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Bianca Atzei: “Mi hanno rotto il finestrino dell’auto due volte. Ho paura di girare a Milano”

La cantante si è sfogata sui social condividendo la foto della sua auto parcheggiata nel centro meneghino

Bianca Atzei - Fotogramma/IPA

"In un mese è la seconda volta che mi spaccano il vetro della macchina". Queste le parole di Bianca Atzei che oggi, martedì 28 gennaio, ha scoperto che la sua macchina è stata colpita, nuovamente, da dei vandali che hanno mandato in frantumi il finestrino.

Le parole sui social

La cantante ha condiviso sulle Instagram stories la foto in cui riprende la sua macchina danneggiata, parcheggiata nel centro meneghino, in zona Porta Nuova, e mostra chiaramente che il vetro del finestrino - lato conducente - è stato totalmente distrutto. "La bella notizia è che c'è una bella telecamera proprio davanti alla mia macchina. Non vedo l'ora di conoscere il tuo faccino", scrive Bianca Atzei che potrebbe risalire all'identità di colui ha compiuto l'atto vandalico.

La 37enne ha confessato di essere molto preoccupata riguardo la poca sicurezza che si respira tra le vie di Milano, a causa dei frequenti episodi di violenza o aggressioni: "Ovviamente da tempo ho paura di andare in giro per Milano - si sfoga -. La sera non esco da sola se non con il mio compagno... e dalle 18 in poi uscire con mio figlio mi preoccupa. Come mi preoccupa il suo futuro".

 

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Interviste

Cosimo Alberti: Teatro, TV e il sogno del cinema –...

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Ciao Cosimo, ben ritrovato sulle pagine virtuali di Sbircia la Notizia Magazine!

Sono trascorsi quasi tre anni dalla nostra ultima chiacchierata. Ora sei di nuovo qui con noi e ne siamo davvero entusiasti! In questo frattempo, il tuo percorso si è arricchito di nuovi capitoli e chissà quante altre cose hai da raccontarci. Dunque, rompendo gli indugi, partiamo subito con questa nuova intervista!

Negli ultimi anni ti sei dato molto da fare in ambito teatrale. Hai portato in scena spettacoli di grande successo al “Teatro Sannazaro”, allo ” IAV – In arte Vesuvio” e in altri luoghi storici di Napoli. Qual è stata l’emozione più forte di questa nuova fase?

In realtà, non è poi tanto nuova, perché faccio teatro da trentadue anni ormai. Nasco attore teatrale e, quando ho iniziato a respirare la polvere del palcoscenico, non sono più riuscito a farne a meno. Le tavole del palcoscenico e la sua polvere sono una droga per me, nonostante io lavori in televisione e mi cimenti nel cinema. Però, in effetti, una nuova fase c’è, ed è quella che sto sperimentando in questi ultimi anni nei miei lavori teatrali, ovvero l’abbattimento della “quarta parete”: arrivare al proscenio, scendere nel golfo mistico, giungere in platea e unirmi allo spettatore, facendolo diventare parte integrante dello spettacolo. Lo spettatore diventa protagonista e, insieme a me, formiamo la compagnia che si esibisce quella sera; ed ogni sera è una compagnia diversa. È una formula che funziona molto e diverte tutti, a cominciare da me. Si tratta di una messa in scena prevalentemente comica, ma con piccole incursioni drammatiche, che abbraccia tanti generi teatrali come il “Varietà”, la “Farsa”, l’avanspettacolo, e diversi stili di interpretazione come il “Macchiettista”, il “Cantante di giacca”, il “Cantatore popolare”. Lo spettacolo ha per titolo Il grande artista ed è dedicato ai capolavori di quei maestri che hanno reso celebre Napoli nel mondo. Siamo arrivati alla seconda edizione con nuovi e accattivanti quadri, ed è già pronta la terza.

