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Lily Collins e il nuovo cammino della maternità: un racconto di coraggio, sogni e rinascita
Siamo onesti: a volte basta una frase, una foto, persino un emoji per farci vibrare dentro. E stavolta è successo. Una notizia che ha un sapore speciale, un’emozione che arriva dritta allo stomaco e ci resta. Lily Collins è diventata mamma. Lei, quella che abbiamo imparato a conoscere e amare nei panni di Emily in Paris, ha accolto nella sua vita la piccola Tove Jane McDowell. E no, non è solo un titolo da tabloid, è molto di più. È un sogno che prende forma, un desiderio coltivato con cura, una storia che parla di amore vero. E noi, oggi, vogliamo immergerci in questa storia, lasciarci trascinare dall’onda di emozioni che ci ha travolti nel momento stesso in cui abbiamo letto quelle parole. Perché certe notizie non si leggono, si sentono.
Un annuncio che sa di svolta
La prima volta che ci siamo imbattuti nel nome di Tove Jane McDowell, siamo rimasti sorpresi dal suono dolce e dalla storia di affetti che sembra racchiudere. Non è un nome comune, eppure ci appare intriso di una grazia familiare, come se fosse stato scelto con cura per celebrare un nuovo inizio. Lily, conosciuta a livello mondiale non solo per le sue doti recitative ma anche per un fascino naturale che incanta lo schermo, ha condiviso la notizia della nascita della piccola Tove in modo estremamente intimo e riconoscente. E lo ha fatto senza retorica ma con una dolcezza che sembra provenire da un luogo profondamente autentico.
Sappiamo bene come gli annunci delle star possano a volte apparire patinati, quasi freddi. Ma in questo caso, è stato impossibile non percepire un senso di gioia sincera che traboccava. Ed è forse proprio quella spontaneità a rendere questa vicenda ancora più toccante: la condivisione di un momento intimo, accompagnata da un ringraziamento sentito a chi ha reso possibile l’arrivo di Tove. Una gratitudine rivolta verso coloro che hanno supportato Lily e il marito, il regista Charlie McDowell, in un percorso che – anche se da lontano – non è mai banale né privo di sfide personali.
L’origine di un desiderio
Torniamo un attimo indietro. Lily Collins, nata nel 1989 in Inghilterra ma cresciuta a Los Angeles. Un’infanzia con un cognome che pesa – suo padre è Phil Collins – e una carriera che sembra segnata dal destino. Una di quelle storie che sembrano scritte prima ancora di essere vissute. Ma la verità? La vita di Lily non è stata tutta luci e tappeti rossi. Anzi. Dietro quel sorriso perfetto, dietro i riflettori, c’era una ragazza che ha dovuto combattere con i suoi demoni. Un disturbo alimentare, una lotta vera, profonda, di quelle che ti segnano dentro. Un percorso in salita, tra fragilità e forza, tra momenti di sconforto e voglia di rinascere. E ce l’ha fatta, ha trasformato quella battaglia in un punto di svolta. Si è guardata dentro, ha scavato, ha scelto di ricostruire. E oggi, con l’arrivo di Tove, quel cammino sembra trovare un nuovo significato. Un viaggio che non è stato facile, ma che l’ha portata esattamente dove voleva essere.
Negli ultimi anni, tanti fan avevano già percepito il desiderio di maternità che germogliava in lei. Non servivano parole esplicite: bastava vedere la determinazione con cui, in varie interviste, lei accennava a un futuro carico di speranze. È come se, gradualmente, l’idea di diventare madre fosse diventata sempre più nitida, sino a rivelarsi una scelta concreta. Forse, in parte, è anche questa determinazione a renderla così vicina a chi la segue: vedere una figura pubblica che non ha timore di mostrare la propria vulnerabilità può davvero toccare corde profonde.
Un approccio diverso alla genitorialità
La maternità surrogata fa discutere, divide, crea scontri. C’è chi la accoglie come una benedizione e chi la guarda con sospetto. Eppure, se ci fermiamo un secondo, lasciando da parte i pregiudizi, possiamo vedere qualcosa di più grande. Per Lily e Charlie, questa non è stata una decisione presa su due piedi, ma un viaggio lungo, fatto di dubbi, speranze, riflessioni infinite. Un cammino intriso di desiderio, paura, coraggio. Non un capriccio, non una scorciatoia, ma la strada giusta per loro, per il loro sogno di famiglia.
Chi può davvero dire di sapere cosa spinge qualcuno a fare certe scelte? Nessuno, davvero. Ogni storia ha i suoi perché, le sue ombre, le sue luci. Ma c’è una cosa che è chiara come il sole: Lily e Charlie non si sono nascosti. Hanno parlato, spiegato, messo a nudo il loro sogno di diventare genitori. Hanno mostrato un desiderio vero, profondo, senza filtri. E forse proprio questa sincerità ha fatto crollare qualche muro, ha aperto una breccia nelle polemiche, ha fatto spazio al rispetto. Perché alla fine quando c’è amore, quando c’è gratitudine, tutto il resto diventa rumore di fondo.
Le critiche come banco di prova
Certo, sarebbe ingenuo pensare che una scelta così delicata venga accolta sempre e soltanto con applausi. Numerose voci, come spesso accade, si sono levate per mettere in discussione la maternità surrogata. Alcuni hanno puntato il dito sull’aspetto etico, altri hanno sollevato dubbi sul significato stesso di “famiglia”. Ma la coppia, di fronte a questi appunti, ha mantenuto una calma che colpisce. Piuttosto che ingaggiare battaglie a distanza, Lily e Charlie hanno preferito raccontare la loro esperienza con sincerità, lasciando che la forza dei sentimenti parlasse da sé.
A pensarci bene, è un atteggiamento che rispecchia l’immagine della stessa Lily: una donna che ha sempre affrontato le proprie battaglie interiori con coraggio e riservatezza, senza gridare né nascondersi. Forse, in un certo senso, questa serenità di fronte alle critiche è figlia dell’esperienza di chi ha già vissuto momenti complicati e ha imparato a non farsi definire dalle opinioni altrui. L’amore, dopotutto, non ha bisogno di giustificazioni quando è sincero.
