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Joia B è una cantante dalla carica esplosiva. Veterana del palco, ama trasmettere amore e gioia a chi l’ascolta. Dopo i primi due inediti “Un tempo per volare” e “Sciamare'”, ha presentato a Casa Sanremo un nuovo brano intitolato “Don’t stop love”… Perché l’amore non può essere fermato!

Intervista a cura del nostro inviato Sante Cossentino, in esclusiva per Sbircia la Notizia Magazine. Con la collaborazione di Stefano Telese per Massmedia Comunicazione.

Com’è cominciata la passione per la musica?

“La passione per il canto per me è sempre esistita, non ricordo un momento particolare.”

Le tappe fondamentali del tuo percorso professionale?

“A 14 anni la prima esperienza importante con Una voce Per Sanremo, tournée come corista con una band del sud Italia, e vincitrice di numerosi concorsi nazionali. Ad aprile 2022 esce il mio primo singolo UN TEMPO PER VOLARE (brano autobiografico) e dopo pochi mesi SCIAMARE’. L’ultimo singolo DON’T STOP LOVE presentato proprio a Casa Sanremo 2023.”

Quali sono i tuoi idoli musicali?

“I I miei idoli musicali sono: Tina Turner, Lady Gaga, Amy Winehouse.”

Raccontaci la tua esperienza al festival.

“La mia esperienza al festival è semplicemente strepitosa e positiva, ricca di eventi in cui ho potuto mettermi in mostra e farmi conoscere.”

© Sbircia la Notizia Magazine, è vietata qualsiasi ridistribuzione o riproduzione del contenuto di questa pagina, anche parziale, in qualunque forma.

Giornalista e fondatore dell’agenzia Massmedia Comunicazione, è il motore dietro gran parte delle nostre interviste. Con un occhio per i dettagli e un talento nel porre le domande giuste, contribuisce significativamente al nostro contenuto.

Interviste

Il viaggio di Giorgio Cantarini: dal bambino di “La Vita è...

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Giorgio Cantarini, nato il 12 aprile 1992 a Orvieto, è un attore italiano il cui talento si è rivelato sin dalla tenera età. Il suo percorso artistico è iniziato in modo quasi fiabesco quando, a soli cinque anni, ha avuto l’opportunità di recitare nel celebre film di Roberto Benigni, La vita è bella (1997). In quel film, Giorgio ha interpretato il piccolo Giosuè Orefice, figlio del protagonista Guido, e la sua interpretazione ha immediatamente catturato il cuore del pubblico di tutto il mondo.

La dolcezza e l’innocenza con cui Giorgio ha dato vita a Giosuè hanno reso la sua interpretazione impossibile da dimenticare. Ogni suo sorriso, ogni sguardo ingenuo e fiducioso ha toccato il cuore di chi guardava, facendo scaturire un’emozione così pura e profonda che, ancora oggi, rimane scolpita nei ricordi di chi ha vissuto quella storia attraverso i suoi occhi.

Giosuè ha incarnato la purezza di un bambino che, pur immerso nella brutalità dell’Olocausto, riesce a trovare conforto nella fantasia protettiva del padre. Con naturalezza e sensibilità, ha saputo rappresentare quel delicato equilibrio tra la spensieratezza infantile e la cruda realtà, creando un ritratto di resilienza e speranza che ha toccato corde emotive universali.

La vita è bella ha trionfato agli Oscar, vincendo tre statuette, tra cui quella per il Miglior Film Straniero, e in questo successo, l’interpretazione di Giorgio ha avuto un ruolo fondamentale.

Dopo il clamoroso successo del suo debutto, Giorgio è tornato sul grande schermo nel 2000 con un altro ruolo iconico, interpretando il figlio di Massimo Decimo Meridionel kolossal di Ridley Scott, Il Gladiatore. Sebbene il suo fosse un ruolo breve, la sua presenza in un film di tale portata, accanto a una star del calibro di Russell Crowe, ha confermato ulteriormente il suo talento e il suo potenziale nel mondo del cinema.

La scelta consapevole di Giorgio

Nonostante l’incredibile successo che lo ha travolto fin da bambino, Giorgio ha deciso di non farsi trascinare da quella valanga di notorietà. Ha scelto, con maturità e consapevolezza, di mantenere i piedi per terra e prendere il tempo necessario per ascoltare sé stesso, invece di lasciarsi condizionare dalle aspettative del mondo esterno.

Con saggezza e maturità, ha preferito dedicarsi agli studi, ritagliandosi il tempo necessario per riflettere e fare scelte ponderate riguardo alla sua carriera. Ha continuato a lavorare come attore, ma con una presenza più discreta, partecipando a progetti cinematografici e televisivi, sia in Italia che all’estero, mantenendo sempre il controllo sulla propria evoluzione artistica.

La sfida di Giorgio: dalla recitazione al ballo

Nel 2005, ha accettato una sfida diversa partecipando a Ballando con le Stelle, dove ha messo in mostra non solo il suo talento, ma anche la sua personalità simpatica e affabile.

Negli anni successivi, Giorgio ha intrapreso un percorso di studio approfondito della recitazione, ampliando le sue competenze nel teatro e sperimentando nuove forme espressive. Pur non essendo più sotto i riflettori con la stessa intensità dei suoi esordi, ha mantenuto intatta la sua passione per l’arte, scegliendo progetti che rispecchiassero la sua crescita personale e professionale. Lo abbiamo incontrato in esclusiva, di seguito l’intervista in italiano – per leggerla anche in altre lingue, visita www.menover50mode.com.

La nostra intervista esclusiva

Giorgio, grazie di aver accettato questa intervista!

“Il piacere è mio.

Come hai vissuto il passaggio dall’essere un attore bambino in film così iconici a costruire la tua carriera da adulto?

Crescendo, dopo “La vita è bella” e “Il Gladiatore”, ho continuato a lavorare nel mondo del cinema, partecipando ogni 3-4 anni a qualche progetto, come nuovi film per la TV o piccole collaborazioni. Partecipavo a questi progetti quando erano interessanti, anche se all’epoca non avevo una vera aspirazione a fare l’attore. Non era qualcosa che mi interessava davvero. In pratica, era un’attività in cui ero capitato quasi per caso e che sapevo fare, quindi ogni tanto accettavo delle parti, ma in realtà volevo fare altro. Come molti ragazzi della mia età, sognavo di diventare calciatore, professore, ingegnere… A un certo punto volevo persino fare il Papa! È stato solo verso la fine del liceo che ho cominciato a pensare seriamente alla recitazione. Mi piaceva molto il cinema, i film, le grandi interpretazioni degli attori di Hollywood. Così ho deciso di provare ad entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove sono stato ammesso. Ho studiato lì per tre anni, e in quel periodo è nata una vera passione per la recitazione. Mi sentivo appagato, sia a livello personale che sociale. Mi piaceva lavorare con gli altri, far parte di un gruppo, ma anche lavorare su me stesso. Dopo il diploma, ci è voluto un po’ per rientrare nel mondo del lavoro, ma negli ultimi anni le cose sono andate molto bene. Inizialmente non è stato semplice, né trovare continuità nel lavoro né superare il peso del modo in cui avevo iniziato, con il ruolo in “La vita è bella”. Mi sentivo sotto pressione, come se dovessi sempre dare il massimo, superando quel traguardo, quella performance. Ma col tempo ho capito che non era necessario. A cinque anni, nel film, non stavo recitando, stavo solo interpretando me stesso. Non c’era una vera “performance”, ma una spontaneità naturale. Superato questo blocco, ho cominciato a esprimermi con molta più libertà. L’esperienza, lo studio e il tempo mi hanno permesso di crescere come attore, e ora mi sento più libero di esprimermi, molto più di quanto non fosse all’inizio, subito dopo l’accademia.

Guardando indietro ai tuoi ruoli più iconici, c’è stato un momento in cui hai sentito il peso delle aspettative o della notorietà, e come hai gestito quei sentimenti? Quali sono state le sfide più importanti?