Il tuo personaggio, Salvatore Cerruti, sembra essersi evoluto parecchio di recente. In che modo la scrittura della soap ha influenzato la tua recitazione e ci sono state caratteristiche inedite che ti hanno permesso di andare oltre la comicità?

La mia recitazione, in generale, è improntata sulla spontaneità e, nello specifico, per Sasà Cerruti cerco di recitare nel modo più naturale possibile. Desidero creare un personaggio che possa sembrare vero agli occhi dei telespettatori, permettendo a molti di identificarsi in lui e a tanti altri di riconoscere nell’interprete televisivo un parente, un amico, un collega. A volte, il mio personaggio si trova in dinamiche comiche che potremmo definire sopra le righe, difficilmente realizzabili nella realtà, ma non bisogna dimenticare che Sasà appartiene alla linea Comedy della soap.

Che ruolo hanno  i social nella tua comunicazione e nel tuo modo di essere artista?

Hanno un ruolo importantissimo. Sono il mezzo di comunicazione più veloce e divulgativo in assoluto. Ti danno una forte visibilità e, per chi fa un mestiere come il mio, basato proprio sulla visibilità, è indispensabile avere un profilo social. Io sono iscritto a tutte le piattaforme più importanti. Pubblicizzo i miei percorsi artistici, ho un folto numero di follower e un pubblico che partecipa ai miei spettacoli. Mi permette di seguire i miei colleghi, le loro carriere e di essere sempre aggiornato su tutto ciò che accade nel mondo. Uso i social solo per lavoro. Non condivido i miei stati d’animo, se non in sporadici momenti di gioia. Non mi piace assillare le persone con i miei problemi, che – ti assicuro – affliggono anche me come tutti. Perché, quindi, continuare ad affliggerli? Non giudico chi lo fa, ma a me non piace. A volte i social ci sfuggono di mano: molti non capiscono che postare un pensiero è come aprire la finestra e urlarlo in piazza. Inutile poi dilungarmi sui danni causati dai social quando non vengono usati correttamente: vedi il cyberbullismo e il body shaming. Insomma, credo fortemente che bisognerebbe introdurre una nuova materia: Educazione ai Social!

In passato avevi espresso il desiderio di cimentarti in parti drammatiche, lontane dalla vena comica. Hai avuto occasioni in questi ultimi mesi per metterti alla prova in ruoli più impegnati a livello emotivo?

Nel corso delle mie dieci edizioni in Un posto al sole non sono mancate scene drammatiche che mi hanno permesso di dimostrare che so recitare anche al di fuori dell’ambito comico. Le caratteristiche inedite, a cui facevi riferimento nella domanda precedente, le ho potute far emergere, ad esempio, quando il mio personaggio voleva compensare il suo senso paterno fingendo di essere il padre naturale del figlio di Mariella. Altre occasioni ci sono state quando Sasà ha dovuto affrontare la vergogna di essere stato scoperto omosessuale nel suo ambiente di lavoro, un comando di polizia municipale. In seguito, ha dovuto far fronte all’omofobia del padre, che lo detestava, e alla debolezza del fidanzato, che non riesce a fare coming out e che, per questo, decide di lasciarlo.

Ogni artista ha un sogno nel cassetto: un ruolo particolare, un palco prestigioso o magari un film in arrivo. Svelaci qualcosa di ciò che bolle in pentola e che ancora non hai avuto modo di realizzare...

Voglio diventare un attore affermato di cinema. Ogni tanto ottengo qualche ruolo che non definirei nemmeno secondario. Mi è capitato di rifiutarne qualcuno perché, oltre a essere secondari, erano personaggi davvero brutti. Ho passato lunghi periodi senza neanche una convocazione per un provino su parte. La mia agenzia dice che è difficile lavorare nel mondo dell’audiovisivo: in Italia esistono troppi attori e si è formata una casta. Io aggiungo che, se è per questo, anche nel teatro è difficile, specialmente a Napoli, dove siamo tutti attori e lavorano sempre gli stessi! Io non demordo, credo fortemente nel mio sogno nel cassetto di diventare un attore affermato di cinema. Infatti, all’inizio della risposta alla tua domanda, non ho usato il condizionale “vorrei diventare…”, ma l’indicativo presente “Voglio”.