Uno sguardo al percorso artistico
Chi la conosce da tempo ricorderà alcuni dei ruoli che l’hanno consacrata a icona internazionale. Dai film come The Blind Side e Mirror Mirror alla serie che l’ha definitivamente proiettata nell’Olimpo della televisione – “Emily in Paris” – Lily Collins ha dimostrato versatilità, carisma e un’eleganza che solo pochi possiedono. E nel frattempo non ha mai perso occasione per sensibilizzare il pubblico su temi a lei cari, dalla lotta ai disordini alimentari al diritto di ogni individuo di scegliere la propria strada.
La sua figura professionale, dunque, non può essere scissa dal suo percorso umano. Negli ultimi anni, Lily si è espressa più volte a favore della consapevolezza rispetto a ciò che accade dietro le quinte di una vita apparentemente perfetta. Mettere in scena la gioia di avere una bambina attraverso surrogacy, in un ambiente come quello hollywoodiano, può sembrare quasi un atto di ribellione: è come dire al mondo che ci sono tanti modi di diventare madri, e che non esiste un’unica verità valida per tutti.
L’incontro di due famiglie illustri
C’è anche una cornice affascinante, in questa storia: la famiglia di Lily, con una tradizione artistica che gravita attorno alla musica di suo padre, Phil Collins, e quella di Charlie, legata al mondo del cinema. Da un lato, il cognome Collins evoca subito note celebri e concerti che hanno fatto la storia. Dall’altro, McDowell rimanda a un lignaggio attoriale noto a Hollywood. Pensare che questi due percorsi si siano uniti in un matrimonio, e che da tale unione sia nata una bambina con un nome decisamente peculiare come Tove Jane, ci fa quasi venire voglia di rispolverare le grandi saghe familiari di un tempo.
Per noi, il fascino di questo incontro non si riduce a un mero pettegolezzo da salotto: rappresenta un ponte tra passati artistici diversi, un’integrazione di storie che potrebbe proiettare la piccola Tove in un futuro altrettanto creativo. E considerando la tenacia di Lily e l’estro di Charlie, chissà che questa bambina non ci riservi sorprese in ambiti impensabili. Ma questo, naturalmente, è solo un piccolo gioco di fantasia che ci concediamo, osservando da lontano un nuovo nucleo familiare in formazione.
La potenza di un messaggio universale
Lo sappiamo bene: il mondo dello spettacolo sa essere spietato, con i suoi ritmi incalzanti, i riflettori sempre accesi e una pressione costante che spesso schiaccia persino i migliori. Ecco perché, quando un’attrice di fama internazionale come Lily Collins decide di condividere qualcosa di tanto intimo, ne rimaniamo toccati. È come se ci mostrasse che, al di là dei set cinematografici e dei riflettori, esiste un essere umano alle prese con desideri, paure e speranze non così diverse dalle nostre.
Alcuni fan hanno detto di essersi commossi leggendo le prime righe del suo annuncio, altri hanno mandato messaggi di vicinanza sui social network. Da parte nostra, notiamo come ogni parola, ogni immagine di Tove avvolta in una piccola coperta, trasudi amore incondizionato e desiderio di protezione. Questo flusso di entusiasmo e partecipazione racconta bene quanto certi temi – come la nascita di un figlio – tocchino corde profonde nell’animo di ognuno di noi, rendendoci per un attimo meno estranei, meno distanti, perfino in un contesto apparentemente dorato come Hollywood.
Il viaggio oltre i percorsi tradizionali
Aver deciso di intraprendere la via della maternità surrogata può apparire, agli occhi di qualcuno, come un passo ardito. Ma se guardiamo la storia di Lily con attenzione, ci accorgiamo che è stata segnata da difficoltà personali, da momenti di buio e da uno slancio continuo verso la luce. Nel 2017, raccontano alcune testimonianze, la voglia di diventare madre iniziava già a pulsare nel suo cuore, nonostante le sfide e le incognite. Oggi, quella speranza è diventata realtà.
Eppure, non possiamo ignorare il contesto culturale in cui viviamo: la surrogacy è ancora considerata un tabù da tanti, un argomento che suscita giudizi contraddittori. Tuttavia, la serenità di Lily nel parlare di questo percorso fa emergere un messaggio di apertura. Ci invita a considerare che, in una società in continua evoluzione, le famiglie possono nascere in modi diversi e nessuno di questi andrebbe sminuito o etichettato come inferiore. Che la piccola Tove fosse attesa con amore, questo è palese. E, in fondo, non è l’amore lo zoccolo duro di ogni relazione umana?
L’eredità di una storia personale
Un altro aspetto che non possiamo trascurare è la vicenda di Lily legata al disturbo alimentare. È impossibile non pensare a quanta forza serva per superare certe barriere mentali, quanta volontà occorra per dire a se stessi: “Ora sto meglio, sono pronta a prendermi cura di un altro essere vivente.” Ci piace credere che la scelta di diventare mamma, di affidarsi a una surrogata per realizzare quel sogno, possa essere letta anche come il coronamento di un lungo viaggio verso la serenità.
Il fatto che lei stessa abbia parlato apertamente di tali difficoltà in passato mostra il desiderio di trasformare la propria vulnerabilità in un punto di contatto con gli altri. In questo risiede una sorta di insegnamento: persino una persona famosa, con tutte le opportunità del caso, deve fare i conti con le proprie insicurezze e i propri demoni. E la maternità, in questo senso, può diventare un simbolo di rinascita: un modo per dire al mondo che si può voltare pagina e ricostruirsi, a volte anche in maniera inusuale.
La normalità di un atto straordinario
Tornando al nocciolo della questione, è sorprendente notare come, in mezzo a riflettori e flash, Lily e Charlie stiano provando a vivere la genitorialità in maniera normale, con quell’aria di chi sta ancora scoprendo ogni singolo dettaglio di una neonata. Certo, le telecamere potranno essere sempre pronte a catturare il loro prossimo passo. Ma viene da immaginare la quotidianità di questa coppia come un susseguirsi di gesti semplici: il primo vagito al mattino, i pianti notturni, le poppate e i cambi di pannolino. Scene che, in fondo, appartengono a tutti i genitori, indipendentemente dalla fama.
C’è un messaggio di fondo che emerge da questa vicenda: non c’è nulla di più potente della vita che sboccia e ogni storia che la riguarda ci riguarda tutti, almeno un po’. Anche quando la vita prende forma attraverso una soluzione che esce dai canoni. Forse il punto è proprio questo: aprirsi alla diversità, ammettere che non tutti i percorsi sono lineari. E la risonanza mediatica di Lily Collins e Charlie McDowell, in tale contesto, potrebbe aiutarci a fare un passettino in più verso la comprensione e il rispetto delle scelte altrui.