In parte, ti ho già risposto nella prima domanda, parlando di come sentivo, tra virgolette, il “peso” della notorietà che avevo acquisito da bambino. Però è stato durante gli anni di studio e soprattutto nei primi anni dopo il diploma in recitazione che ho iniziato a percepire maggiormente questa pressione. Dovevo entrare nel mondo del lavoro vero e proprio, e sentivo di dover dimostrare qualcosa in più rispetto agli altri. Era come se nulla mi fosse dovuto, e dovevo provare di essere all’altezza del passato. Con il tempo, però, ho capito che questa era una stupidaggine. Guardando indietro, uno dei primi lavori che mi ha dato più soddisfazione è stato il cortometraggio “Il dottore dei pesci”, diretto da Susanna Della Sala, una regista e scenografa davvero talentuosa. È stato uno dei miei primi lavori dopo il diploma e ha ottenuto molto successo nei festival di tutto il mondo. Abbiamo vinto premi a Los Angeles, in Canada e in Olanda, e io sono stato nominato come miglior attore in un festival a Los Angeles. Sono anche andato a ritirare il premio, perché il regista non poteva essere presente, e io mi trovavo già negli Stati Uniti. Essendo uno dei miei primi lavori, e avendo lavorato con una regista che aveva studiato nella mia stessa scuola, sentivo una certa pressione. Anche molti altri nei reparti tecnici del corto avevano frequentato la stessa scuola, quindi c’erano aspettative alte, e volevo davvero dare il massimo. Credo di esserci riuscito, visto che la mia interpretazione è piaciuta molto. “Il dottore dei pesci” è una storia semplice e carina, molto fantasiosa, quasi fiabesca. Per quanto riguarda come ho gestito questi sentimenti di pressione, beh, non saprei dirti esattamente. Sono una persona molto positiva, e anche se a volte queste emozioni mi bloccavano un po’ artisticamente, ho sempre cercato di lavorare su me stesso e di dare il meglio. Quando mi sentivo bloccato o non al 100%, cercavo di capire cosa mi stesse trattenendo e, passo dopo passo, sono riuscito a elaborare queste sensazioni. Di questo sono molto orgoglioso.

Dopo aver scelto di mantenere un profilo più discreto nella tua carriera, quali valori o principi ti hanno guidato nelle tue scelte artistiche?

Dopo aver scelto di mantenere un profilo più discreto nella mia carriera, ho sempre seguito dei principi ben definiti nelle mie scelte artistiche. Il mio obiettivo principale è sempre stato quello di partecipare a progetti validi, con un certo livello di qualità. Fin dall’inizio, insieme al mio team, abbiamo cercato di impostare una direzione chiara, scegliendo con attenzione i progetti a cui aderire e decidendo di non propormi per certi tipi di lavori. Questo è stato importante per mantenere un certo livello di integrità artistica. Avendo iniziato in un modo particolare, anche se ero solo un bambino e non ancora un professionista, ho sempre voluto mantenere una certa coerenza nelle scelte. Ovviamente, non è facile replicare successi come quelli de “La vita è bella” o “Il gladiatore”, ma ci siamo concentrati sul non partecipare a prodotti che, diciamo, non riteniamo altrettanto validi dal punto di vista artistico. Per esempio, abbiamo deciso di evitare le fiction o le soap opera di un certo tipo, senza fare nomi, ma parliamo di quella televisione meno ricercata artisticamente. Abbiamo preferito investire maggiormente sul cinema e su progetti televisivi di un certo spessore. È stato possibile farlo soprattutto negli ultimi anni, con l’avvento delle piattaforme streaming, che hanno cambiato il modo di fare serialità, portando più investimenti e nuove storie da raccontare. Devo ammettere, però, che finora non ho ancora avuto la possibilità di lavorare in una serie TV, ma è una cosa che aspetto. In ogni caso, ho sempre cercato di aderire solo a progetti che mi appassionassero e che valorizzassero il mio lavoro. Solo una volta ho fatto un’eccezione, accettando un progetto esclusivamente per motivi economici, e me ne sono pentito. Non ti dirò di quale progetto si tratta, ma dopo quell’esperienza, ho deciso che non avrei mai più fatto qualcosa solo per soldi.

In che modo la recitazione e il teatro sono cambiati per te nel corso degli anni, e cosa cerchi oggi in un progetto che ti stimola a livello personale e professionale?

La mia visione della recitazione e del teatro è cambiata nel tempo, specialmente con la maturazione della mia consapevolezza come attore. Anche il mio approccio è diverso ora. Appena diplomato, mi sentivo un po’ come quando impari a guidare: all’inizio devi concentrarti su ogni piccolo movimento – inserire la prima, la seconda, gestire la frizione, il freno – ma con l’esperienza tutto diventa più fluido e automatico. Negli ultimi anni, ho notato con sorpresa come il mio modo di affrontare una sceneggiatura o un testo sia diventato più naturale, quasi automatico. C’è molto meno “lavoro” consapevole, molte cose arrivano spontaneamente, senza dovermi sforzare per capire il personaggio o il testo. Un’altra cosa che mi ha colpito è la facilità con cui oggi entro in un personaggio, rispetto al passato, e allo stesso tempo, la maggiore difficoltà nel lasciarlo andare. L’ultimo film che ho girato è stato particolarmente stimolante per me. Si tratta di una produzione in due lingue, italiano e inglese, girata tra Italia e Stati Uniti. Interpreto un soldato affetto da sindrome da stress post-traumatico, un personaggio che ha vissuto la guerra e che attraversa gli anni ’60 con una vita molto complessa. Nonostante la complessità del ruolo, sono riuscito a immergermi nel personaggio con facilità, ma ho avuto difficoltà a uscirne. Dopo la prima tranche di riprese, che continueranno tra settembre e ottobre in Friuli, ho impiegato almeno una settimana per liberarmi delle sensazioni intense del personaggio. Questo mi ha davvero sorpreso, anche se in passato avevo già notato qualcosa di simile, anche in ruoli meno intensi. Ho capito che posso entrare nei personaggi in modo molto profondo e naturale, senza troppo sforzo, soprattutto quando sento una certa affinità con loro. Se invece il personaggio è più distante da me, richiede un lavoro più approfondito. Onestamente, non sono ancora arrivato al punto della mia carriera in cui posso scegliere liberamente cosa fare o cosa non fare. Ahimè, non ci sono ancora, ma so che quel momento arriverà. Per ora mi candido a vari progetti, cercando ovviamente quelli che ritengo validi, ma spesso devo anche accettare ciò che arriva, senza poter fare una grande selezione. Naturalmente, devono essere progetti che abbiano un valore artistico e professionale, dove interpreto un personaggio che mi valorizza, e soprattutto che raccontino una storia degna di essere narrata, diretta da persone che sappiano il fatto loro. Purtroppo, mi è capitato di imbattermi in persone che volevano coinvolgermi in progetti che, alla fine, non erano all’altezza, perché fare un film, o anche solo un cortometraggio, non è facile. Serve esperienza, non solo mezzi produttivi, ma anche una visione artistica. Non è detto che tu debba per forza aver studiato nelle migliori scuole, ma devi avere una visione d’insieme e sapere come formare una squadra. Ogni singolo elemento deve avere la giusta esperienza per realizzare qualcosa di buono, perché il rischio di fare qualcosa di terribile è sempre dietro l’angolo. Quello che cerco, quindi, sono persone che sappiano valorizzarmi, che abbiano una storia interessante da raccontare e, se possibile, che portino una visione originale, fuori dagli schemi. Amo molto progetti che escono dal canone tradizionale, come il film di cui ti parlavo, “Il dottore dei pesci”, che ha un’atmosfera fiabesca in cui mi ritrovo particolarmente. Un sogno che ho da tempo è quello di interpretare un cattivo, un ruolo che non mi è mai stato offerto. Probabilmente perché non ho il classico “physique durôle” del cattivo: mi dicono sempre che ho gli occhi troppo buoni! Ma mi piacerebbe davvero, e sono convinto che lo farei bene, magari interpretando un personaggio che sembra buono, ma che poi rivela un lato oscuro e subdolo. In realtà, ho avuto un assaggio di questo tipo di ruolo a teatro, l’anno scorso, nello spettacolo Altrove, scritto e diretto da Agustina Risotto Interlandi. Interpretavo un giovane marito, premuroso all’apparenza, ma che si rivela un manipolatore calcolatore. La storia racconta di una giovane coppia forzata a convivere durante il lockdown, e con il tempo emergono i demoni della loro relazione. Mi piacerebbe molto interpretare di nuovo un personaggio così, qualcosa di completamente diverso rispetto a quello che ho fatto finora. Penso che sarebbe interessante, dato il mio volto “buono”, interpretare qualcuno che all’apparenza sembra innocuo, ma nasconde un lato oscuro. Sarebbe un contrasto davvero intrigante!

Ci potresti raccontare alcuni aneddoti divertenti accaduti con Benigni durante le riprese di “La vita è bella”?