La tua città ha un fascino unico. C’è un angolo di Napoli a cui sei particolarmente legato in questo momento, un luogo che ti ispira nuove idee o un rifugio in cui ti ricarichi?

Sono tantissimi i luoghi di Napoli che mi piacciono, ma ce ne sono due in particolare che mi affascinano e catturano. Uno è la Pignasecca e il suo mercato. Credo che, in una vita passata, io abbia abitato nella piazza nei pressi della stazione di Montesanto, perché ne subisco un fascino ancestrale. Il luogo in cui, invece, vorrei abitare è Santa Lucia, all’ultimo piano di uno di quei bei palazzi sul lungomare che porta a Castel dell’Ovo. Lì ho visto la luna specchiarsi sul mare, con dietro il Vesuvio, creando il panorama più bello al mondo che io abbia mai visto nella mia vita, finora.

Siamo arrivati alla fine e che dire… grazie, Cosimo. Ogni volta riesci a trasmettere qualcosa di unico, quasi magico. Ascoltare i tuoi racconti è come entrare in un mondo fatto di passione, emozioni e vita vera. Aspetteremo con ansia il momento in cui ti ritroveremo nei commenti sui social, con la tua allegria e il tuo calore. A presto, Cosimo… e grazie per la simpatia con cui ci contagi ogni giorno!

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Attualità

La Farfalla Impazzita: Giulia Spizzichino, dal trauma della...

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La storia, a volte, si mostra come un paesaggio sfocato: racconti troppo lontani nel tempo per riaccendere sentimenti veri. Eppure ci sono momenti in cui tutto si fa vivido e tremendo, come un lampo che squarcia il cielo. È quello che succede guardando La farfalla impazzita, il film che la Rai ha trasmesso in prima serata il 29 gennaio e che ora si può trovare su RaiPlay. Non stiamo parlando di un semplice racconto di guerra o di un documento per i posteri: qui c’è la vita stessa di Giulia Spizzichino, una donna che, a costo di sanguinare ancora, ha deciso di donare la propria testimonianza su alcuni fra i capitoli più atroci del Novecento.

Sì, perché Giulia non era soltanto una sopravvissuta all’eccidio delle Fosse Ardeatine, dove in un colpo solo perse 26 familiari. Era anche colei che, decenni più tardi, avrebbe avuto il coraggio di guardare in faccia l’ex ufficiale nazista Erich Priebke e sfidarlo in tribunale. Questa sua storia di dolore e determinazione è l’anima del film diretto da Kiko Rosati, tratto dall’omonimo libro che Giulia scrisse insieme a Roberto Riccardi, pubblicato per la prima volta nel 2013.

Un’anziana signora ebrea romana, una ferita mai rimarginata, la voglia di ottenere giustizia: ecco, in sintesi, i cardini attorno ai quali ruota La farfalla impazzita. Eppure, forse, la definizione di “cardini” è troppo rigida. Qui nulla rimane fermo; c’è, piuttosto, un tremolio incessante – proprio come le ali di una farfalla che non riesce a posarsi. Ecco perché Giulia si è definita così, “farfalla impazzita”: sempre in movimento, sempre in fuga dal passato o in corsa verso un brandello di verità.

Un salto indietro: dal rastrellamento di Roma al dolore che non guarisce

Torniamo per un attimo al 1944, quando l’Italia piangeva lacrime indescrivibili sotto il tallone nazista. Giulia, poco più che adolescente, vide andare in frantumi la propria famiglia. Chi finì deportato, chi venne giustiziato senza un briciolo di pietà. Il film, così come le pagine del libro, ricostruisce quell’orrore con immagini che bruciano ancora oggi. C’è una sequenza, nel racconto di Giulia, che lascia il fiato sospeso: la madre intenta a riconoscere le salme dei suoi cari attraverso pezzetti di stoffa sopravvissuti ai massacri. Basti questo a dare la misura della tragedia.

