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Rep.Congo, vicecapomissione Msf a Goma: ”Ci servono garanzie da M23, Italia può mediare”
cooperanti italiani nella città assediata raccontano di ''saccheggi e combattimenti in corso''
Stanno cercando di ottenere ''garanzie di sicurezza dai ribelli dell'M23 che controllano il sud di Goma'', per poter ''raggiungere i feriti e portarli in ospedale al più presto''. E allo stesso tempo rivolgono ''un appello alle parti belligeranti perché diano spazio all'azione umanitaria e medica''. Sono le priorità di Medici Senza Frontiere, come racconta all'Adnkronos Marco Doneda, vice capo missione Msf a Goma e unico italiano dell'organizzazione rimasto. ''Gli italiani qui sono visti come al di fuori dei giochi di Paesi che hanno connessioni con il Ruanda e che sono diventati obiettivi nelle proteste'', racconta. ''Sicuramente in Congo non si ha una percezione negativa dell'Italia non avendo mai avuto un passato colonialista in questo Paese e proprio per questo il nostro Paese potrebbe svolgere un ruolo di neutralità e di mediazione'', afferma Doneda, a Goma dal maggio del 2024.
''La situazione attuale è l'acme di una crisi che dura da oltre un anno'', prosegue, ''ma fino a due settimane fa sembrava irrealizzabile un simile attacco dell'M23, anche per la forte presenza a Goma di uomini in armi''. Con il precipitare degli eventi, Msf ha ''ridotto il suo staff'' e ora ''siamo rifugiati da lunedì nella nostra base nel quartiere dei vulcani vicino al confine con il Ruanda. Uscire non è sicuro, ci vuole molta cautela''. Oggi lì ''la situazione è abbastanza calma'', ma ''ieri c'è stata una battaglia a 2 chilometri di distanza, ci sono state esplosioni, un razzo ci è passato sopra la testa. La zona è sotto il controllo dell'M23'' ed è ''da loro dobbiamo ricevere garanzie di sicurezza per poter uscire. C'è molta tensione, ieri hanno sparato contro veicoli delle Nazioni Unite''.
Nel frattempo all'ospedale di Kyeshero lo staff di Msf ''continua l'attività medica'' e ha ricoverato solo oggi ''80 feriti, circa 150 dall'inizio della crisi tra civili e militari''. Ma si tratta ''in particolare di donne, le più esposte alle violenze nei campi di sfollati mentre gli uomini sono stati magari coinvolti nei combattimenti''. E forse in questi hanno perso la vita. ''La Croce Rossa ha iniziato i primi sopralluoghi in città e ha riferito della presenza di molti cadaveri in strada'', ha spiegato Doneda. Come Msf, ''cerchiamo di rifornire il nostro ospedale e quello supportato dalla Croce Rossa con materiale medico, ma è una fase confusa dove gruppi di civili e di giovani hanno preso le armi abbandonate in città e si stanno dedicando al saccheggio, anche del magazzino del Pam e del nostro magazzino della farmacia e del materiale medico''.
Ora ''dobbiamo capire cosa succede a Goma, dove la gente vive asserragliata in casa, capire come muoverci senza mettere a rischio nessuno'', spiega Doneda citando il figlio di un collega congolese di Msf, morto dopo essere stato raggiunto da un proiettile vagante a Goma. ''Non gli è stato nemmeno permesso di portare il corpo all'obitorio, il collega è stato fermato, picchiato e costretto a tornare in casa'', racconta.
A Goma intanto si combatte ancora, la città non è ancora caduta completamente ed è preda di "saccheggi" che "sono continuati tutta la notte". Lo racconta all'Adnkronos Monica Corna, rappresentante Paese della ong salesiana Volontariato internazionale per lo sviluppo (Vis) nella Repubblica democratica del Congo e che a Goma abita e lavora da oltre 20 anni. "Qui la situazione è molto instabile e precaria, ci sono alcune zone della città in cui ci sono ancora combattimenti in corso in quanto non è ancora stata presa", afferma la cooperante italiana, secondo cui "la città non è ufficialmente in mano agli M23 e questo comporta criminalità, instabilità ed insicurezza".
La cooperante del Vis racconta di "saccheggi di supermercati e materiali elettronici continuati tutta la notte in ogni parte della città e che vedono implicati ragazzi di strada e parte della popolazione". Secondo Corna, i ribelli M23 "sparano a vista e uccidono" chi è sorpreso a rubare.
Corna spiega che "la corrente elettrica non c'è e non è ancora stata ristabilita", mentre chi è al confine come lei ha a disposizione qualche minuto di connessione a internet grazie a carte sim della Ruanda. "Per il resto noi stiano bene, io sto bene, continuiamo a stare al sicuro, ma a volte non riusciamo a comunicare tra di noi e questa è la parte più difficile".
"Si cerca di uscire il meno possibile di casa anche se le scorte di cibo e di acqua stanno diminuendo sempre di più e questo rappresenterà tra poco un serio problema - conclude - Speriamo che la situazione si risolva il prima possibile".