Passione e riflessioni per il futuro
È impossibile non chiederci che cosa accadrà domani. Lily, adesso, si ritroverà a unire l’impegno di neo-mamma a quello di attrice affermata e Charlie continuerà a lavorare dietro la macchina da presa. Sicuramente, vi saranno momenti di caos, probabilmente qualche nottata in bianco, ma anche scoperte emozionanti che solo chi vive la genitorialità da vicino può comprendere.
Le persone che la seguono sperano di vedere, in qualche modo, questo nuovo aspetto della sua vita riflesso nei progetti futuri. Ci saranno interviste in cui racconterà la propria esperienza? Condividerà qualche scorcio della piccola Tove, magari mostrandoci come sta crescendo? Non lo sappiamo con certezza e in fondo potrebbe essere più bello così, lasciando a questa famiglia il sacrosanto diritto alla propria intimità.
Un inno alla vita e alla resilienza
Eccoci, infine, giunti a tirare le fila di una storia che ci ha coinvolti più del previsto. Abbiamo parlato di Lily Collins, di un sogno che a lungo ha custodito, di un percorso non convenzionale e di una bambina che porta con sé un nome carico di speranze. Abbiamo rivisto le luci e le ombre di una carriera brillante, accostate alle battaglie private di chi ha dovuto lottare contro i propri limiti. E soprattutto, abbiamo osservato come, nel tumulto del mondo dello spettacolo, si sia aperto uno spiraglio di semplice e pura gioia.
La maternità surrogata, che a molti potrebbe apparire un territorio ancora inesplorato o controverso, si svela qui come una scelta compiuta con responsabilità e amore. Laddove in altri contesti si sarebbe potuta generare solo tensione, Lily e Charlie hanno invece costruito un’occasione per raccontare un nuovo tipo di famiglia, un nuovo modo di vedere la nascita, un rinnovato senso di speranza. E noi ci troviamo a celebrare questa notizia con un misto di stupore e commozione, perché siamo convinti che ogni essere umano abbia il diritto di trovare la strada che lo rende davvero felice.
Questa non è la solita storia di una star che diventa mamma. È il viaggio di due persone, due anime che hanno scelto di affidarsi a un’altra per realizzare un sogno, quello di tenere tra le braccia la loro bambina, di guardarla negli occhi e vedere il futuro riflesso lì dentro. È un atto di amore puro. E in un mondo che spesso sembra cinico, freddo, tutto giudizi e parole vuote, una notizia come questa ci ricorda cosa conta davvero. Una nuova vita. Una pagina bianca da riempire. Un battito di ciglia, un respiro, un primo sorriso che cambia tutto. Perché, alla fine, è questo il cuore di tutto: l’amore che si rinnova, che cresce, che vince su tutto.
Potrebbe sembrare retorico, eppure certe realtà ci toccano in profondità proprio perché sono universali. E magari questo lieto evento, raccontato con semplicità e gratitudine, saprà accendere in tanti la scintilla del dialogo, della consapevolezza e del rispetto. Perché in fin dei conti, ogni volta che celebriamo la nascita di un bambino, celebriamo la possibilità di un domani migliore, un domani in cui ognuno può scegliere come e con chi costruire la propria vita.
Lily Collins e Charlie McDowell ci mostrano, con questa piccola grande avventura, che l’amore ha mille forme e non si lascia definire dai pregiudizi. Oggi, noi vogliamo soltanto raccogliere tutta la gioia e la sincerità che traspaiono da questo nuovo capitolo della loro esistenza, condividendo la speranza che un giorno anche i dibattiti più complessi possano trovare un punto d’incontro, a partire dal riconoscimento della dignità di ogni scelta compiuta con il cuore. E nel frattempo, salutiamo Tove con un sorriso, felici di sapere che nel mondo c’è una nuova storia d’affetto, pronta a germogliare e a brillare proprio come un raggio di sole inaspettato.
Attualità
La Farfalla Impazzita: Giulia Spizzichino, dal trauma della...
La storia, a volte, si mostra come un paesaggio sfocato: racconti troppo lontani nel tempo per riaccendere sentimenti veri. Eppure ci sono momenti in cui tutto si fa vivido e tremendo, come un lampo che squarcia il cielo. È quello che succede guardando La farfalla impazzita, il film che la Rai ha trasmesso in prima serata il 29 gennaio e che ora si può trovare su RaiPlay. Non stiamo parlando di un semplice racconto di guerra o di un documento per i posteri: qui c’è la vita stessa di Giulia Spizzichino, una donna che, a costo di sanguinare ancora, ha deciso di donare la propria testimonianza su alcuni fra i capitoli più atroci del Novecento.
Sì, perché Giulia non era soltanto una sopravvissuta all’eccidio delle Fosse Ardeatine, dove in un colpo solo perse 26 familiari. Era anche colei che, decenni più tardi, avrebbe avuto il coraggio di guardare in faccia l’ex ufficiale nazista Erich Priebke e sfidarlo in tribunale. Questa sua storia di dolore e determinazione è l’anima del film diretto da Kiko Rosati, tratto dall’omonimo libro che Giulia scrisse insieme a Roberto Riccardi, pubblicato per la prima volta nel 2013.
Un’anziana signora ebrea romana, una ferita mai rimarginata, la voglia di ottenere giustizia: ecco, in sintesi, i cardini attorno ai quali ruota La farfalla impazzita. Eppure, forse, la definizione di “cardini” è troppo rigida. Qui nulla rimane fermo; c’è, piuttosto, un tremolio incessante – proprio come le ali di una farfalla che non riesce a posarsi. Ecco perché Giulia si è definita così, “farfalla impazzita”: sempre in movimento, sempre in fuga dal passato o in corsa verso un brandello di verità.
Un salto indietro: dal rastrellamento di Roma al dolore che non guarisce
Torniamo per un attimo al 1944, quando l’Italia piangeva lacrime indescrivibili sotto il tallone nazista. Giulia, poco più che adolescente, vide andare in frantumi la propria famiglia. Chi finì deportato, chi venne giustiziato senza un briciolo di pietà. Il film, così come le pagine del libro, ricostruisce quell’orrore con immagini che bruciano ancora oggi. C’è una sequenza, nel racconto di Giulia, che lascia il fiato sospeso: la madre intenta a riconoscere le salme dei suoi cari attraverso pezzetti di stoffa sopravvissuti ai massacri. Basti questo a dare la misura della tragedia.