Molti penserebbero che, finita la guerra, iniziasse una nuova vita. Ma per Giulia non è stato così semplice. Impossibile dimenticare il piccolo cuginetto di appena cinque anni. Impossibile perdonare chi ha strappato in modo tanto crudele le sue zie, i nonni, gli zii, lasciandole soltanto un vuoto urlante al posto di un futuro sereno. Dentro di lei, un’angoscia silenziosa che l’ha resa “aspra e dura”, come dice Elena Sofia Ricci, l’attrice che ne interpreta il ruolo nella pellicola.

L’incontro con il passato che riapre la voragine

Nel film, la storia parte dal 1994, con Giulia che si ritrova a guardare uno spezzone televisivo su Rai 1, dove riconosce, quasi senza volerci credere, il volto di sua madre in un vecchio filmato. È un momento straziante: rivedere quella donna che tocca i resti dei propri cari e capisce che non c’è più nulla da fare.

Da quel punto in poi, Giulia viene risucchiata in una spirale di ricordi. Accetta a fatica di intervenire in quello stesso studio televisivo, esponendosi così a tutto il peso delle sue memorie. Vorrebbe scappare, se potesse. Ma non si può fuggire all’infinito. Se la chiamiamo “farfalla impazzita” è proprio perché nessun rifugio sembra abbastanza sicuro per lei.

Poi, a un certo punto, arriva la richiesta della Comunità ebraica di Roma. Vogliono coinvolgerla per ottenere l’estradizione di Erich Priebke dall’Argentina, dove il criminale nazista conduceva una vita tranquilla a Bariloche, un posto ai confini del mondo, incastonato fra le montagne. È un colpo allo stomaco: significa tornare a guardare in faccia il carnefice, rischiare di spalancare ferite che forse non si erano mai nemmeno chiuse. Giulia non se la sente, sulle prime. Poi, quasi con la stessa disperazione di chi ha perso tutto, accetta di diventare testimone, sperando di fare giustizia non solo per sé, ma per i tanti morti che le urlano ancora dentro.

Bariloche e l’incontro con le Madri di Plaza de Mayo

Al centro di questo viaggio c’è un cambio di prospettiva che forse neanche Giulia si aspettava. Lei, ebrea romana, tormentata dall’eccidio delle Fosse Ardeatine, attraversa l’oceano per incontrare donne che hanno sofferto in un altro contesto, un altro tempo, un’altra dittatura. Le Madri di Plaza de Mayo, simbolo di un’Argentina che non ha mai dimenticato i propri figli scomparsi, incrociano il cammino di Giulia. E succede qualcosa di enorme: il dolore si specchia nel dolore, la rabbia si intreccia alla rabbia, e nasce uno slancio di solidarietà potentissimo.

È in quelle strade argentine, dove gli “scomparsi” non hanno volti ma bandane bianche, che Giulia capisce di non essere sola. Non lo è quando, con voce tremante, si ritrova a parlare davanti a un pubblico che l’ascolta con rispetto. Non lo è quando racconta dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, della necessità che Priebke venga estradato, processato, costretto a rispondere dei suoi crimini. Non lo è neppure quando scopre quanto la sofferenza di chi ha perso figli e nipoti, pur con radici diverse, abbia la stessa intensità bruciante.