Dice invece di aver ''temuto per la sua vita'' e quella di sua moglie e suo figlio Roberto Solagna, cooperante italiano e referente nella Repubblica democratica del Congo dell'ong Ai.Bi. (Amici dei bambini). Tanto che da Goma, dove vive dal 2014, ha deciso di fuggire in Ruanda ''sotto una pioggia di bombe e proiettili'', come racconta all'Adnkronos, approfittando della ''frontiera che era ancora aperta'' e dopo che ''gli eventi sono precipitati''. Ora, dichiara, ''la frontiera con il Ruanda è chiusa e non si può più uscire'', quindi gli italiani che non hanno ''approfittato dell'opportunità offerta dall'ambasciata italiana a Kinshasa'' sono rimasti lì.
''Non escono di casa, non è sicuro - prosegue Solagna - un mio amico congolese è stato ferito alla gamba da un proiettile vagante ed è stato operato. Per fortuna sta bene''. Tra gli italiani rimasti ''ci sono quelli che lavorano con la Croce Rossa negli ospedali nelle zone periferiche della città di Goma che sono sommersi da feriti'', aggiunge. In sicurezza anche i ''duecento bambini'' che l'Ai.Bi. assiste a Goma, ''50 presso le loro famiglie e gli altri nei due orfanotrofi'' in città.
Solagna, unico italiano presente a Goma per Ai.Bi. e in Africa con vari progetti di cooperazione dal 2007, dichiara di essere ''in contatto con i responsabili dei due orfanotrofi. I bambini sono 'in ibernazione', dormono sotto i letti, non escono dalle loro camere, stanno in luoghi sicuri lontani dalle finestre per evitare di essere colpiti da proiettili vaganti''. Rischio che ha corso anche il cooperante veronese, ex consulente informatico, che ha puntato verso Kigali quando, appena a 5 chilometri dal confine con il Ruanda, ''una bomba è esplosa a poche centinaia di metri da noi''.
Nella capitale ruandese, precisa, ''la situazione è sicura, anche se tutto è precario e non si può mai sapere''. Arrivato a Goma dal Burundi, dove si era recato nel 2007, Solagna ammette: ''Non mi sarei mai aspettato una situazione come quella che stiamo vivendo in questi giorni''. Anche se, rimarca, ''da due anni a questa parte la situazione della sicurezza e quella umanitaria è andata sempre peggiorando''. Ad esempio, cita il fatto che ''negli ultimi mesi si è registrato un numero di bambini di strada che non si era mai visto. In ogni piccolo angolo della città ci sono piccole tende appoggiate ai muri, con bambini dai 6 ai 9 anni che ci vivono''.
Ora ''i ribelli dell'M23 hanno conquistato Goma e la città è sotto il loro controllo'', prosegue Solagna, ricordando che una situazione simile si era già creata nel 2012. ''Lo stesso gruppo era riuscito a prendere il controllo di Goma e di alcune province del Nord Kivu. Dopo un po' è rientrato tutto'', ma ora i ribelli ''si sentono traditi e vogliono negoziare ponendo loro le condizioni''. Sul futuro, il cooperante afferma che ''se si trova un accordo e si smette di sparare, si può riprendere una vita normale''. E sul suo futuro personale, Solagna dice: ''Vorrei sapere se c'è ancora la nostra casa. Da domenica vari gruppi criminali stanno saccheggiando negozi e case...''.
Sull'ipotesi di tornare in Italia conclude: "Se le condizioni non ci permetteranno di tornare a Goma, non avremo altra scelta se non rientrare in Italia'', ma la speranza è che ''la situazione si stabilizzi, mio figlio possa tornare a scuola, mia moglie congolese alla sua famiglia''.
Esteri
Gaza, cooperante a Khan Yunis: “Tanta rabbia durante...
'La Jihad islamica non è riuscita a tenere a bada la folla. Noi speriamo solo che la tregua regga. Il governo italiano ci aiuti con la ricostruzione e faccia pressione su Israele perché rispetti il cessate il fuoco''
C'è ''tanta gente a Khan Yunis'', molta più di quanto non ce ne sia a Gaza City. E c'è anche ''tanta rabbia'', come si è visto dalle scene caotiche trasmesse oggi dalla città a sud della Striscia di Gaza durante il rilascio degli ostaggi israeliani Arbel Yehoud e Gadi Moses. ''Ci sono passato vicino mentre tornavo dal lavoro. Ho visto tanta confusione, miliziani incappucciati e armati, tanta folla che la Jihad islamica palestinese non è riuscita a tenere a bada. Hamas ha organizzato meglio quello che è lo 'show' del rilascio degli ostaggi'', ha dichiarato al telefono all'Adnkronos da Khan Yunis il cooperante Sami Abu Omar. ''Ho cercato di restare a una certa distanza, circolano molte armi in situazioni come queste, non si può mai sapere cosa può accadere'', ha aggiunto.