Certo, posso raccontarti qualche aneddoto divertente su Benigni! Ricordo che durante le riprese, considerando che avevo solo cinque anni, non sempre il mio umore era adatto per girare. A volte, come ogni bambino, non ero nel mood giusto, e Roberto cercava sempre di farmi sorridere, di rilassarmi e mettermi a mio agio. C’era una cosa che faceva spesso e che mi faceva ridere un sacco. Mi diceva: “Giorgio, cosa c’è? C’è qualcuno che non ti piace? Lo mandiamo via. Quello là ti piace? Sì? E quello là? No? Allora tu, vai via!” E così scherzava, mandava via le persone per farmi ridere e calmarmi. Un’altra cosa simpatica riguarda il soprannome “Testa Dura”. Nel film, il personaggio di Guido mi chiama così, ma in realtà tutto nasce dalla realtà! Io sono sempre stato un po’ testardo, in senso buono (o cattivo, dipende!), e sia Roberto che sua moglie, Nicoletta Braschi, avevano iniziato a chiamarmi “Testa Dura” sul set, affettuosamente. E io, naturalmente, rispondevo con: “Ah sì? E tu sei Testa Durissima!” Alla fine, questa cosa è stata inserita anche nel film, il che è davvero carino. C’erano anche delle scene dove Roberto diceva: “Sì, fai così!” perché gli piaceva come mi comportavo in modo spontaneo. Alcune delle cose che facevo, senza rendermene conto, sono rimaste nel montaggio finale del film. È stato bello vedere come alcune mie piccole reazioni spontanee siano state mantenute. Purtroppo, non ho tantissimi altri aneddoti, perché ero davvero piccolo. I miei ricordi si mescolano un po’ con i racconti che ho sentito dai miei genitori, con quello che ho raccontato negli anni, e con i miei flashback. D’altronde, sono passati 27 anni, e tutto nella mia mente si confonde un po’ tra immaginazione, ricordi reali e costruiti. Ma quello che ti posso dire con certezza sono queste piccole cose che ricordo ancora con affetto.

Grazie infinite, Giorgio per questa intervista molto esauriente!

Grazie a te per avermi dato questa opportunità.

La storia di Giorgio Cantarini è quella di un artista che ha saputo coltivare la propria carriera con intelligenza e moderazione. Pur rimanendo indimenticabile per le sue prime interpretazioni, ha scelto di vivere la sua vita artistica con integrità, seguendo il proprio ritmo e mantenendo sempre viva la passione per la recitazione.

Il pubblico lo ricorderà per quei due ruoli che hanno segnato una generazione, ma ciò che lo distingue è il suo viaggio personale, un percorso di equilibrio tra il successo e la fedeltà a sé stesso.

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Interviste

Intervista ad Ivan Orrico, l’organizzatore della...

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È tutto pronto per la quinta edizione del Sila Film Festival, in scena dal 21 al 24 agosto 2024 nell’Anfiteatro Via Roma di Camigliatello Silano. Tanti gli ospiti previsti: da Gianmarco Tognazzi a Marco Leonardi, passando per Fabrizio Ferracane, Mirko Frezza, Tullio Sorrentino, Walter Lippa, Susy Del Giudice, insieme a Giovanni Esposito, Luca Calvetta, Heidrum Schleef, Pasquale Greco e Francesco Altomare. Un festival che, da sempre, promuove il territorio calabrese e le sue eccellenze, dando risalto anche ai film prodotti. Ne abbiamo parlato con Ivan Orrico, l’organizzatore dell’evento. Ecco cosa ci ha raccontato.

Ivan, mercoledì 21 agosto 2024 prenderà il via la quinta edizione del Sila Film Festival. Quali novità può raccontarci?

“In questa quinta edizione si sono ampliate le attività, oltre alle masterclass che saranno tenute dall’attore Giovanni Esposito e Walter Lippa ci saranno dei seminari importanti che riguarderanno la ricaduta del cinema sui territori, su come il FILM-INDUCED TOURISM può essere in grado di valorizzarli ed essere quindi una leva di sviluppo territoriale. Offre numerosi vantaggi e potenziali opportunità, in quanto può consentire di elevare non solo il livello culturale dei visitatori, ma anche quello eco- nomico e sociale delle collettività locali e quindi essere un’ottima strategia di marketing. Si riesce  così a valorizzare, accostandole al cinema, le tradizioni, la cultura  del posto. Infatti, noi sin dalla prima edizione, con Esperienze Silane e Le Strade del Cinema, abbiamo  portato avanti questa strategia di marketing territoriale facendo conoscere oltre alle eccellenze enogastronomiche anche quelle paesaggistiche, utilizzate in passato come set di importanti film del panorama nazionale ed internazionale.”.

Certo. Attraverso il cinema si promuove anche il territorio. Ed in fondo è questa la missione con la quale è nato il Sila Film Festival.

“Sì, è nato grazie alla passione per il cinema, per la cultura e per il proprio territorio che, ripeto, può dare tanto e ha dato tanto. Da calabrese, sono attaccato a questa terra e vorrei, appunto, che diventasse veramente, in toto, un set a cielo aperto. Cosa che, in parte, già è”. 

Il Sila Film Festival è arrivato alla quinta edizione. Si aspettava un così grande successo quando è partito? Immagino sperasse nel suo successo. Alla fine, è un evento che cresce di anno in anno.

“Noi iniziammo la prima edizione nel 2020, durante la pandemia. Era un periodo difficile. Nonostante tutto siamo riusciti a partire nonostante la situazione drammatica. Mi ricordo un aneddoto particolare. Il patron del Festival di Prato, Romeo Conte, purtroppo non più fra noi, a cui chiesi il gemellaggio mi disse: ‘Tu sei un pazzo, tu sei un folle. Iniziare in questo periodo, dove è tutto fermo. Proprio per la tua pazzia io ci sono, sono con te, perché il cinema è vivo, e ora più che mai ha bisogno di gente come noi, non bisogna mollare!’. Quella sua risposta mi riempì il cuore di gioia e mi diede ancor più forza! Quella forza e determinazione che oggi mi hanno permesso di essere qui alla quinta edizione. E a tal proposito quest’anno renderemo omaggio a Romeo Conte, un grande uomo, un grande maestro, un appassionato che ha vissuto per il cinema e che ha fatto innamorare di questo meraviglioso mondo chiunque gli si avvicinasse. In effetti il cinema è vita. Il cinema è terapia e può guarire ogni cosa . Può riportare l’equilibrio perduto, può smuovere gli animi e le coscienze di ognuno. Sto notando che col tempo la gente sta iniziando a capire l’importanza di questa ‘Fabbrica del Sogno’. Alla quinta edizione, ancor più strutturata, abbiamo un numero di ospiti sempre più importante. Quest’anno saranno con noi  Gianmarco Tognazzi, Marco Leonardi, Giovanni Esposito, Fabrizio Ferracane . La famiglia del Sila Film Festival si allarga  e sono entusiasta degli attori che ogni anno ne entrano a far parte. Vogliono venire perché, come ben sa, questo ambiente è fatto anche di passaparola. L’orgoglio più grande è sentirsi dire dai nostri ospiti che al Sila Film Festival si sentono a casa e che il loro desiderio è tornare anche nei prossimi anni perché da noi ‘si Respira aria di Cinema’”.

Certamente. Questo è un grande orgoglio perché significa che gli viene riconosciuta qualità e questo è un ulteriore riconoscimento, vero ?

“Assolutamente. Parliamo di un festival che è nato in maniera del tutto indipendente. La passione che ci muove unita alla professionalità è la ricetta che porta questi risultati e fa sì che un format del genere possa avere i riconoscimenti che merita”.

Ho visto che tra i film in proiezione c’è anche Kne – I Kustodi di Napoli Est, che ha diretto. Anche questo film le ha dato e le sta ancora dando molte soddisfazioni.

“Assolutamente sì. Siamo riusciti ad arrivare ottavi in Italia su Prime Video di Amazon. Ci emoziona e inorgoglisce perché non te lo aspetti ma è la prova che, nonostante le innumerevoli  difficoltà, con tanti sacrifici si ottengono i risultati. Nella vita, sa, contano i fatti e questo è la prova  che il tempo e l’impegno danno buoni frutti. Arrivare nella Top10 di Prime Video vicino a colossi, come Sergio Castellitto con il film Enea, è un risultato che mi riempie di gioia .

Tra l’altro Kne è un lavoro indipendente e, rispetto ad Enea,  aveva una distribuzione sicuramente meno ampia.

“Sicuramente i budget utilizzati sia per la realizzazione che per la distribuzione sono stati differenti di gran lunga ma questo non ci ha fatto desistere un minuto, perché sognare e far sognare è proprio una componente fondamentale del cinema. Noi ci abbiamo creduto e ce l’abbiamo fatta! Deve considerare che il pubblico è sovrano e ci ha preferito”.

All’interno del Sila Film Festival ci sono diverse categorie di premiazioni. Quali sono i criteri che seguite per premiare un cortometraggio ?

“Abbiamo  una giuria specifica per ogni categoria di cortometraggi. Per la valutazione di ogni corto si tiene conto di fondamentali elementi partendo dalla qualità del soggetto e della sceneggiatura, della  tematica quindi trattata, della  fotografia, della regia e della recitazione degli attori coinvolti fino alle musiche e al montaggio. Il punteggio più alto si raggiunge ottenendo il massimo ed il corretto equilibrio di queste componenti”.  

L’attenzione alle tematiche sociali è importante quando si parla del Sila Film Festival.