L’estradizione di Erich Priebke: una battaglia di civiltà

Ciò che accade dopo è storia: la lotta di Giulia finisce sui tavoli della giustizia internazionale. Con il sostegno dell’avvocato Restelli, la voce di questa donna coraggiosa si fa sentire forte e chiara. L’Argentina tenta di resistere, di trattenere Priebke. Ma la pressione mediatica e morale si fa intollerabile. Alla fine, Priebke viene estradato in Italia per affrontare il processo. E lì, nell’aula di tribunale, avviene l’atto finale del dramma: Giulia testimonia contro di lui, faccia a faccia con l’uomo che, ordinando e gestendo gli omicidi delle Fosse Ardeatine, ha distrutto il suo mondo per sempre.

Non è una sfida epica, con luci di scena e applausi. È un momento cupo, intriso di un’angoscia tremenda. Ma Giulia, in quell’istante, sceglie di riaprire la ferita e di mostrarla a tutti. Per lei è l’unico modo per tentare di avere un pizzico di giustizia, sebbene la vendetta non le appartenga. Vuole soltanto che la Storia prenda atto dei responsabili e che i fatti non vengano seppelliti da un pericoloso silenzio. Forse proprio in quell’aula inizia un processo di liberazione che, pur essendo parziale e mai definitivo, la aiuta a sopportare il peso di ricordi insostenibili.

Un passato che ci riguarda sempre: la dimensione universale di Giulia

La farfalla impazzita non è solo un film che riguarda l’Olocausto o la comunità ebraica italiana. È un’opera che mette al centro un tema universale: chi subisce violenze, chi perde i propri cari, chi sopporta l’orrore, non può restare in silenzio. Le vittime sono vittime, i carnefici sono carnefici, qualunque sia la lingua che parlano o il contesto storico in cui si muovono. Giulia ce lo mostra con la sua testimonianza e Kiko Rosati ce lo sbatte in faccia con la regia di questa pellicola.

Se ci si sofferma a pensare, si vedono echi di quella sofferenza in mille altre situazioni del mondo. In Argentina, le Madri di Plaza de Mayo combattono contro i fantasmi di una dittatura spietata, mentre Giulia combatte contro i fantasmi del nazismo. E se ci guardiamo attorno, scopriamo che in tanti Paesi si vivono ancora guerre, persecuzioni e dittature, spesso dimenticate o ignorate. Forse è qui che risiede la grande lezione del film: non si tratta di risolvere il passato, ma di tenere gli occhi aperti sul presente.

Il coraggio di Elena Sofia Ricci e la forza del cast

Nel dare vita a Giulia, Elena Sofia Ricci compie un lavoro straordinario. Non è facile interpretare una donna dura, disincantata, che ha sepolto sotto strati di cinismo la propria parte più intima. Eppure, attraverso sguardi, silenzi e improvvisi scatti di commozione, Ricci rende palpabile la sofferenza di Giulia. Al suo fianco c’è Fulvio Pepe nel ruolo dell’avvocato Restelli, risoluto e comprensivo, quasi un contrappeso alla durezza di lei. E poi c’è la presenza simbolica di figure come le Madri di Plaza de Mayo, rappresentate sullo schermo con un’intensità che raramente si vede.

Perché “farfalla impazzita”?

Il titolo è un dettaglio fondamentale che svela la vera natura di Giulia. Nel libro che lei e Roberto Riccardi hanno scritto, La farfalla impazzita, si racconta di come Giulia, dopo quella retata del 16 ottobre 1943 e dopo aver passato un’infanzia inseguita dall’orrore, non sia mai riuscita a fermarsi. Perché fermarsi significava risprofondare negli incubi, restare immobile tra i resti di un massacro. Meglio agitarsi, sbattere le ali in mille direzioni, sperare di sfuggire a un destino di silenzio.

Invece di tacere, ha parlato. Invece di fingere che la ferita fosse rimarginata, l’ha mostrata a tutta l’Argentina e poi, in tribunale, alla giustizia italiana. E così, la farfalla impazzita ha finito per regalare a tutti noi un pezzetto di memoria viva, di consapevolezza di ciò che è accaduto.