Molti penserebbero che, finita la guerra, iniziasse una nuova vita. Ma per Giulia non è stato così semplice. Impossibile dimenticare il piccolo cuginetto di appena cinque anni. Impossibile perdonare chi ha strappato in modo tanto crudele le sue zie, i nonni, gli zii, lasciandole soltanto un vuoto urlante al posto di un futuro sereno. Dentro di lei, un’angoscia silenziosa che l’ha resa “aspra e dura”, come dice Elena Sofia Ricci, l’attrice che ne interpreta il ruolo nella pellicola.
L’incontro con il passato che riapre la voragine
Nel film, la storia parte dal 1994, con Giulia che si ritrova a guardare uno spezzone televisivo su Rai 1, dove riconosce, quasi senza volerci credere, il volto di sua madre in un vecchio filmato. È un momento straziante: rivedere quella donna che tocca i resti dei propri cari e capisce che non c’è più nulla da fare.
Da quel punto in poi, Giulia viene risucchiata in una spirale di ricordi. Accetta a fatica di intervenire in quello stesso studio televisivo, esponendosi così a tutto il peso delle sue memorie. Vorrebbe scappare, se potesse. Ma non si può fuggire all’infinito. Se la chiamiamo “farfalla impazzita” è proprio perché nessun rifugio sembra abbastanza sicuro per lei.
Poi, a un certo punto, arriva la richiesta della Comunità ebraica di Roma. Vogliono coinvolgerla per ottenere l’estradizione di Erich Priebke dall’Argentina, dove il criminale nazista conduceva una vita tranquilla a Bariloche, un posto ai confini del mondo, incastonato fra le montagne. È un colpo allo stomaco: significa tornare a guardare in faccia il carnefice, rischiare di spalancare ferite che forse non si erano mai nemmeno chiuse. Giulia non se la sente, sulle prime. Poi, quasi con la stessa disperazione di chi ha perso tutto, accetta di diventare testimone, sperando di fare giustizia non solo per sé, ma per i tanti morti che le urlano ancora dentro.
Bariloche e l’incontro con le Madri di Plaza de Mayo
Al centro di questo viaggio c’è un cambio di prospettiva che forse neanche Giulia si aspettava. Lei, ebrea romana, tormentata dall’eccidio delle Fosse Ardeatine, attraversa l’oceano per incontrare donne che hanno sofferto in un altro contesto, un altro tempo, un’altra dittatura. Le Madri di Plaza de Mayo, simbolo di un’Argentina che non ha mai dimenticato i propri figli scomparsi, incrociano il cammino di Giulia. E succede qualcosa di enorme: il dolore si specchia nel dolore, la rabbia si intreccia alla rabbia, e nasce uno slancio di solidarietà potentissimo.
È in quelle strade argentine, dove gli “scomparsi” non hanno volti ma bandane bianche, che Giulia capisce di non essere sola. Non lo è quando, con voce tremante, si ritrova a parlare davanti a un pubblico che l’ascolta con rispetto. Non lo è quando racconta dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, della necessità che Priebke venga estradato, processato, costretto a rispondere dei suoi crimini. Non lo è neppure quando scopre quanto la sofferenza di chi ha perso figli e nipoti, pur con radici diverse, abbia la stessa intensità bruciante.
L’estradizione di Erich Priebke: una battaglia di civiltà
Ciò che accade dopo è storia: la lotta di Giulia finisce sui tavoli della giustizia internazionale. Con il sostegno dell’avvocato Restelli, la voce di questa donna coraggiosa si fa sentire forte e chiara. L’Argentina tenta di resistere, di trattenere Priebke. Ma la pressione mediatica e morale si fa intollerabile. Alla fine, Priebke viene estradato in Italia per affrontare il processo. E lì, nell’aula di tribunale, avviene l’atto finale del dramma: Giulia testimonia contro di lui, faccia a faccia con l’uomo che, ordinando e gestendo gli omicidi delle Fosse Ardeatine, ha distrutto il suo mondo per sempre.
Non è una sfida epica, con luci di scena e applausi. È un momento cupo, intriso di un’angoscia tremenda. Ma Giulia, in quell’istante, sceglie di riaprire la ferita e di mostrarla a tutti. Per lei è l’unico modo per tentare di avere un pizzico di giustizia, sebbene la vendetta non le appartenga. Vuole soltanto che la Storia prenda atto dei responsabili e che i fatti non vengano seppelliti da un pericoloso silenzio. Forse proprio in quell’aula inizia un processo di liberazione che, pur essendo parziale e mai definitivo, la aiuta a sopportare il peso di ricordi insostenibili.
Un passato che ci riguarda sempre: la dimensione universale di Giulia
La farfalla impazzita non è solo un film che riguarda l’Olocausto o la comunità ebraica italiana. È un’opera che mette al centro un tema universale: chi subisce violenze, chi perde i propri cari, chi sopporta l’orrore, non può restare in silenzio. Le vittime sono vittime, i carnefici sono carnefici, qualunque sia la lingua che parlano o il contesto storico in cui si muovono. Giulia ce lo mostra con la sua testimonianza e Kiko Rosati ce lo sbatte in faccia con la regia di questa pellicola.
Se ci si sofferma a pensare, si vedono echi di quella sofferenza in mille altre situazioni del mondo. In Argentina, le Madri di Plaza de Mayo combattono contro i fantasmi di una dittatura spietata, mentre Giulia combatte contro i fantasmi del nazismo. E se ci guardiamo attorno, scopriamo che in tanti Paesi si vivono ancora guerre, persecuzioni e dittature, spesso dimenticate o ignorate. Forse è qui che risiede la grande lezione del film: non si tratta di risolvere il passato, ma di tenere gli occhi aperti sul presente.
Il coraggio di Elena Sofia Ricci e la forza del cast
Nel dare vita a Giulia, Elena Sofia Ricci compie un lavoro straordinario. Non è facile interpretare una donna dura, disincantata, che ha sepolto sotto strati di cinismo la propria parte più intima. Eppure, attraverso sguardi, silenzi e improvvisi scatti di commozione, Ricci rende palpabile la sofferenza di Giulia. Al suo fianco c’è Fulvio Pepe nel ruolo dell’avvocato Restelli, risoluto e comprensivo, quasi un contrappeso alla durezza di lei. E poi c’è la presenza simbolica di figure come le Madri di Plaza de Mayo, rappresentate sullo schermo con un’intensità che raramente si vede.