“Proprio così. Noi diamo molto spazio e siamo molto sensibili alle tematiche sociali più importanti. Ogni anno in gara, abbiamo veramente dei bei corti. Mi riempie il cuore di gioia quando mi rapporto con dei giovani talenti che pensano comunque a queste tematiche sociali, che magari vengono ignorate dalla maggior parte della popolazione, presa dai social, dalla mondanità e da questo mondo che comunque guarda tutt’altro. Vedere progetti  che toccano tematiche come quella dell’abbandono degli anziani, della depressione e della disabilità mi fa capire che ancora abbiamo una grande speranza di poter ritornare sulla retta via, perché in questo mondo purtroppo non si capisce più qual è veramente l’equilibrio”.

Viviamo in un modo allo sbando, privo di valori.

“In un mondo dove i valori si stanno perdendo, noi diamo spazio a cortometraggi che sono portatori di messaggi positivi. Oggi è valoroso chi riesce a portare avanti i valori. Se ci pensa, è difficile trovare un ragazzo coraggioso che non si uniforma alla massa. Il  cinema deve servire a questo: a riportare sulla retta via, a riportare l’ordine e l’equilibrio nelle menti. Deve scuotere le coscienze”.

Un’ultima domanda. Ha qualcos’altro da aggiungere rispetto a quello che ci siamo detti finora?

“Vorrei esortare i giovani e le persone in generale a concretizzare i propri sogni. Alla fine, tutto si può realizzare, l’importante è crederci, andare avanti ogni giorno determinati. Tuttavia, non vorrei che determinate attività come quella del cinema – che oggigiorno vedo sempre più essere gettonata – diventassero alla mercè di ognuno. Il cinema deve essere fatto da persone che, oltre alla passione devono avere la giusta competenza perché non ci si può improvvisare.  Vorrei che questo un attimino venga ridimensionato, che si dia il giusto valore alle persone e alle cose. La settima  arte non deve essere bistrattata ed i suoi protagonisti devono amarla e rispettarla“.

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Attualità

Storia di un’adozione: Il coraggio e la rinascita di...

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Oggi incontriamo Fatima Sarnicola, una ragazza la cui vita è un viaggio intenso e toccante di coraggio, resilienza e speranza. Nata in un piccolo villaggio della Lituania, Skaciai, Fatima ha vissuto i suoi primi anni tra gli orfanotrofi, dove ha subito abusi e maltrattamenti. Nonostante queste esperienze traumatiche, ha sempre avuto dentro di sé una forza straordinaria che l’ha aiutata a sopravvivere e a sognare una vita migliore. A soli otto anni, la sua vita ha preso una svolta decisiva quando è stata adottata da una coppia italiana amorevole, iniziando così un nuovo capitolo della sua esistenza.

L’arrivo in Italia non è stato privo di sfide, Fatima ha dovuto affrontare non solo l’adattamento a un nuovo ambiente e a una nuova lingua, ma anche il bullismo a scuola. Questi momenti dolorosi l’hanno colpita profondamente, ma hanno anche alimentato la sua determinazione a non arrendersi mai. Ricorda ancora come, nonostante gli insulti e le umiliazioni, ha trovato la forza di continuare a studiare e a lottare per dimostrare il suo valore. La sua esperienza scolastica, sebbene segnata da difficoltà, le ha insegnato l’importanza della resilienza e della perseveranza.

Il giorno in cui è stata adottata è uno dei ricordi più preziosi di Fatima. Descrive con emozione il primo incontro con i suoi genitori adottivi, l’iniziale paura di fronte a un uomo senza capelli, e l’incanto nello sguardo amorevole di sua madre. La loro presenza ha rappresentato per lei la fine di un incubo e l’inizio di una vita piena di amore e protezione. Questo amore incondizionato l’ha aiutata a guarire le sue ferite e a costruire una nuova identità, trovando finalmente la sicurezza e il calore di una vera famiglia.

Fatima ha trovato il coraggio di condividere la sua storia sui social media, inizialmente come sfogo personale, ma presto si è resa conto del potente impatto che poteva avere sugli altri. Grazie al supporto e ai consigli della sua famiglia adottiva, ha iniziato a raccontare il suo passato su TikTok, attirando l’attenzione di migliaia di persone. Questo ha portato alla creazione del gruppo Telegram “Noi siamo una famiglia“, una comunità di oltre 140 ragazzi adottati, e del podcast “Storie di adozioni“, dove le esperienze personali diventano fonte di ispirazione e sostegno.

Uno dei momenti più significativi del suo percorso è stato il viaggio di ritorno in Lituania, dove ha rivisto i luoghi del suo passato. Questo viaggio le ha permesso di confrontarsi con i suoi ricordi e di fare pace con la sua storia. Ha promesso a se stessa di usare la sua esperienza per aiutare gli altri, e da questa promessa è nato “AdoptLife“, il primo magazine italiano dedicato all’adozione e all’affido. Con “AdoptLife”, Fatima vuole fornire informazioni accurate, risorse utili e storie di vita che possano guidare e supportare le famiglie adottive e chiunque sia coinvolto in questo percorso.

Gestire una comunità online e affrontare le critiche sui social media richiede forza e determinazione, così Fatima ha imparato a trasformare le critiche in opportunità di discussione, mantenendo sempre il focus sul suo messaggio di speranza e resilienza. Grazie al supporto della sua famiglia e dei suoi collaboratori, è riuscita a mantenere l’integrità del suo progetto e a continuare a offrire supporto a chi ne ha bisogno.

Il suo percorso accademico in Scienze Biologiche è un altro aspetto della sua straordinaria storia. Nonostante le difficoltà iniziali, Fatima ha perseverato e ha continuato gli studi. Il suo sogno è contribuire alla ricerca contro i tumori, utilizzando le sue competenze per fare la differenza nella vita delle persone. Questo desiderio di aiutare gli altri è il filo conduttore della sua vita, dalla sua infanzia difficile alla sua carriera accademica e oltre.

Fatima ha anche una visione chiara per il futuro di “AdoptLife”. Vuole trasformare il magazine in una pubblicazione cartacea disponibile in tutta Italia e in altri Paesi europei, creando una rete di supporto internazionale per le famiglie adottive. Il suo obiettivo è abbattere i pregiudizi legati all’adozione e all’affido, promuovendo una maggiore comprensione e accettazione di queste realtà. L’impegno di Fatima è instancabile e la sua passione per aiutare gli altri stanno cambiando il panorama dell’adozione in Italia, offrendo speranza e supporto a molti che, come lei, cercano una seconda possibilità.

Noi l’abbiamo incontrata in esclusiva ed ecco un’intervista che, anche se un po’ più lunga del solito, vi consigliamo vivamente di leggere: le sue parole toccanti e sincere vi porteranno a conoscere una storia di rinascita, forza e amore che non potrete dimenticare.

Fatima, nella tua infanzia in Lituania hai vissuto esperienze drammatiche, tra cui maltrattamenti e abusi nei vari orfanotrofi in cui sei stata. Come pensi che quei momenti difficili e traumatici abbiano plasmato la tua forza interiore e la tua capacità di affrontare le sfide della vita? Quali strategie o risorse personali hai sviluppato per superare quei traumi e trasformarli in una fonte di resilienza?

Ho sempre creduto di essere nata forte. Mi sono ritrovata ad affrontare il male più volte ma non mi sono mai lasciata intimorire. All’orfanotrofio, quando subivo maltrattamenti, sentivo che avrei superato qualsiasi situazione spiacevole, e così è stato. Mi sono sempre rialzata quando gli altri mi facevano cadere, sempre. Non nego che ogni volta che mi rialzavo, al mio corpo si aggiungeva una cicatrice in più, ma da piccola ragionavo in questo modo: se ho una cicatrice in più vuol dire che ho lottato e che quindi ho vinto. La forza è dentro di noi, ma ammetto che tirarla fuori per proteggersi non è semplice. Ciò che è scattato nella mia mente nel momento in cui ho capito di essere stata abbandonata è stato un istinto di sopravvivenza. Volevo farcela, volevo vivere, e soprattutto volevo una famiglia. La fede è stata ciò che mi ha aiutato in quei momenti di silenzio. Pregavo tanto insieme alle mie compagne di stanza; ci inginocchiavamo a terra guardando la finestra con il desiderio di uscire da quelle mura. Credevamo che quello fosse l’unico posto al mondo esistente, che oltre quel bosco non ci fosse niente. Quando poi sono stata adottata, ho capito che non era così, e la mia vita è cambiata. Ammetto che quando mi sono sentita parte di una famiglia, ho messo a riposo la mia forza e mi sono lasciata coccolare. Mi sentivo stanca e avevo bisogno che qualcuno finalmente si prendesse cura di me e della mia sorella biologica, con cui sono stata adottata. Mi dicevo: “Ora ho una famiglia, non serve che lotti più per essere felice.” Questo pensiero è nato grazie all’amore con cui i miei genitori mi hanno avvolta e cresciuta. I miei traumi non hanno consumato il mio essere perché io sono stata più forte di loro, soprattutto perché ho vissuto cose orribili e ce l’ho sempre fatta. Non nego che l’unica paura che avevo era quella di un nuovo abbandono, ma nel momento in cui sono atterrata in Italia con la mia nuova famiglia, ho capito che potevo lasciar andare via quel pensiero. Ciò che mi ha più scosso è stato il ritorno delle persone del mio passato, come fratelli, sorelle, e zii, che mi cercavano con delle lettere e poi sui social. Questa è stata la difficoltà più grande che ho dovuto affrontare, perché inizialmente non volevo confrontarmi con la mia storia. Anche se provavo ad andare avanti, c’era sempre qualcuno che mi riportava indietro. Ma anche questo è stato superato grazie alla presenza e al sostegno della mia famiglia. Quando noi ragazzi adottati abbiamo tre elementi fondamentali: amore, protezione e ascolto, non c’è bisogno di applicare nessuna strategia per stare bene. Se i nostri genitori adottivi adottano anche la nostra storia, ci sentiamo a casa e la nostra forza diventa ancor più grande, e il futuro non ci spaventa. Anche nei momenti più bui, ho cercato di trovare una scintilla di speranza e di costruire su di essa. Inoltre, ho imparato l’importanza del perdono, sia verso me stessa che verso chi mi aveva fatto del male. Ho capito che portare rancore non avrebbe fatto altro che prolungare il mio dolore. Perdonare non significa dimenticare, ma permette di liberarsi da un peso emotivo che impedisce di andare avanti.