Un appello alle nuove generazioni: “Fate la rivoluzione”

C’è un momento in cui Elena Sofia Ricci, presentando il film, si rivolge ai più giovani. E lo fa riprendendo un appello di Giulia: qui si parla di rivoluzione, ma non quella delle armi; piuttosto una rivoluzione culturale. Un cambiamento che passa dalla sete di conoscenza, dall’amore per i libri, dallo studio della storia e dalla voglia di comprendere fino in fondo le sue lezioni.

In effetti, come spiega la stessa Ricci, non si è mai fatto abbastanza per evitare il ripetersi di certi crimini. Viviamo in un presente in cui ancora si erigono muri, si calpestano diritti, si assiste inermi a violenze di ogni sorta. La memoria, si direbbe, a volte ci scivola via dalle mani. E allora è essenziale che le nuove generazioni si muovano, si indignino, si impegnino a non accettare passivamente gli orrori e le ingiustizie.

Una storia che continua a pulsare: il senso di questo film

Se la Rai ha deciso di trasmettere La farfalla impazzita in un giorno tanto simbolico come quello dedicato alla Shoah, non è soltanto per commemorare. Lo ha fatto per ricordarci che la conoscenza di fatti – come la strage delle Fosse Ardeatine e la persecuzione degli ebrei – non è un vuoto esercizio scolastico, ma un dovere morale.

Siamo davanti a un’opera che tocca il cuore, ma al tempo stesso scuote la mente. Non è un film che si guarda per intrattenimento, anzi, a tratti può risultare duro e opprimente. Ma proprio in questa asprezza risiede la sua verità. C’è la speranza di Giulia che, raccontando la sua vita, possa impedire il ripetersi di simili tragedie. C’è lo sguardo delle Madri di Plaza de Mayo, che ci fa capire come un’incompiuta richiesta di giustizia possa attraversare l’oceano. C’è la determinazione del regista Kiko Rosati, che sceglie di mostrarci immagini capaci di ferire la coscienza, pur di darci un messaggio chiaro: non dobbiamo mai restare indifferenti.

Dalle parole alle immagini: un invito alla riflessione

È vero, tanti film hanno affrontato il tema dell’Olocausto, alcuni in modo magistrale, altri in maniera più didascalica. La farfalla impazzita arriva a iscriversi in questa lista aggiungendo una prospettiva personale, quasi intima, sul trauma. Non è una pellicola che si limita a narrare l’orrore su scala mondiale, ma si concentra su una singola voce, quella di Giulia e sul suo viaggio. E così facendo, ci permette di cogliere la dimensione umana, privata, dietro a una strage che spesso ci appare come un evento storico lontano.

Attraverso lo sguardo di Giulia, diventiamo testimoni delle conseguenze che durano una vita, delle cicatrici che restano nella mente e nel cuore di chi è sopravvissuto, e ci rendiamo conto che la guerra, la persecuzione, lo sterminio non cessano di tormentare le vittime neanche dopo la firma di un trattato di pace.

La forza di un’eredità che non svanisce

Oggi, abbiamo tante possibilità per documentarci. Possiamo leggere libri, guardarci centinaia di documentari, scorrere siti dedicati alla memoria storica. Ma a volte occorre incontrare un volto, una voce, una mano che scrive e dice: “Io c’ero, io ho visto.” La farfalla impazzita ci offre esattamente questo.

Forse, al termine di un film del genere, la risposta non può che essere un richiamo deciso a non voltare le spalle al passato, a non archiviare i ricordi in un cassetto, e soprattutto a non rassegnarci davanti alle ingiustizie contemporanee. Perché le parole di Giulia Spizzichino, “Le vittime sono sempre vittime, i carnefici sono sempre carnefici”, ci ricordano che il confine fra dignità umana e brutalità può essere valicato in fretta, se non rimaniamo vigili.