Perché “farfalla impazzita”?
Il titolo è un dettaglio fondamentale che svela la vera natura di Giulia. Nel libro che lei e Roberto Riccardi hanno scritto, La farfalla impazzita, si racconta di come Giulia, dopo quella retata del 16 ottobre 1943 e dopo aver passato un’infanzia inseguita dall’orrore, non sia mai riuscita a fermarsi. Perché fermarsi significava risprofondare negli incubi, restare immobile tra i resti di un massacro. Meglio agitarsi, sbattere le ali in mille direzioni, sperare di sfuggire a un destino di silenzio.
Invece di tacere, ha parlato. Invece di fingere che la ferita fosse rimarginata, l’ha mostrata a tutta l’Argentina e poi, in tribunale, alla giustizia italiana. E così, la farfalla impazzita ha finito per regalare a tutti noi un pezzetto di memoria viva, di consapevolezza di ciò che è accaduto.
Un appello alle nuove generazioni: “Fate la rivoluzione”
C’è un momento in cui Elena Sofia Ricci, presentando il film, si rivolge ai più giovani. E lo fa riprendendo un appello di Giulia: qui si parla di rivoluzione, ma non quella delle armi; piuttosto una rivoluzione culturale. Un cambiamento che passa dalla sete di conoscenza, dall’amore per i libri, dallo studio della storia e dalla voglia di comprendere fino in fondo le sue lezioni.
In effetti, come spiega la stessa Ricci, non si è mai fatto abbastanza per evitare il ripetersi di certi crimini. Viviamo in un presente in cui ancora si erigono muri, si calpestano diritti, si assiste inermi a violenze di ogni sorta. La memoria, si direbbe, a volte ci scivola via dalle mani. E allora è essenziale che le nuove generazioni si muovano, si indignino, si impegnino a non accettare passivamente gli orrori e le ingiustizie.
Una storia che continua a pulsare: il senso di questo film
Se la Rai ha deciso di trasmettere La farfalla impazzita in un giorno tanto simbolico come quello dedicato alla Shoah, non è soltanto per commemorare. Lo ha fatto per ricordarci che la conoscenza di fatti – come la strage delle Fosse Ardeatine e la persecuzione degli ebrei – non è un vuoto esercizio scolastico, ma un dovere morale.
Siamo davanti a un’opera che tocca il cuore, ma al tempo stesso scuote la mente. Non è un film che si guarda per intrattenimento, anzi, a tratti può risultare duro e opprimente. Ma proprio in questa asprezza risiede la sua verità. C’è la speranza di Giulia che, raccontando la sua vita, possa impedire il ripetersi di simili tragedie. C’è lo sguardo delle Madri di Plaza de Mayo, che ci fa capire come un’incompiuta richiesta di giustizia possa attraversare l’oceano. C’è la determinazione del regista Kiko Rosati, che sceglie di mostrarci immagini capaci di ferire la coscienza, pur di darci un messaggio chiaro: non dobbiamo mai restare indifferenti.
Dalle parole alle immagini: un invito alla riflessione
È vero, tanti film hanno affrontato il tema dell’Olocausto, alcuni in modo magistrale, altri in maniera più didascalica. La farfalla impazzita arriva a iscriversi in questa lista aggiungendo una prospettiva personale, quasi intima, sul trauma. Non è una pellicola che si limita a narrare l’orrore su scala mondiale, ma si concentra su una singola voce, quella di Giulia e sul suo viaggio. E così facendo, ci permette di cogliere la dimensione umana, privata, dietro a una strage che spesso ci appare come un evento storico lontano.
Attraverso lo sguardo di Giulia, diventiamo testimoni delle conseguenze che durano una vita, delle cicatrici che restano nella mente e nel cuore di chi è sopravvissuto, e ci rendiamo conto che la guerra, la persecuzione, lo sterminio non cessano di tormentare le vittime neanche dopo la firma di un trattato di pace.
La forza di un’eredità che non svanisce
Oggi, abbiamo tante possibilità per documentarci. Possiamo leggere libri, guardarci centinaia di documentari, scorrere siti dedicati alla memoria storica. Ma a volte occorre incontrare un volto, una voce, una mano che scrive e dice: “Io c’ero, io ho visto.” La farfalla impazzita ci offre esattamente questo.
Forse, al termine di un film del genere, la risposta non può che essere un richiamo deciso a non voltare le spalle al passato, a non archiviare i ricordi in un cassetto, e soprattutto a non rassegnarci davanti alle ingiustizie contemporanee. Perché le parole di Giulia Spizzichino, “Le vittime sono sempre vittime, i carnefici sono sempre carnefici”, ci ricordano che il confine fra dignità umana e brutalità può essere valicato in fretta, se non rimaniamo vigili.
Ecco, questa è l’eredità più potente che La farfalla impazzita ci lascia. Un invito, sì, ma al tempo stesso una sfida: rialzarci quando l’angoscia sembra volerci togliere ogni speranza, ascoltare le storie di chi ha perso tanto, fare gruppo, studiare, reagire. Non c’è nulla di più importante che comprendere perché certe tragedie sono successe e soprattutto, impedire che possano accadere di nuovo. Giulia, dal suo canto, ci ha insegnato che anche un cuore sfinito può trovare la forza di lottare, se c’è in gioco il futuro di tutti. E noi, nel nostro piccolo, non possiamo che far tesoro di questa sua straordinaria lezione.
Attualità
Dispositivo che protegge i pedoni: la nuova sfida si chiama...
Ogni volta che attraversiamo la strada, ci ritroviamo con lo sguardo fisso sull’auto che avanza, incerti su quel paio di secondi in cui non sappiamo se il veicolo rallenterà davvero. Ci siamo chiesti più volte, quasi in silenzio, se esistesse un sistema per avvertirci in maniera chiara, immediata, che l’auto si sta fermando per lasciarci passare. Ecco, da qualche anno si parla di un progetto chiamato Elvia98, un dispositivo che punta proprio ad annullare quel dubbio, offrendo un segnale luminoso inequivocabile. Ma prima di srotolare la sua storia, ci preme raccontarvi come siamo giunti alle informazioni raccolte.
