di Nazaret il quale affidò, com'è noto, l'edificazione della propria Chiesa ai suoi più stretti amici, sebbene l'unico 'privilegio' che ne trassero gli apostoli fu di condividere con Lui martiri e persecuzioni.

(di Paolo Martini)

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