Quando sei arrivata in Italia a otto anni, hai dovuto affrontare non solo l’adattamento a un nuovo ambiente e a una nuova lingua, ma anche il bullismo a scuola. Puoi raccontarci come hai vissuto questi momenti e in che modo sei riuscita a trasformare quelle esperienze dolorose in una motivazione per aiutare altri ragazzi adottati? Ci sono stati episodi specifici o persone che ti hanno aiutato a trovare questa forza interiore?

Quando qualcuno mi chiede “Fatima, ma ti manca la scuola?”, rispondo subito con un “no” deciso, perché ho sofferto tanto. Prima di arrivare in Italia, frequentavo già la scuola e venivo presa in giro perché ero l’unica orfana della classe. Quando il bullismo si è ripresentato anche nella mia nuova scuola, nella mia nuova vita, non ci ho più visto. Le offese e i pregiudizi erano pesanti e anziché diminuire, aumentavano col passare degli anni scolastici, non solo da parte dei miei compagni di classe, ma anche dagli insegnanti. L’unico voto alto che presi a scuola fu in quinta elementare perché vinsi una gara di corsa senza fare allenamento. Nessuno sapeva che correvo spesso per scappare dall’orfanotrofio, quindi l’allenamento c’era eccome. Portai la coppa a casa, ma non ne fui felice. Col tempo però ho realizzato che quella vittoria rappresentava molto di più di un semplice trofeo: era la prova della mia resilienza e della mia capacità di trasformare una situazione negativa in qualcosa di positivo. Riguardo allo studio, invece, avevo una curiosità fuori dal normale, e ci rimanevo male quando, nonostante passassi pomeriggi interi a studiare dopo la scuola, i voti restavano bassi e finivo l’anno con debiti. Non sono riuscita nemmeno a diplomarmi con un voto alto, eppure, durante l’esame orale, c’erano più di trenta ragazzi vicino alla porta ad ascoltarmi e i professori smisero di leggere il loro giornale quando iniziai a parlare. Come ho fatto a convivere con questo continuo bullismo? Soffrendo. Tornavo a casa piangendo un giorno sì e un giorno no. Altre volte non riuscivo a rimanere tutte le cinque ore in classe e chiedevo un permesso per uscire prima, altre volte ancora mi rifiutavo di andarci. Sentivo che qualsiasi cosa facessi, che sia studiare o relazionarmi, non sarebbe servito a nulla. Diventavo simpatica ai miei compagni di classe solo quando alzavo la voce contro i professori dicendo che ero stanca di non ricevere mai voti alti, di sentirmi sempre una stupida straniera. “Fatima oggi litiga con la prof così non facciamo lezione,” dicevano. E quando provavo a difendermi da queste affermazioni, tutta la classe mi andava contro insultandomi: “Sei una figlia falsa, torna nel tuo Paese, sei bruttissima, vai dal chirurgo plastico, non sai parlare, con noi non esci”. E infatti uscivo con altri ragazzi adottati o con il fidanzatino. La mia famiglia ha sempre fatto presente questa mia sofferenza alla scuola, ma a nessuno sembrava importare. Pochi professori sono riusciti a capirmi e a trattarmi normalmente, come una ragazza che desiderava studiare. Fu un insegnante a far emergere la mia storia: i miei genitori avevano sempre preferito tacere per evitare che mi trattassero diversamente, e da quel momento il bullismo si concentrò non solo sul mio aspetto esteriore ma anche sulla mia storia. Dopo questo, ho desiderato il giorno della maturità come il giorno dei regali di Natale. Ho usato nuovamente la mia forza per resistere a quei momenti, sostenuta dall’unione della mia famiglia. Ma non nego che mi fa male sentire che molti ragazzi adottati vengono trattati come sono stata trattata io. I genitori mi scrivono dicendo: “Ho dovuto far cambiare scuola alla mia bambina perché la chiamavano orfanella, eppure una famiglia ce l’ha”, oppure i figli mi scrivono dicendo: “Mi bullizzano, non so più come fare”. Questo succede perché a scuola l’adozione non viene sensibilizzata. Bisognerebbe farlo, insegnando che un figlio adottivo non è un figlio diverso, ma piuttosto un figlio con una storia speciale, con un inizio di vita diverso. Il legame di sangue non supera il legame adottivo, perché è l’amore la chiave di tutto. Il mio motto, da me creato, è: “Usate l’amore per insegnare la vita”. Un motto che desidero venga interiorizzato da tutti, specialmente dagli insegnanti, affinché insegnino che l’adozione è un tema universale; dai genitori, perché attraverso il supporto si insegna il concetto di famiglia, dell’amore per sé stessi e verso gli altri, della vita; e dai figli adottivi, per non dimenticare che l’amore è un sentimento che meritiamo e che dobbiamo sempre proteggere. I pregiudizi ci saranno sempre, le difficoltà nella vita aumenteranno, ma se ci ricordiamo ciò che abbiamo vissuto, ci ricordiamo anche che siamo forti e che quindi ogni evento spiacevole può diventare un insegnamento per affrontare qualsiasi situazione con ottimismo e soprattutto con coraggio. E concludo dicendo che un voto basso non determina la vostra bravura. Considerando le difficoltà che avete dovuto superare, sappiate che quel 4, 5 o 6 è un ben oltre di un 10. Non tutti hanno la sensibilità di capire la vostra storia e, soprattutto, il vostro valore. Rendete orgogliosi voi stessi, il tempo farà il resto.

Il giorno in cui sei stata adottata dai tuoi genitori italiani è stato un momento di svolta nella tua vita. Puoi condividere con noi le emozioni, le paure e le speranze che hai provato durante quel primo incontro? Come è cambiata la tua percezione della vita e della famiglia in quel momento e nei giorni successivi?

Il giorno in cui sono stata adottata è stato il più bello della mia vita. Il 12 novembre 2006 siamo diventati ufficialmente una famiglia. Ho conosciuto i miei genitori nello stesso anno, ad agosto. L’iter dell’adozione in Lituania prevedeva due viaggi per conoscere il bambino abbinato; quindi, i miei genitori li conobbi durante il periodo climatico più favorevole. Ricordo l’emozione appena li incontrai e la paura per la mancanza di capelli sulla testa del mio papà. Non avevo mai visto un uomo senza capelli, ma questa paura si alleviò con un regalino da parte sua. Rimasi incantata dagli occhi di mia madre e dal suo sguardo buono. Sentivo dentro di me vibrazioni positive e ogni giorno che passava speravo di avere il potere di fermare il tempo e restare con loro per l’eternità. Purtroppo, il nostro primo incontro finì dopo una settimana e i miei genitori ripartirono per l’Italia, lasciandomi giochi, soldi e il loro profumo sui miei vestiti. Una cosa per cui sono stata molto grata è la scelta di adozione anche della mia sorellina Anna, che avevo conosciuto due anni prima ma che poi non avevo più avuto la possibilità di vedere. Quando la andammo a prendere per passare quella settimana insieme, capii che c’era la possibilità di andare via da quel posto tutte e due insieme. Quando pregavo, lo facevo dicendo anche il nome di mia sorella. Dal nostro incontro sentivo di avere una ragione di vita per smettere di scappare dall’orfanotrofio e attendere. Rividi successivamente i miei genitori ad ottobre e passammo un mese e mezzo insieme, proprio come una famiglia. I miei affittarono un appartamento a Vilnius, la capitale della Lituania, e dal giorno dopo iniziammo a chiamarli mamma e papà. Legammo da subito. Mamma mi comprò tantissimi vestiti e cose buone da mangiare. Nella valigia portarono dall’Italia DVD di cartoni animati in italiano e manuali per imparare la nuova lingua. Piano piano espressi il desiderio di cambiare nome e così, con il tempo, imparai ad amare “Fatima” e tutto l’amore che i miei genitori mi davano ogni giorno. Ricordo che alla sentenza con il giudice dissi: “Voglio partire per l’Italia con la mia sorellina e con i miei genitori,” e gli bastò questa affermazione per capire che ero pronta a lasciare quel capitolo della mia vita. Ricordo anche che la sera prima di partire avevo paura di essere lasciata lì e passai una notte intera sveglia a guardare la macchina parcheggiata nel cortile, ma provavo anche l’emozione di vivere la vita che sognavo nell’orfanotrofio. Sembra sempre che le parole non siano abbastanza per descrivere quel giorno, ma posso dire che quando qualcuno mi chiede quando io sia nata, desidero rispondere nel 2006 anziché nel 1998. Quel giorno ha segnato una svolta radicale nella mia percezione della vita e della famiglia. Con l’adozione ho iniziato a sognare in grande, a immaginare possibilità che prima sembravano irraggiungibili. La mia mamma mi insegnava l’italiano con pazienza, mentre mio papà mi raccontava storie della loro vita in Italia, facendomi sentire parte di qualcosa di speciale. L’amore dei miei genitori mi ha insegnato che non importa quanto difficile sia il passato, c’è sempre la possibilità di un nuovo inizio. E questo nuovo inizio mi ha dato la forza e la motivazione per aiutare altri bambini adottati, affinché possano trovare la stessa felicità e sicurezza che io ho trovato.