Abbiamo setacciato, un po’ in modo disordinato e un po’ con la costanza di chi vuole andare in fondo alle cose, diverse fonti online: da alcune testate specializzate nel settore automobilistico, come Motorionline e Autoblog, fino ai contenuti di siti generalisti tipo Virgilio e qualche articolo più tecnico reperito su HDmotori. L’obiettivo era quello di cogliere ogni singola sfumatura di questo apparecchio e del suo percorso accidentato. Volevamo andare oltre i titoli in grassetto, addentrandoci nelle dichiarazioni di chi lo ha ideato e di coloro che l’hanno sperimentato, anche solo parzialmente. In fondo, la sicurezza stradale non è faccenda da trascurare.
Come nasce e perché ci interessa
Le statistiche che si leggono oggi, riferite agli investimenti di pedoni, sono davvero sconfortanti. Secondo vari report analizzati, gli incidenti con esito mortale per le persone a piedi continuano a salire. E se ci si sofferma un istante, viene quasi spontaneo chiedersi: “Ma siamo ancora così indietro nella prevenzione?” Non dovrebbe esistere un modo più chiaro per comunicare le intenzioni del guidatore?
Elvia98, stando a ciò che abbiamo compreso, nasce proprio dalla volontà di rispondere a questo dilemma. Sappiamo che è il frutto dell’inventiva di un imprenditore veronese, Angiolino Marangoni, che ha voluto ribaltare un’idea semplice: invece di pensare solo alle luci posteriori (i classici stop che si illuminano di rosso), ha sviluppato un sistema avanzato che integra informazioni più specifiche. Il meccanismo, infatti, prevede una luce addizionale che si illumina sul davanti del veicolo, rendendo evidente ai pedoni il momento in cui l’auto si sta effettivamente fermando, con segnali ben visibili e scritte che non lasciano spazio a interpretazioni.
E sapete una cosa? All’inizio, la semplicità del concetto lascia quasi sorpresi: perché non ci avevamo pensato prima? La luce frontale lampeggiante con messaggi come “Salvavita pedone” fa capire in modo inequivocabile che il conducente sta proprio rallentando per dare precedenza. Non c’è più quel gioco d’azzardo: “Mi vede? Devo correre o aspetto?” Sembra un piccolo gesto, ma potrebbe risparmiarci momenti di tensione, o addirittura evitare situazioni rischiose.
Funzionamento e potenzialità
Passiamo a un livello più concreto: da quanto riportato su vari articoli, alcuni veicoli – per esempio scuolabus in certi comuni del Veneto, come Vigasio o San Martino Buon Albergo – hanno già testato Elvia98. Il kit si installa in maniera relativamente semplice, posizionando una luce aggiuntiva sotto la targa anteriore e un’altra sotto quella posteriore. Quella dietro si attiva con segnali di colore diverso in caso di frenata o ostacoli, mentre quella davanti avvisa i passanti che l’auto si fermerà per lasciar passare.
Lo scopo, in sintesi, è offrire ai pedoni una comunicazione chiara, evitando gli equivoci che derivano dalla semplice frenata. Se un veicolo rallenta per un semaforo o per un ingorgo, il pedone potrebbe fraintendere e attraversare convinto di avere la precedenza. Con Elvia98, invece, l’intenzione è esplicita: la scritta luminosa frontale “Salvavita pedone” e il lampeggio funzionano come un avvertimento diretto. Il creatore di questo dispositivo, peraltro, ha ottenuto un brevetto europeo già nel 2017, a testimonianza di quanto sia preso sul serio in ambito innovativo. Tuttavia, sembra che il cammino verso la diffusione su larga scala sia ancora ostacolato da parecchie scartoffie burocratiche.
Le barriere burocratiche
Qui si tocca uno snodo fondamentale. Perché, se un dispositivo del genere esiste, se è stato anche provato con successo su alcuni mezzi, non viene reso obbligatorio per tutti? È la classica domanda che finisce con l’aprire un capitolo ben noto a chi segue da vicino il mondo dell’innovazione in campo automobilistico: gli aspetti normativi.
Angiolino Marangoni, infatti, avrebbe fatto appello – stando a diversi articoli letti su siti come Virgilio e HDmotori – a varie figure istituzionali di spicco, cercando di farsi ascoltare in merito alla questione dell’omologazione del dispositivo. Ha inviato lettere al Presidente della Repubblica e persino al Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma la risposta non è arrivata con l’urgenza sperata. Questa lentezza finisce per rallentare l’adozione del sistema, che potrebbe salvare vite umane proprio laddove si verificano molti incidenti: i centri abitati e i tragitti pedonali più trafficati.
A volte noi, come giornale, ci chiediamo se non sia il momento di ridare priorità alla questione della sicurezza stradale. Leggendo i numeri sugli investimenti di pedoni, sembra che l’attenzione su questi temi, negli ultimi anni, si sia un po’ persa tra mille discorsi, decreti, tensioni politiche. E nel frattempo, chi passeggia per le strade rimane esposto a rischi evitabili.
Uno sguardo alla situazione attuale
Nonostante tutto, qualche spiraglio c’è. Alcune amministrazioni locali hanno voluto sperimentare Elvia98, forse mosse dall’urgenza di mettere in sicurezza i tratti più delicati, specialmente nei pressi delle scuole. E i risultati, anche se non ancora ampiamente documentati da studi su larga scala, appaiono incoraggianti.
Sembra ci sia un certo consenso sul fatto che il “segnale dedicato” verso il pedone possa ridurre drasticamente gli incidenti causati dall’equivoco “auto che rallenta ma non si ferma” o “pedone che attraversa senza certezza”. A dircelo non è solo il produttore ma anche alcuni conducenti che lo hanno testato: la comunicazione visiva diretta evita gran parte dei fraintendimenti.
Prospettive future e possibili sviluppi
Viene da domandarsi: come si potrebbe rendere questo dispositivo più diffuso? Alcuni pensano a incentivi statali, come avviene per i seggiolini anti-abbandono o per i dispositivi anti-inquinamento. Altri immaginano direttive europee che impongano alle case automobilistiche di integrare soluzioni simili nei loro modelli di serie. Ma, al momento, tutto resta sulle spalle della burocrazia e della volontà dei singoli Comuni.