Ecco, questa è l’eredità più potente che La farfalla impazzita ci lascia. Un invito, sì, ma al tempo stesso una sfida: rialzarci quando l’angoscia sembra volerci togliere ogni speranza, ascoltare le storie di chi ha perso tanto, fare gruppo, studiare, reagire. Non c’è nulla di più importante che comprendere perché certe tragedie sono successe e soprattutto, impedire che possano accadere di nuovo. Giulia, dal suo canto, ci ha insegnato che anche un cuore sfinito può trovare la forza di lottare, se c’è in gioco il futuro di tutti. E noi, nel nostro piccolo, non possiamo che far tesoro di questa sua straordinaria lezione.

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Tv & Gossip

My Home My Destiny: il sorprendente ritorno di Cemile e la...

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Ci sono situazioni in cui la vita sembra quasi incepparsi, come se un ingranaggio mancasse all’appello. E a volte, è proprio l’amore a diventare l’unico pezzo capace di sbloccare tutto. In queste ultimissime puntate italiane di My Home My Destiny, la trama ci ricorda continuamente che l’inaspettato può bussare alla porta nel momento più grigio. Ma procediamo con calma, perché di sfumature ce ne sono davvero tante: c’è chi scappa, chi resta fermo con gli occhi nel vuoto e chi interviene per riunire due cuori che sembravano aver smarrito la stessa direzione.

L’inizio della frattura: Nuh e la lontananza di Cemile

Certe storie nascono forti, ma poi si incrinano con sorprendente rapidità. È esattamente ciò che è accaduto a Nuh (Fatih Koyunoğlu) quando Cemile (Elif Sönmez) ha deciso di allontanarsi. Questa scelta è stata come uno scossone improvviso: un trasferimento lontano da Istanbul, insieme a Benal (Incinur Sevimli) e alla piccola Mujgan, ha infranto equilibri già parecchio delicati.

Nuh, dal canto suo, ha provato a soffocare la delusione buttandosi sul lavoro. Ogni giorno, sin dalle prime luci dell’alba, si destreggia tra il ruolo di autista per Bariş Tunahan (Engin Ozturk) e quello di tuttofare in un ristorante di prossima apertura, progetto condiviso da Nermin (Senan Kara), Sultan (Hülya Duyar), Sakine (Zuhal Gencer) e Ali Riza (Hakan Salınmış). Se lo vedeste, vi farebbe quasi tenerezza: sempre in movimento, ma con lo sguardo perso in una malinconia che non trova tregua.

Emine: l’amica che non abbandona mai

Tra i vari personaggi, c’è qualcuno che ha avuto un ruolo fondamentale per risvegliare la speranza in Nuh. Parliamo di Emine (Naz Göktan), la giovane donna che ha notato fin da subito quei segnali inequivocabili di tristezza. I suoi tentativi di alleggerire il peso che grava sulle spalle di Nuh hanno fatto emergere, inevitabilmente, qualche gelosia qua e là: Savaş (Kaan Altay Köprülü), fratello di Bariş, non è rimasto indifferente al legame di complicità nato tra Emine e Nuh. Magari avrà anche interpretato male una battuta o un gesto amichevole. Sapete com’è, a volte basta un piccolo fraintendimento perché scatti il campanello dell’insicurezza.

Eppure, Emine si è resa conto che c’era un’unica, vera soluzione per riportare l’equilibrio: risalire direttamente alla fonte della sofferenza di Nuh, ossia Cemile. E non si è tirata indietro. Ha avuto il coraggio di alzare il telefono, comporre il numero di Cemile e vuotare il sacco.

Una telefonata che cambia tutto

Quel gesto, all’apparenza semplice, ha innescato una serie di reazioni a catena. Lontana dalla sua città, ma ancora legata ai ricordi e a un sentimento mai del tutto sopito, Cemile è rimasta scossa dalle parole di Emine. Nessuno, in fondo, viaggia leggero quando si lascia alle spalle una storia d’amore che ha significato così tanto.