Hai iniziato a condividere la tua storia sui social media come un semplice sfogo personale. Qual è stato il momento o l’evento specifico in cui hai realizzato che la tua storia poteva avere un impatto positivo su migliaia di persone? Come hai deciso di strutturare la tua presenza online per massimizzare questo impatto?

Questa domanda la rispondo con le lacrime agli occhi perché è stata nuovamente la mia famiglia a farmi capire che potevo essere d’aiuto per tanti altri ragazzi adottivi e famiglie. Nel 2021, durante un semplice pomeriggio in cui ricordavamo momenti dei nostri primi incontri e primi abbracci, mia mamma mi disse queste parole: “Non dimenticare la bambina che sei stata, non dividere la tua personalità in due identità. Tu sei lei e quella bambina sarà la tua forza domani e nel futuro. Non cancellare il tuo passato.” Poi aggiunse: “Fai ciò che senti, ciò che ti dice il cuore.” In quel momento ho capito di avere la forza di raccontare ciò che mi è successo e ho realizzato che potevo finalmente confrontarmi con persone che mi avrebbero capito senza giudicarmi. Così ho aperto il mio profilo su TikTok, usando coraggiosamente il mio nome e cognome. Ho iniziato pubblicando momenti della mia adozione e successivamente video di interpretazione e monologhi. Quando ho iniziato a mostrarmi fisicamente, le critiche non sono mancate. Alcuni dicevano che stavo inventando una storia per ottenere successo perché ero bella e potevo fare la modella; altri pensavano che prendessi spunto da film sull’adozione o libri per alimentare il mio racconto. Decisi di prendere una pausa che durò quasi un anno, riprendendo poi nel 2022 grazie al supporto della mia famiglia. Ho trasformato quelle critiche in una sensibilizzazione per far comprendere veramente le mie parole, mettendo in evidenza più le critiche che i commenti positivi. Virtualmente, ho incontrato altri ragazzi adottati e ho deciso di aprire il primo gruppo Telegram italiano per ragazzi adottati chiamato “Noi siamo una famiglia”, unendo più di 140 ragazzi adottati e successivamente “Cuore Adottivo”, il primo gruppo Telegram per i genitori in attesa a adottivi. Un viaggio in Lituania è stato determinante: ho fatto ritorno nel mio paese d’origine e ho rivisto la mia prima casa, scuola e orfanotrofio. Anche se non ho avuto il coraggio di avvicinarmi all’orfanotrofio, ho sentito le urla di quei bambini e, soprattutto, le mie. Questo è stato uno dei momenti più intensi emotivamente della mia vita. Avevo giurato a me stessa di non tornarci mai più, nemmeno per curiosità, ma il destino ha deciso diversamente. Quando sono salita sull’aereo per tornare in Italia, ho fatto una promessa: avrei raccontato le storie degli altri affinché le persone comprendessero che non esisteva solo la mia storia di adozione, ma molte altre. Nasce così il primo podcast italiano sulle storie di adozioni nazionali ed internazionali. Ricevevo molte domande, il che mi ha portato a rilasciare interviste e ad essere invitata in programmi Rai e riviste editoriali. Ma ho sentito che potevo fare di più quando mi è stata posta una domanda improvvisa: “Come si fa per adottare? A chi devo rivolgermi?”. Ho capito la gravità della situazione: molte persone non solo non conoscevano le storie di adozione, ma non sapevano nemmeno cosa fosse l’adozione. Nel 2023 ho deciso di fare un passo più grande fondando il primo giornale italiano sull’adozione e l’affido. In tre mesi, in piena estate, ho formato il mio team di partenza grazie a un annuncio sui social. Ho capito che per sensibilizzare al meglio sulla tematica dovevo unire professionisti nei campi legale, psicologico e assistenza sociale per rispondere ad ogni domanda dei nostri lettori e sensibilizzare su ogni aspetto. Ho disegnato il logo, creato le grafiche per i profili social, investito i miei risparmi nella creazione del sito web e in ulteriori passi avanti. In cinque mesi di lavoro incessante, ho realizzato il progetto e il 9 ottobre 2023 è nato AdoptLife. “Mamma, papà, per caso esiste un giornale sull’adozione in Italia?”, chiesi ai miei genitori. “No, non esiste”, mi risposero. “Bene, non so come si faccia, ma lo realizzo io”, risposi io. Ringrazio i miei genitori per aver tirato fuori il meglio di me, per avermi dato l’autostima, la cultura e soprattutto la continua forza. Devo ringraziare anche il mio team, che ha creduto nel progetto fin dalla nostra prima videochiamata, supportandomi in ogni mia idea, strategia di comunicazione e nella pubblicazione mensile della rivista. Senza di loro, l’inizio sarebbe stato sicuramente diverso. Non nego di aver sentito l’aiuto di qualche angelo del cielo, perché quando oggi, dopo quasi un anno, guardo il lavoro che continuo a portare avanti, mi chiedo sempre come sia riuscita senza avere titoli di studio in nessuna materia utile per il progetto. Poi ho capito che quando si agisce con il cuore si fa la differenza, e quando si combinano disciplina, valori e passione, si riesce a tirare fuori il meglio di sé stessi.

Sei riuscita a creare una comunità online molto attiva e solidale attraverso piattaforme come TikTok e Telegram. Quali sono le sfide più grandi che hai affrontato nel gestire questo spazio di condivisione e supporto? Come riesci a mantenere un equilibrio tra il supporto emotivo che offri agli altri e la tua salute mentale e benessere personale?

Su TikTok, mi sono impostata dei limiti. Pubblicavo un video e rientravo nell’app solo per caricarne un altro. I miei follower sapevano che se avessero desiderato un confronto o un supporto, avrebbero potuto rivolgersi al mio gruppo su Telegram. Dedico solo il fine settimana alla lettura dei commenti sotto ai miei video, prendendoli come spunto per la mia sensibilizzazione. Invece su Telegram, una delle sfide principali è stata gestire le aspettative e le emozioni dei ragazzi all’interno della community. Molti cercano sostegno emotivo e consigli, quindi è fondamentale essere presenti e rispondere in modo efficace per essere davvero d’aiuto. Per mantenere una presenza costante, ho avuto il supporto di due ragazze adottate che mi hanno aiutato a moderare il gruppo, e alle quali sono grata nonostante le delusioni ricevute in seguito. Ogni giorno si univano al gruppo sempre più ragazzi, ognuno con la propria storia e le proprie emozioni. Le storie di adozione sono tutte diverse e riconoscere le sfumature di ciascuna non è stato semplice. A volte scaturivano discussioni accese o addirittura offese. Altre volte, rimanevo sveglia di notte con le moderatrici per sostenere le ragazze più fragili. Questi momenti mi emozionano: spegnendo il telefono, mi rendevo conto di aver creato qualcosa di utile per gli altri. Inizialmente, gestire la mia emotività personale è stato difficile. I racconti altrui mi turbavano e trovare le parole giuste non era semplice, specialmente durante le videochiamate. Con il passare dei mesi, mi sono legata sempre di più ai ragazzi e il telefono ha cominciato a squillare anche per chiamate e consigli privati. Mi è stato attribuito anche il ruolo di “psicologa del gruppo”. Ho imparato a gestire le emozioni che mi trasmettevano: quando mi sento vulnerabile, spengo il telefono, faccio un respiro e lo riaccendo solo quando sono pronta. Grazie a questi ragazzi ho compreso che il dolore ci ha uniti: l’abbandono e la ricerca di comprensione hanno spinto molti a oltrepassare i confini del gruppo. Mi hanno ringraziato con canzoni, disegni e poesie, condividendo le loro emozioni. Molti di loro hanno raccontato la propria storia nel mio podcast. La cosa che mi ha rammaricato di più è stata l’atteggiamento ostile di alcuni ragazzi fin dal primo giorno, che, nonostante ciò, sono rimasti nel gruppo per screditarmi. Ho cercato di far loro capire che il gruppo era un luogo di apertura e supporto, ma ogni tentativo è stato vano. Questo ha contribuito a renderlo meno attivo. Nel frattempo, ho creato un gruppo per i genitori adottivi, dove molti si sono incontrati di persona, condividendo gioie e sfide dell’adozione. Sono felice di facilitare questi scambi. Alla fine, non tutti apprezzeranno il nostro impegno, ma l’importante è non smettere di farlo. Continuerò a offrire il mio aiuto fino all’ultimo battito, come ripeto spesso alle persone che mi seguono.