Tuttavia, l’inventore di Elvia98, a quanto sembra, non si è arreso. Anzi, mostra una certa determinazione nel voler raggiungere le scuole e le nuove generazioni, perché spesso è proprio tra i più giovani che si forma la nuova consapevolezza sulla sicurezza stradale. Quindi, l’intenzione è quella di portare il dispositivo nelle aule scolastiche, avviando magari piccoli laboratori o conferenze.
Noi pensiamo che, se da un lato le carte e gli iter legislativi sono complessi, dall’altro la spinta dal basso – cioè dai cittadini, dalle famiglie, dagli enti locali – possa fare la differenza.
L’idea che un segnale luminoso possa salvare vite suona semplice, quasi disarmante. Eppure, come spesso succede, tradurre un’intuizione concreta in un presidio standardizzato, riconosciuto e adottato su vasta scala, richiede tempo, risorse e un bel po’ di dialogo tra tutti gli attori coinvolti. Nel frattempo, ci sembra importante parlare di Elvia98 e ricordare che soluzioni intelligenti per proteggere i pedoni esistono già, anche se in una fase sperimentale.
Lo scopo del nostro reportage non è gridare al miracolo tecnologico ma sollecitare una riflessione: in un Paese come il nostro, dove la cultura dell’automobile è radicata e i centri storici si affollano di persone a piedi, la sicurezza stradale merita un’attenzione costante. E forse è arrivato il momento di rendere più visibile il percorso di dispositivi come Elvia98, un’innovazione che potrebbe rivoluzionare il nostro modo di attraversare la strada.
Attualità
Un nuovo raggio di luce tra le giostre: Leolandia e...
Sembra di sentirne il profumo, quell’aria frizzante che precede i grandi cambiamenti. Sì, perché quando un luogo così amato come Leolandia annuncia investimenti, novità e nuove prospettive, non si può restare indifferenti. E, per chi non ne fosse al corrente, la novità più grossa ruota attorno a un’emissione obbligazionaria (un “bond”, come lo chiamano in gergo) e a un piano di sviluppo da molte decine di milioni di euro. È molto più di una cifra su un foglio: è un segnale preciso, una fiaccola che indica un sentiero nuovo, forse più ampio, aperto al futuro.
E a pensarci bene, di futuro in un parco divertimenti ce n’è tanto. Spesso si crede che certi luoghi non cambino mai, che restino uguali a se stessi, anno dopo anno. Leolandia, invece, ha deciso di sfidare l’idea di essere soltanto “il parco dei bambini” e basta. Non vuole limitarsi a offrire intrattenimento ai più piccoli – e fidatevi, lo fa benissimo da una vita – ma ora si spinge oltre, investendo in attrazioni adatte anche a un pubblico un po’ più grandicello.
Le radici di un sogno
Prima di addentrarci nei dettagli, vale la pena ricordare che Leolandia affonda le radici in un concetto preciso: quello di un parco su misura per i bambini. È sempre stato così, sin dal principio. Giostre a misura di bimbo, ambienti fiabeschi, personaggi dei cartoni animati pronti ad abbracciare ogni giovane visitatore. Potremmo quasi definirlo un “nido sicuro”, dove i più piccoli possono sorridere e i genitori sentirsi sereni nel vederli liberi di esplorare un luogo fatto su misura per loro.
Ora, però, la mossa inattesa: l’emissione di un bond da 12,5 milioni di euro, finalizzato a un piano di investimenti molto più ampio. Non è un dettaglio da poco, perché significa che, dietro le quinte, si stanno muovendo figure di spicco della finanza (Banca Finint, Ver Capital SGR, Finint Investments e Solution Bank) che credono davvero nel potenziale di questo parco. Quando si mobilitano fondi così importanti, la domanda è sempre la stessa: “E adesso cosa succede? Dove va a parare questo flusso di denaro?”
I numeri dietro la voglia di espansione
Leolandia non ha tardato a rispondere: nuovi spazi, nuove attrazioni, un’intera area tematica di circa 20.000 metri quadrati dedicata a chi cerca esperienze un po’ più coraggiose. In altre parole, l’obiettivo è allargare la clientela, o meglio, allungare la “vita del visitatore”. Invece di pensare solo al bimbo dai 3 ai 6 anni, oggi si punta anche alla fascia di età superiore, magari i preadolescenti che desiderano un brivido più intenso di quello offerto dai tradizionali caroselli. Un passaggio epocale, che mischia l’allegria infantile con un pizzico di adrenalina.
Tutto ciò rientra in un piano più ampio, da circa 20 milioni di euro di investimenti previsti per il 2025. Sembra quasi una rivoluzione permanente: rifare aree, aggiungere giostre, ampliare lo staff, pensare a un intrattenimento più variegato. E su questo fronte si innesta anche la questione della sostenibilità, che non è soltanto un fiore all’occhiello. L’idea è potenziare l’impianto fotovoltaico interno, rendere il parco energeticamente più autosufficiente e fare in modo che la presenza di migliaia di visitatori non si traduca in un impatto ambientale pesante.
Guardare oltre i più piccoli
Veniamo al punto cruciale: Leolandia, storicamente, ha sempre parlato al cuore dei bambini dai primi anni di vita e in questo è stato un campione. Ma qualsiasi bimbo, si sa, cresce. A un certo punto, i trenini con i pupazzetti non bastano più e si inizia a cercare qualcosa di più “fisico”, magari un giro su un’attrazione che giri parecchio e faccia venire quel nodo nello stomaco che provoca risate e urletti di emozione. Ecco, adesso il parco ha in mente di proporre proprio questo genere di avventure. Potremmo dire che vuole seguire i bambini anche nella loro crescita, non lasciandoli andare via appena superano la soglia dell’infanzia.
È una mossa intelligente, perché consolida un rapporto che può durare anni. Si immagina un bambino che, a quattro o cinque anni, si innamora delle prime giostre, per poi desiderare di tornarci anche a dieci o dodici, quando il suo orizzonte di divertimento si è ampliato. E magari i genitori saranno ancora più felici, perché vedranno i loro figli un po’ più grandi ma ancora disposti a giocare e sognare.