Così, con il cuore diviso a metà tra passato e futuro, Cemile ha radunato la sua determinazione e ha deciso di tornare a Istanbul. Non un viaggio improvvisato, non un capriccio: è stato piuttosto un segnale di quanto le mancasse Nuh e di quanto la mancanza del fratello Mehdi (Ibrahim Celikkol) l’avesse destabilizzata. In fondo, proprio la morte di Mehdi l’aveva spinta a seguire Benal, perché la nipotina Mujgan era l’unica piccola radice rimasta della sua famiglia.

Il confronto: dubbi, rimorsi e amore

L’incontro fra Nuh e Cemile non poteva che essere intenso. Da una parte, lui si è sentito ferito nel constatare che il loro amore non fosse stato sufficiente a trattenere Cemile ed è come se in un singolo istante le mille domande covate nelle settimane precedenti fossero esplose tutte insieme. Dall’altra, Cemile ha spiegato di essere partita in preda a un vortice di dolore: la scomparsa di Mehdi le aveva tolto la bussola interiore e l’aveva spinta a cercare un’ancora di salvezza altrove.

Guardarsi negli occhi, però, ha svelato sentimenti sopiti ma mai cancellati, come se quella lontananza fosse solo un intervallo, un tempo di riflessione imposto dalle circostanze. Cemile ha ammesso di non poter vivere senza Nuh e di essere pronta a ricominciare insieme, lasciandosi alle spalle paure e fantasmi del passato.

Il lieto fine: una nuova direzione

Un attimo, un respiro trattenuto, il cuore che batte troppo forte. Cemile guarda Nuh negli occhi, e lui è lì, fermo, immobile, con lo sguardo di chi ha sofferto troppo. Poi, una frase. Poche parole. Quelle che servivano. “Perdonami”, dice lei, e la voce le trema, perché certe cose non sono facili da dire, neanche quando il cuore urla da giorni. Lui abbassa gli occhi, poi li rialza. C’è una scintilla lì dentro, qualcosa che forse non si è mai spento davvero.

E allora succede. Un abbraccio, di quelli veri. Forte. Di quelli che tolgono il fiato ma riempiono l’anima. Non è un semplice gesto. È un grido, un segno, un punto e a capo. È “restiamo”, “ripartiamo”, “ricostruiamo”. E stavolta per davvero.

Rivederli uniti, pronti a trasferirsi nuovamente a Istanbul e sostenuti dalle persone più care, dona un senso di riscatto a una storia che aveva rischiato di spezzarsi irrimediabilmente. E a pensarci bene, è proprio questa la forza di My Home My Destiny: capovolgere la routine quotidiana, mostrarci che dietro a ogni prova c’è sempre uno spiraglio di speranza.

Uno sguardo oltre la trama

C’è chi seguirà la vicenda con un sorriso, chi con un pizzico di nostalgia, chi proverà a trarne ispirazione per la propria vita. Ma il senso profondo rimane lo stesso: anche le persone più in crisi, quelle che sembrano aver perso ogni punto di riferimento, possono ritrovare la strada di casa – e non solo quella fisica, ma soprattutto quella emotiva.

Noi, come giornale, ve lo raccontiamo con passione e con il desiderio di coinvolgervi in questo viaggio fatto di partenze, ritorni e riconciliazioni. Che abbiate già divorato ogni singola scena o che siate in attesa dell’ultimo episodio, la riscoperta di Cemile e Nuh sarà un passaggio fondamentale: un capitolo che si tinge di autentica speranza e di romanticismo ritrovato.

Il lieto fine di questa coppia ci accompagna verso la chiusura di My Home My Destiny in Italia, lasciando intendere che a volte è proprio la forza di un sentimento sincero a riscrivere le regole e a farci capire che, anche dopo un momento di buio, possiamo sempre incontrare di nuovo la luce. E la cosa straordinaria è che, spesso, la luce sta proprio lì dove meno ce la aspettiamo: nel cuore di chi pensavamo di aver perso per sempre.

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