A dicembre del 2023 Sami Abu Omar era stato costretto a lasciare la sua casa a Khan Yunis e a camminare per 14 chilometri per trasferirsi a Rafah, secondo gli ordini dell'esercito israeliano, insieme alla moglie e ai sette figli, il più grande ha 27 anni e il più piccolo 13. Una volta rientrato a Khan Yunis ha scoperto che della sua casa erano rimaste solo macerie, distrutta dai raid aerei israeliani. ''Ora viviamo da un parente, tutti in una stanza. Ma è una sistemazione temporanea, fino a quando non riusciremo a sistemarci in una tenda o, chissà, in un caravan'', spiega. ''Ora la situazione è più tranquilla'' e ''la speranza è che l'accordo di cessate il fuoco regga. Ne abbiamo bisogno noi palestinesi e ne hanno bisogno gli israeliani''. Il cooperante rivolge quindi un appello ''ai governi europei e in particolare a quello italiano: l'Italia ci dia una mano per la ricostruzione, per mettere a posto gli ospedali e scuole. E faccia pressione su Israele, per garantire la continuità della tregua''.
''Nemmeno nei nostri peggiori incubi avremmo potuto immaginare di vivere quello che abbiamo vissuto, sono stati momenti molto difficile'', racconta. ''Ora ci affidiamo alla speranza, non possiamo perderla perché senza speranza non c'è vita'', aggiunge. I suoi due figli maggiori hanno dovuto sospendere gli studi universitari in ingegneria e odontoiatria, quelli più piccoli ''hanno perso due anni di vita scolastica''. Ma lui da due mesi, racconta, ''ho un nuovo lavoro presso la clinica di Emergency nella zona umanitaria di Khan Yunis, vicino al porto di al-Qarara''. Qui lavorano anche ''sei italiani, insieme ad altro staff medico internazionale e locale''. La missione della clinica è quella di ''fornire un servizio di primo soccorso alle persone sfollate, quelle che vivono nei campi profughi vicini. Abbiamo anche una farmacia''.
La situazione, quindi, ''ora è più tranquilla, ma per la ricostruzione ci vorrà ancora tempo. In base a quanto stabilito inizierà nella terza e ultima fase dell'accordo''. Nel frattempo, ''il valico di Rafah resta ancora chiuso. Stanno per fortuna entrando aiuti umanitari, tanto scatolame, e sono scesi i prezzi, ma non arriva materiale per la ricostruzione e manca l'elettricità. Aspettiamo e speriamo, non possiamo fare altro''.
Esteri
Cisgiordania, l’ex europarlamentare Morgantini e il...
Sarebbero entrati in una "zona militare"
Sono stati rilasciati dalla polizia israeliana Luisa Morgantini, 84 anni, ex vicepresidente dell'Europarlamento e nota attivista italiana, e il giornalista del Sole 24ore Roberto Bongiorni, fermati stamane a Tuba (a sud di Hebron), perché sarebbero entrati in una "zona militare". Entrambi sono stati portati alla stazione di polizia della colonia di Kiryat Arba per essere poi rilasciati anche grazie all’intervento della ambasciata d’Italia a Tel Aviv e del Consolato a Gerusalemme, fa sapere la Farnesina in una nota.
La segretaria generale della Federazione Nazionale Stampa Italiana Alessandra Costante aveva commentato: "Israele non può e non deve considerare i giornalisti come obiettivi e limitare il diritto di cronaca. Atteggiamento che non è proprio di uno Stato democratico".
Esteri
Trump e Putin hanno avuto colloquio? La risposta ambigua...
La domanda dopo l'incidente aereo in cui sono morti cittadini russi: "Ha parlato con Putin?". La risposta: "No... non di questo"
Donald Trump ha parlato con Vladimir Putin? E' il presidente degli Stati Uniti ad alimentare il dubbio con una risposta 'in due tempi' nel briefing dopo l'incidente aereo che ha provocato 67 morti a Washington, con lo schianto tra un aereo dell'American Airlines e un elicottero militare. A bordo dell'aereo viaggiavano anche alcuni cittadini russi. Trump ha spiegato che gli Stati Uniti faciliteranno il rimpatrio delle vittime russe. Un giornalista ha chiesto a Trump: "Ha parlato con il presidente Putin?". "No", la risposta del presidente americano.
"Non di questo", ha aggiunto subito dopo. La seconda parte della risposta non è passata inosservata e ha innescato ipotesi: possibile che Trump e il presidente russo abbiano avuto contatti diretti? Il presidente degli Stati Uniti, che si è insediato il 20 gennaio, ha detto e ripetuto che punta ad un incontro in tempi brevi con il leader del Cremlino per porre fine alla guerra tra Ucraina e Russia. Ufficialmente, non sono in corso contatti tra Washington e Mosca per organizzare il confronto tra i presidenti. La risposta di Trump oggi, però, alimenta dubbi e ipotesi.
L'agenzia russa Tass, che segue il briefing del presidente americano, coglie il dettaglio e analizza la risposta: "Trump ha detto che non ha parlato con Putin dell'incidente aereo di Washington, lasciando effettivamente intendere che potrebbe esserci stato un contatto su un altro tema".