Alla ricerca di Unicò: il musical che colora il parco
Ma non di sole giostre vive Leolandia. Si parla di un nuovo musical live, “Esiste Davvero 2: alla ricerca di Unicò”, pronto a debuttare già da marzo 2024. È un aspetto che può sembrare marginale, ma non lo è affatto. Gli spettacoli dal vivo, specie quelli che coinvolgono i bambini in prima persona, sanno creare un’atmosfera unica. E poi, diciamocelo: non tutti vogliono fare file interminabili per salire su una giostra adrenalinica. C’è anche chi ama sedersi e godersi uno show, lasciandosi trasportare da una storia magica in cui compaiono creature fiabesche e canzoni inedite.
Una svolta che, a pensarci bene, ribadisce la volontà di diversificare l’offerta: cibo, spettacoli, natura, divertimento e un pizzico di educazione (perché sì, un buon parco sa anche insegnare qualcosa sulle buone pratiche, sul rispetto per l’ambiente e così via). Sono tasselli che, sommati, danno vita a un mosaico ricco di colori, capace di accontentare un pubblico sempre più eterogeneo.
Una nuova idea di sostenibilità
Il discorso ambientale non è un accessorio. L’ampliamento dell’impianto fotovoltaico e l’attenzione a un turismo più “green” significano scelte pratiche, che vanno ben oltre lo slogan pubblicitario. Qualcuno potrebbe obiettare che, con tutte le luci accese, un parco divertimenti resti comunque un luogo dispendioso dal punto di vista energetico, ed è probabilmente vero. Ma la direzione conta tanto: ridurre gli sprechi, investire in energie pulite, ideare sistemi di gestione delle risorse più efficienti. Tutti aspetti che contribuiscono a fare la differenza tra un semplice “svago” e un’esperienza vissuta con consapevolezza.
Del resto, se si aspira a un milione e passa di visitatori l’anno, la ricaduta sul territorio è importante. Il traffico aumenta, i consumi pure. Diventa fondamentale compensare questa crescita con un approccio responsabile, che limiti le emissioni e, magari, riesca a sensibilizzare le persone che frequentano il parco. Dopotutto, anche i bambini di oggi sono i cittadini di domani, e un parco che li accolga in un contesto rispettoso dell’ambiente potrebbe dar loro un messaggio positivo da portarsi dietro.
Numeri, dati e prospettive
Se andiamo al sodo, i grandi obiettivi di Leolandia non sono certo una passeggiata. Raccogliere 12,5 milioni di euro di fondi non è uno scherzo ma significa anche pianificare l’uso di questo capitale. E i partner finanziari vogliono vedere risultati: un incremento del 20% dei visitatori, la soglia del milione di ospiti da superare e un posizionamento di primo piano nel settore. Non è un compito leggero, ma chi conosce il parco sa quanto impegno ci abbia sempre messo per conquistare la fiducia delle famiglie.
In fondo, è un circolo virtuoso: attrazioni nuove attirano gente nuova che a sua volta, soddisfatta, diventa il miglior passaparola per ulteriori visitatori. E più i numeri crescono, più c’è spazio per re-investire e migliorarsi ancora. L’unica insidia, semmai, è quella di perdere l’identità originaria. Ma per ora, almeno stando alle notizie che circolano, il progetto guarda avanti in modo coerente con la storia di Leolandia. Si punta sull’innovazione, certo, ma senza rinnegare quell’anima fiabesca che fa sentire a casa chiunque passi di lì.
Pensando a domani
Verrebbe quasi da chiedersi se, fra qualche anno, Leolandia potrà competere con i grandi parchi internazionali. Forse la domanda è un po’ prematura, ma nulla vieta di fantasticare. Sicuramente, la strada intrapresa è quella di una costante evoluzione, e la presenza di investitori importanti dà fiducia all’idea che ci sia un potenziale non ancora espresso del tutto. In più, c’è quell’elemento di “coccola familiare” che molti parchi più grandi non riescono a offrire. È quella dimensione raccolta, personale, che si respira a Leolandia e che la gente spesso elogia.
Se arriveranno giostre più spericolate, se il target si amplierà ulteriormente, se la sostenibilità sarà perseguita con convinzione, forse diventerà un punto di riferimento anche per i turisti stranieri. Chi lo sa, magari un bambino tedesco, spagnolo o francese metterà Leolandia nella lista dei posti da visitare in Italia, insieme alle classiche tappe d’arte e cultura. Sarebbe un bel salto di qualità.
Occhio alle novità gastronomiche
Un altro aspetto di cui si parla, e che può sembrare secondario ma non lo è affatto, è l’offerta gastronomica. Eh sì, perché le persone che passano l’intera giornata in un parco hanno bisogno di mangiare, e bene. Nasceranno nuovi punti di ristoro, zone street food, chioschi e bar tematici, magari con menù dedicati sia a chi preferisce un pranzo veloce sia a chi cerca cibi più sani. Negli ultimi anni, l’alimentazione è diventata un argomento sensibile, e i parchi che sanno offrire varietà e qualità prendono molti punti agli occhi dei visitatori.
Un investimento che si traduce in un circolo virtuoso: chi è soddisfatto dal cibo, oltre che dalle attrazioni, associa al parco un ricordo ancor più piacevole e potrebbe sceglierlo di nuovo per feste di compleanno, gite scolastiche, weekend in famiglia. A volte, questi dettagli fanno la differenza.
Tiriamo le fila: un parco in cammino
La sensazione, leggendo tutte queste novità, è che Leolandia stia entrando in una sorta di seconda era. Pur rimanendo “il regno dei bambini”, dove la fantasia regna sovrana, sta cercando di fare un salto di qualità che includa la crescita del suo pubblico di riferimento, una solida struttura finanziaria, un occhio di riguardo per il pianeta e un’offerta di intrattenimento più ampia. È una scommessa ambiziosa, che potrebbe portarla a competere con i più conosciuti parchi divertimento su larga scala, senza perdere il calore che l’ha resa famosa.
Tra bond, musical, nuove giostre, potenziamento dell’energia pulita e voglia di attirare sempre più visitatori (magari puntando al milione e oltre), la rotta è tracciata. L’importante è che, una volta raggiunta la meta, Leolandia mantenga quella scintilla negli occhi che ha conquistato generazioni di bambini. Perché alla fine, se un parco a tema non riesce a suscitare meraviglia, ogni piano di investimento va un po’ a perdersi. Ma le basi sono buone e le prospettive pure, quindi chissà… magari nei prossimi anni lo vedremo davvero diventare uno dei punti di riferimento assoluti del divertimento made in Italy.