Il tuo podcast, “Storie di adozioni”, ha permesso a molti ragazzi adottati di condividere le loro esperienze personali. Qual è stata la storia che ti ha colpito di più e perché? Ci sono stati episodi in cui hai visto un cambiamento tangibile nella vita di qualcuno grazie alla piattaforma che hai creato?

Tutte le storie mi hanno toccato profondamente in modi diversi. Ognuna presenta aspetti unici e scoprirle è stato commovente. Ci sono ragazzi che hanno vissuto in orfanotrofio come me e quindi comprendono pienamente la mia esperienza, essendo passati attraverso eventi simili. Altri non ricordano molto del loro passato, ma condividono comunque con me le difficoltà dell’adattamento dopo l’adozione, nel relazionarsi e soprattutto nell’essere accettati. Viviamo in una società che non cambia, il che ha portato me e i miei ragazzi ad affrontare le stesse difficoltà. Tuttavia, le modalità di affrontarle sono diverse: alcuni hanno avuto genitori più assenti, mentre altri il contrario. Purtroppo, quando non c’è un adeguato sostegno verso i figli, ciò che accade loro può diventare un peso che decidono di portare da soli, facendoli sentire ancora più soli. “Mi sento nuovamente abbandonata”, sono parole che non dimenticherò mai, dette da una ragazza del gruppo. Tra tutte le storie raccontate, una in particolare ha colpito profondamente me e gli ascoltatori: quella di un ragazzo di nome Luca. Due mesi dopo la pubblicazione del podcast, Luca è stato contattato dalle sue sorelle e ha poi incontrato il suo papà adottivo. Conservo ancora il messaggio che mi ha mandato. Sapere che il podcast ha aiutato Luca e la sua famiglia a ritrovarsi è una gioia immensa e mi motiva a continuare a promuoverlo. Spero di riuscire presto a incoraggiare molti altri ragazzi a condividere la propria esperienza e a far loro capire che insieme possiamo fare la differenza, evitando che altri bambini debbano subire ciò che abbiamo dovuto affrontare noi. L’unione fa la forza e io sono qui per dare una mano a tutti loro.

Hai parlato spesso della necessità di riformare le leggi italiane sull’adozione, evidenziando le difficoltà burocratiche e i lunghi tempi di attesa. Quali specifiche modifiche ritieni fondamentali per migliorare il processo adottivo e renderlo più accessibile e giusto? Hai avuto contatti con legislatori o istituzioni per promuovere questi cambiamenti?

L’adozione è un argomento profondo che richiede attenzione alle necessità dei bambini e a un processo equo ed efficiente per tutti i soggetti coinvolti. Per migliorare le leggi italiane sull’adozione e renderle più accessibili, occorre considerare diverse modifiche cruciali: semplificare e accelerare i procedimenti burocratici senza compromettere la sicurezza e il benessere del bambino adottato. I lunghi tempi di attesa spesso derivano da complessità burocratiche e procedure internazionali, che potrebbero essere riviste per garantire tempi più brevi senza compromettere la sicurezza dei bambini, assicurando loro di trovare presto una famiglia amorevole. È essenziale anche definire chiaramente i requisiti per i genitori adottivi e i criteri di selezione, bilanciando rigorosi standard con un accesso equo all’adozione. Il supporto post-adozione è altrettanto cruciale: garantire un sostegno adeguato sia ai bambini adottati che alle famiglie adottive può migliorare il loro adattamento e ridurre rischi di problematiche post-adozione, come ad esempio l’interruzione dei percorsi di adozione che riporta il bambino in uno stato di abbandono, situazione inaccettabile. Un altro aspetto da considerare è l’adozione piena per le coppie single e coppie LGBTQ+. Il principio dell’affidamento deve essere tutelato, evitando che un bambino venga strappato dalle braccia di chi lo ha accolto a casa propria solo perché la famiglia biologica si manifesta nuovamente. Il benessere del bambino è prioritario, e cambiamenti legislativi devono proteggere questo principio. Per quanto riguarda il coinvolgimento con legislatori e istituzioni, è fondamentale il dialogo per sensibilizzare e promuovere riforme legislative necessarie. La collaborazione con legislatori, ONG e altre istituzioni può essere determinante nel portare avanti proposte concrete di cambiamento, e personalmente sarei interessata a contribuire attivamente in questo ambito al momento opportuno.

Nonostante le difficoltà iniziali, sei riuscita a costruire una carriera accademica brillante e stai per laurearti in Scienze Biologiche. Come pensi di integrare il tuo background personale e le tue esperienze di vita con il tuo futuro professionale nel campo della ricerca scientifica, specialmente in progetti legati alla lotta contro i tumori?

Le difficoltà iniziali che ho affrontato mi hanno insegnato resilienza, determinazione e l’importanza di non arrendersi mai. La scelta di studiare Biologia è stata ben ponderata. Fin da piccola ho nutrito il desiderio di aiutare gli altri, soprattutto quando vedevo bambini accanto a me soffrire. Ricordo vividamente una volta in cui un mio compagno di classe è entrato camminando con la testa rivolta verso il pavimento e la schiena curva, una scena che mi ha profondamente colpita. Quando sono stata adottata, mi sono ripromessa di studiare con impegno affinché la mia educazione potesse essere un aiuto concreto per gli altri. Sono felicissima che il giorno della mia laurea si stia avvicinando e sono orgogliosa di aver già dato un contributo significativo come collaboratrice scientifica nel campo della ricerca oncologica, con un progetto recentemente diventato globale e pubblicato su riviste come Springer Journals; è stato un momento emozionante. Nel campo oncologico, intendo concentrarmi su ulteriori progetti che possano contribuire concretamente alla comprensione dei meccanismi biologici alla base della formazione e della diffusione dei tumori. Desidero esplorare le possibilità di sviluppare nuove terapie o migliorare quelle esistenti, utilizzando approcci innovativi e multidisciplinari. Non vedo l’ora di contribuire ancora di più.

La tua storia è seguita da molte persone sui social media, ma hai anche ricevuto critiche e dubbi sulla veridicità dei tuoi racconti. Come rispondi a chi mette in discussione la tua esperienza? Quali strategie utilizzi per affrontare e gestire le critiche negative e mantenere la tua integrità e il tuo messaggio positivo?

Come accennato nelle risposte precedenti, è stato emotivamente complicato gestire le prime critiche. Con il tempo, ho imparato a trasformarle in opportunità di discussione per far comprendere il mio messaggio, soprattutto per sensibilizzare sul fatto che esistono storie che nessuno racconta per timore di essere giudicati, e chi decide di farlo merita il nostro sostegno per il grande coraggio dimostrato.

Sono felice di condividere ulteriormente una breve guida su come affronto le critiche:
1. Trasformare le critiche in discussione: accolgo le critiche come opportunità per spiegare meglio la mia esperienza e il mio punto di vista. Cerco di educare e informare le persone sulle sfumature e le complessità della mia storia, incoraggiando una conversazione costruttiva.
2. Mantenere il focus sul messaggio principale: mi concentro sempre sul motivo per cui ho deciso di condividere la mia storia. Mantenere il focus sul messaggio di speranza, coraggio o consapevolezza che voglio trasmettere ai miei follower è essenziale per me.
3. Rispondere con calma e rispetto: quando rispondo alle critiche, lo faccio con calma e rispetto. Evito polemiche e cerco di comunicare in modo chiaro e pacato, anche quando le critiche sono sfavorevoli.
4. Cercare il sostegno delle persone che comprendono: trovo conforto nel sostegno delle persone che capiscono e condividono le mie esperienze o il mio messaggio. Questo mi aiuta a mantenere la fiducia nel mio percorso e nel mio intento di sensibilizzare gli altri.
5. Non lasciare che le critiche mi scoraggino: è importante non permettere alle critiche negative di minare la mia determinazione o la mia fiducia nel mio racconto. Continuo a essere autentica e a condividere la mia storia con la consapevolezza che può ispirare e aiutare gli altri.

L’apertura del gruppo Telegram “Noi siamo una famiglia” è stata un’iniziativa molto apprezzata. Quali sono gli obiettivi a lungo termine di questo gruppo e come intendi raggiungerli? Quali attività o progetti specifici hai pianificato per supportare ulteriormente i membri della comunità?

Nell’ultimo periodo, a seguito di vari gravi eventi accaduti, tra cui denunce tra due membri del gruppo, ho preso una pausa per capire come impedire che i membri, anziché unirsi per solidarietà, si uniscano per manifestare il proprio dolore senza considerare quello degli altri. Non intendo assolutamente abbandonare i miei ragazzi, ma tengo molto a offrire loro un posto sicuro e amorevole, cosa che, nel corso dell’ultimo anno, a causa di alcuni membri, si è persa. Questo mi ha fatto stare molto male, soprattutto perché sono stati proprio quei ragazzi che stavo aiutando di più o che ho abbracciato unendo le nostre braccia. Quando sarò pronta a offrire nuovamente sicurezza e un ambiente tranquillo, sarò più che felice di creare iniziative che vadano oltre il digitale, come incontri faccia a faccia e attività di gruppo che favoriscano la comunicazione aperta e il reciproco rispetto. Vorrei promuovere un clima di fiducia e comprensione reciproca tra tutti i membri, incoraggiando la solidarietà e la collaborazione anziché la divisione. Sarà importante per me stabilire nuove regole e linee guida che assicurino il rispetto reciproco e il benessere di ogni membro del gruppo, in modo che possiamo essere una famiglia.

La tua relazione con la tua famiglia adottiva è stata un pilastro fondamentale nella tua vita. Quali valori e insegnamenti ti hanno trasmesso i tuoi genitori adottivi che ritieni essenziali nel tuo percorso di vita e nella tua missione di supportare gli altri? Puoi condividere qualche aneddoto o momento speciale che ha rafforzato questo legame?

Mi ricollego subito all’ultima domanda. C’è stato un episodio che mi ha fatto comprendere quanto bene mi vogliano i miei genitori. Un giorno mi buttai a terra e presi a pugni il pavimento. Continuavo a ricevere messaggi di minacce da parte dei miei parenti biologici, come per esempio: “Quando farai 18 anni verremo ad Agropoli e ti porteremo via”, motivo per cui insistei, senza dare troppe spiegazioni, ai miei genitori di festeggiare i miei diciotto anni lontano, e scegliemmo Firenze. È stato un giorno abbastanza difficile perché mi sentivo come se qualcuno volesse strapparmi dalla mia famiglia, ma poi lo dissi ai miei genitori e loro mi rassicurarono dicendo che non c’era bisogno di andare lontano, che comunque mi avrebbero protetta. Giorni prima, però, ebbi un forte crollo emotivo e iniziai a urlare forte. Provai un bruciore interiore indescrivibile, ma in quell’urlo si buttarono a terra anche i miei genitori e mia sorella e iniziammo a piangere insieme. Questa è una di quelle domande in cui scoppio sempre a piangere, come in questo esatto momento, perché quell’amore ricevuto in quelle urla ha sostituito tutto l’amore mancato nell’infanzia. Mi sono sentita davvero parte di una famiglia, mi sono sentita a casa. Sebbene il motivo di quella mia reazione l’abbia confessato dopo, i miei genitori hanno compreso che stavo soffrendo e si sono presi il mio dolore. Iniziai anche a parlare anni prima della mia storia, cosa che ci ha legato subito, ma questo accaduto ci ha resi un tutt’uno. Grazie a loro ho capito che l’amore guarisce ogni tipo di ferita, che il rispetto per se stessi e per gli altri è fondamentale, che la sensibilità e l’empatia non devono mai mancare e soprattutto che non c’è bene più grande della propria famiglia. Grazie a loro ho compreso la mia storia, ne ho fatto la mia forza, non provo più alcun rimorso perché ho esplorato ogni mancanza e ho cercato le risposte. Non odio i miei genitori biologici, anzi, li ringrazio, perché hanno acconsentito alla mia adozione, mi hanno dato la possibilità di vivere una vita felice, anziché riportarmi indietro. Ho compreso le difficoltà che avevano e la sopravvivenza attuata. Non è colpa di nessuno. Ogni vita inizia diversamente e la mia è iniziata con una cicatrice nel cuore, ma l’essere umano non è nato per soffrire e la stessa vita cerca di rimediare o di indirizzarti verso la strada giusta. I tempi di attesa, i documenti infiniti, i momenti di sconforto, le notti insonni, vengono trasformati un giorno in amore e ogni sforzo diventa solo un ricordo di una meravigliosa vittoria.

Recentemente hai lanciato il magazine digitale “AdoptLife”, che si propone di affrontare vari aspetti dell’adozione. Quali temi principali vengono trattati nella rivista e quali sono le tue aspettative per il suo impatto sulla società e sulle famiglie adottive? Come vedi il futuro di “AdoptLife” e quali sono i prossimi passi per far crescere questa iniziativa?

AdoptLife nasce su tre pilastri fondamentali: notizie, storie e risorse. Va oltre un semplice giornale; come dico spesso, è un punto di riferimento sull’adozione. Affrontiamo ogni aspetto dell’adozione così come dell’affido, con l’obiettivo di fornire una panoramica completa e approfondita su questi temi complessi e delicati. Nella sezione notizie, pubblichiamo aggiornamenti sugli sviluppi legislativi riguardanti l’adozione e l’affido, sia a livello nazionale che internazionale. Informiamo i nostri lettori su eventi, conferenze e seminari dedicati all’adozione, così come su iniziative di enti e associazioni che operano nel settore. La nostra missione è garantire che chiunque sia interessato all’adozione o all’affido sia sempre aggiornato e informato sulle ultime novità. Le storie personali sono il cuore pulsante di AdoptLife. Condividiamo testimonianze di adozione nazionale ed internazionale, racconti che mettono in luce le sfide e le gioie di chi vive questa esperienza. Queste storie non solo ispirano, ma aiutano anche a creare una maggiore consapevolezza e comprensione delle diverse dinamiche familiari. Offriamo risorse pratiche per chiunque sia coinvolto o interessato nell’adozione e nell’affido. Queste includono guide sugli aspetti psicologici e legali dell’adozione, consigli per affrontare le varie fasi del processo adottivo, e strumenti per la gestione delle sfide quotidiane. Inoltre, abbiamo rubriche culturali che trattano di libri, film e giochi legati all’adozione e all’infanzia. Questo approccio aiuta a normalizzare e integrare il discorso sull’adozione nella cultura popolare, rendendolo più accessibile e meno stigmatizzato. I consigli dei miei genitori adottivi sono particolarmente preziosi, offrendo una prospettiva diretta e pratica su come gestire le diverse situazioni. Spieghiamo il significato dell’adozione anche attraverso il gossip, mettendo in luce i pensieri dei personaggi noti sul tema. Di recente, abbiamo aperto uno sportello online per fornire supporto immediato a chi ne ha bisogno. Questo servizio è nato dall’esperienza maturata assistendo coppie nello scegliere l’ente per adottare, spiegando il percorso e aiutando i ragazzi nella ricerca delle origini. Il nostro sportello è una risorsa vitale per chi cerca risposte, consulenze o semplicemente una parola di conforto. Uno dei nostri obiettivi principali è affrontare e smantellare i pregiudizi legati all’adozione e all’affido. Attraverso articoli, testimonianze e risorse educative, cerchiamo di promuovere una maggiore comprensione e accettazione di queste pratiche. Vogliamo che la società veda l’adozione e l’affido non come ultime risorse, ma come scelte valide e amorevoli per costruire una famiglia. Per il futuro di AdoptLife, spero di trasformarlo in un magazine cartaceo disponibile mensilmente in tutte le edicole italiane e anche in altri paesi europei. Attualmente, non esiste a livello europeo un giornale sull’adozione e sull’affido, e vogliamo colmare questo vuoto. Continuando a lavorare attraverso le piattaforme social, apriremo ulteriori rubriche e selezioneremo nuove voci, affinché più professionisti possano contribuire con la propria esperienza a una buona cultura e educazione. L’obiettivo è creare una rete di supporto internazionale, dove le migliori pratiche e le storie ispiratrici possano essere condivise e celebrate. AdoptLife è più di un semplice progetto; è una missione. Vogliamo che ogni bambino abbia una famiglia amorevole e che ogni famiglia che decide di adottare o affidare possa farlo con tutte le informazioni, il supporto e le risorse necessarie. Crediamo che l’amore guarisca ogni ferita e che, con la giusta guida e comprensione, ogni storia di adozione possa diventare una storia di successo e di amore incondizionato.

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